TÓTEM di Lila Avilés– BERLINALE 2023

TÓTEM di Lila Avilés– BERLINALE 2023

(73 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 16 – 26 Febbraio 2023)

Sol si sta preparando per la festa di compleanno di suo padre Tona, che compirà ventisette anni e verrà festeggiato da amici e parenti. La madre Lucia cerca in tutti i modi di distrarre la bambina dalla sua palese malinconia dal momento che il suo unico desiderio ora è che suo padre ”non muoia”. Questo incontro è quasi una festa d’addio….

 

Uno dei miracoli che il cinema a volte può fare è quello di dare uno sguardo ai sentimenti più intimi e nascosti dell’uomo, riuscendo a creare quella naturalezza che spesso sfugge alla vita reale. Dopo il successo ottenuto nel 2018 con The Chambermaid, la regista messicana presenta a questa Berlinale un piccolo capolavoro, una commedia di grande sensibilità che ha sulla sfondo una reale tragedia. Ancora una volta il mondo dei grandi, nel bene e nel male, è osservato dalla sguardo pulito e innocente dei bambini, mettendo in luce quella rara sensibilità che negli adulti poi è destinata a scomparire, per dar posto spesso ad una costruita razionalità. La Avilés riesce così a sintetizzare con eleganza, per la durata limitata della proiezione, i momenti più salienti della vita fino a quello conclusivo della morte. L’azione si svolge nell’arco di una giornata ed inizia con i preparativi in cui tutti a diverso livello sono coinvolti, sullo sfondo la figura di Tona, oramai allo stremo delle proprie forze che, pur impossibilitato a muoversi, si sforza di apparire allegro e contento per la festa in suo onore. Dal momento che alla piccola non è consentito di vedere subito suo padre, perché questi deve riposare e raccogliere le poche energie per la sera, lo sguardo della regista è rivolto prevalentemente su di lei e sulla sua preoccupazione di essere ancora oggetto dell’amore paterno. La giornata sembra passare con una velocità diversa per la taciturna Sol che, mentre fervono i preparativi, si trova a vagare per casa con un raro impulso esplorativo, in attesa del momento in cui potrà finalmente abbracciare il padre. Nonostante il finale assuma un tono allegro e celebrativo, la regista concentra la propria attenzione sul concetto più grande dell’esistenza umana e della fragilità nell’affrontare i problemi seri di ogni giorno: lo sguardo di Sol (Naima Senties) ci traghetta all’interno di una grande famiglia, senza che la bambina possa comprendere ciò che sta per accadere. Una sceneggiatura che funziona bene, che si prende i tempi giusti per non cadere nella superficialità, una narrazione che al contrario necessita di attenzione per coglierne le più sottili sfumature. Un film che ispira tenerezza, affetto e qualche pensiero sulla caducità della vita che, proprio per questo, dovrebbe essere vissuta appieno in ogni momento. Tótem è stato accolto bene dalla critica internazionale e forse meriterebbe un Orso…

data di pubblicazione:22/02/2023








ING. BACHMANN – REISE IN DIE WÜSTE di M. von Trotta – BERLINALE 2023

ING. BACHMANN – REISE IN DIE WÜSTE di M. von Trotta – BERLINALE 2023

(73 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 16 – 26 Febbraio 2023)

Nel 1958 la poetessa e scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann incontra a Parigi Max Frisch, anch’egli scrittore. I due si innamorano e decidono di vivere insieme a casa di lui in Svizzera. Ma la relazione comincia a diventare insostenibile per entrambi e decidono quindi di separarsi. La salute della Bachmann diventa lentamente sempre più instabile e lei stessa decide di trovare un poco di pace nel deserto egiziano, in compagnia dell’amico Adolf Opel…

 

Per apprezzare in pieno questo film bisognerebbe conoscere almeno qualcosa su Ingeborg Bachmann e come questa scrittrice sia stata una figura di spicco nella letteratura, in lingua tedesca, degli anni cinquanta. Pochi leggono oggi le sue poesie, ma in alcuni ambienti intellettuali di Roma, città da lei amata e che divenne anche la sua residenza preferita, molti la ricordano soprattutto per essere stata una poetessa che lottò per la propria libertà e indipendenza. Lei stessa può essere considerata ante litteram una femminista, proprio in quel tempo quando ancora il termine non era stato coniato ed il mondo era per lo più controllato dagli uomini. Dopo il film su Hannah Arendt del 2012, Margarethe von Trotta ci riprova a portare sul grande schermo la figura di una donna che ha fatto parlare molto di sé. La ben conosciuta regista berlinese mette in evidenza un periodo limitato della vita della Bachmann, tralasciando intenzionalmente di parlare della sua tragica fine, avvenuta proprio a Roma. La regista sa bene come contrapporre due caratteri cosi diversi come quello di Max Frisch (Ronald Zehrfeld) e quello della Bachmann (Vicky Krieps), due figure che non riescono mai ad intendersi sia sul piano letterario, dove erano entrambi impegnati, sia su quello privato. Certamente nulla da obiettare sull’interpretazione come protagonista della Krieps, attrice lussemburghese che al momento è presente in molti film ma forse non perfettamente diretta dalla von Trotta, a causa anche di una sceneggiatura frammentaria e poco coerente. Forse l’errore è quello di essere caduta in alcuni cliché per voler a tutti i costi evidenziare come, proprio in questo viaggio nel deserto che dà il titolo al film, la Bachmann andasse alla ricerca di qualcosa che potesse colmare la propria solitudine interiore. I dialoghi sembrano artefatti e le sue asserzioni sul rapporto uomo-donna appaiono troppo influenzate dalla devastante relazione con lo stesso Frisch. Anche il voler sottolineare come la sua autodeterminazione nei confronti degli uomini passasse comunque da una emancipazione sessuale, rara a quei tempi, sembra portare confusione, più che chiarezza, alla sua vita. Forse un’occasione mancata per dare a questa donna, assolutamente anticonvenzionale, il giusto risalto che meritava…

data di pubblicazione:21/02/2023







MANODROME di John Trengove – BERLINALE 2023

MANODROME di John Trengove – BERLINALE 2023

(73 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 16 – 26 Febbraio 2023)

Ralphie, rimasto senza lavoro, si adatta a lavorare per Uber, fornendo il servizio di trasporto privato con la sua auto. La sua ragazza Sal lavora in un supermercato e sta per avere un bambino. Il giovane, alla vigilia della paternità, attraversa un periodo di grande turbamento che sta mettendo in crisi anche la sua identità sessuale. Riemergono rancori sopiti e una latente aggressività verso la società dalla quale si sente totalmente escluso e minacciato.

 

John Trengove è un regista sudafricano che proprio qui alla Berlinale nel 2017 ebbe il suo esordio con il film The Wound nella Sezione Panorama. Manodrome ritorna ad affrontare tematiche già presenti nel film precedente, mettendo in evidenza la fragilità dell’uomo di oggi di fronte ad una presa di coscienza e di libertà da parte del genere femminile. Ralphie è di per sé il prototipo dell’uomo taciturno, con un enorme quantità di disturbi della personalità irrisolti e che cerca di compensare i suoi complessi andando a sottoporsi ad estenuanti esercizi fisici pur di diventare un perfetto body builder. La sua eccessiva dose di narcisismo non sembra però essere funzionale al suo riscatto personale di fronte alla propria ragazza che è sul punto di partorire. Il fatto di trovarsi caricato della responsabilità di padre, con cui presto dovrà fare i conti, farà nascere in lui degli istinti da sempre repressi. La sua vita sembrerebbe poter aver un momento di chiarezza quando per caso il giovane incontrerà Dan, capo di un enclave di soli uomini i cui rigidi principi trovano ispirazione in manosphere, un blog che esalta la mascolinità e si oppone al femminismo, manifestando una irrefrenabile dose di misoginia. Diventando figlio di padre Dan, così si fa chiamare il leader spirituale, Ralphie si sente in principio protetto e spalleggiato dagli altri uomini della collettività che rivendicano il diritto di rifiutare le donne e di dedicarsi ad un volontario celibato. Al contrario, l’ingresso nel gruppo invece di sopire i drammi interni del giovane innescheranno presto una reazione omicida che lui stesso non riuscirà a reprimere. Il film, nonostante la buona performance di Jesse Eisenberg, nella parte del protagonista e quella di Adrien Brody in quella di Dan, non riesce a decollare. Sembra addirittura pretestuoso che ci si trovi ad essere testimoni degli impulsi criminali di qualcuno che non solo odia le donne, ma che estende le sue perversioni anche nei confronti degli uomini. Siamo ben lontani dal tratto distintivo dell’interpretazione di Robert De Niro in Taxi Driver di Scorsese, film cult considerato uno dei capolavori del regista e del cinema contemporaneo, con il quale si sarebbe portati a fare un paragone. In Manodrome si affronta, con una buona dose di superficialità, il tema dell’isolamento esistenziale dell’individuo di oggi e l’incapacità di molti di assumersi le proprie responsabilità di uomo e di padre.

data di pubblicazione:20/02/2023







THE QUIET GIRL di Colm Bairèad, 2023

THE QUIET GIRL di Colm Bairèad, 2023

Presentato alla Berlinale 2022, è uscito finalmente nelle sale The quiet girl. Film poetico e delicato, di crescita interiore e di scoperta, narra una piccola grande storia che ha a che fare non solo con l’accudimento e l’affetto genitoriale, ma nella sua semplicità tocca vette molto alte, grazie ad una regia sapiente ed alla dodicenne Catherine Clinnch nei panni della protagonista, di cui non ci si può che innamorare all’istante.

 

Siamo in Irlanda, all’inizio degli anni ’80 quando nel nord del paese le carceri pullulavano di attivisti in sciopero della fame, l’aria era tesa e la politica di Margaret Thatcher inamovibile. Nelle campagne, dove il cielo è azzurro e l’erba di un verde che esiste solo lì, vive una affollata e povera famiglia, composta da cinque figli e uno in arrivo, una madre indaffarata ed anaffettiva ed un padre violento, infedele, inglese. La piccola Cait ha 9 anni, è sensibile, tendenzialmente tranquilla e silenziosa, osserva tutto e tutti con i suoi grandi occhi azzurri, ama la natura e subisce la competitività delle sorelle maggiori che la deridono, con quella cattiveria quasi animalesca di chi deve necessariamente prevalere sull’altro per la propria sopravvivenza. Durante la pausa estiva, in attesa che nasca il sesto figlio, i genitori decidono di mandare Cait a casa di una cugina e di suo marito, benestanti e senza figli, lei molto accogliente e materna, lui burbero e molto impegnato nella gestione della fattoria che conduce senza l’aiuto di nessuno. Ma in poco tempo quella bambina, spaventata e silenziosa, farà sbocciare qualcosa in quella coppia attempata e lei stessa scoprirà che un’altra vita è possibile, cominciando a conoscere e ad assaporare quel dolce e caldo sapore che ha la cura affettiva.

Il tema dell’accudimento genitoriale presso famiglie di parenti è già stato affrontato varie volte al cinema, basti pensare allo splendido L’Arminuta di Boniti tratto dall’omonimo potente romanzo di Donatella Di Pietrantonio; ma in The quiet girl, Cait fa un percorso di crescita interiore che non ha a che fare solo con la scoperta di un altro mondo più bello di quello di provenienza: la sua presa di coscienza la porterà ad un grado di maturazione che le permetterà di operare delle scelte affettive, perché la cura a volte ha poco a che fare con la provenienza “carnale” ma è qualcosa di più profondo, che nasce da dentro e che si costruisce giorno dopo giorno.

Il film si snoda in un crescendo di emozioni che sul finale provoca una vera e propria esplosione, di quelle che ti fanno uscire leggeri, appagati. Un piccolo gioiello, un fiore che, come la sua bravissima protagonista, sboccia tra il verde dei prati irlandesi.

data di pubblicazione:20/02/2023


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DISCO BOY di Giacomo Abbruzzese – BERLINALE 2023

DISCO BOY di Giacomo Abbruzzese – BERLINALE 2023

(73 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 16 – 26 Febbraio 2023)

Aleksei fugge dalla Bielorussia in maniera illegale con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle un passato scomodo e di recarsi in Francia per arruolarsi nella Legione Straniera, unico modo per ottenere la cittadinanza francese. Superato un duro periodo di addestramento, il giovane viene mandato in missione sul delta del Niger allo scopo di liberare degli ostaggi in mano di alcuni guerriglieri sotto il comando di Jomo. Questi non è altro che un rivoluzionario che cerca di difendere il proprio villaggio dalla rovina ambientale causata dalla presenza di impianti petroliferi altamente inquinanti.

 

Disco Boy è l’unico film italiano in concorso, diretto dell’esordiente Giacomo Abbruzzese. Nato a Taranto, ma quasi naturalizzato francese, ha dovuto aspettare dieci anni prima di trovare una produzione francese che potesse realizzare il suo sogno e portare così a termine il suo ambizioso progetto. Il film parla di tre giovani Aleksei, Jomo e sua sorella Udoka, così diversi tra di loro ma che hanno in comune il fatto di voler raggiungere a qualsiasi prezzo la propria libertà, rifiutando condizionamenti imposti e inevitabilmente subiti. Il loro sarà un incontro scontro in una lotta dove però nessuno, pur impegnato a difendere i propri ideali, ha la volontà di annientare l’altro. Aleksei affronta un viaggio, quasi psichedelico, che inizia nella giungla nigeriana e approda poi in una moderna discoteca in città dove le luci stroboscopiche faranno da sfondo ad una presa di coscienza più profonda. Per lui non è facile adattarsi da esule a un nuovo modo di vivere, tra gente pronta a tutto pur di affrancarsi da un passato, che è meglio cancellare, e rinascere con un’identità nuova, scelta e non ereditata. Sarà proprio ballando che incrocerà per la prima volta lo sguardo magnetico di Udoka, andata via dal villaggio perché non crede più nelle idee rivoluzionarie del fratello. Ecco che Abbruzzese ha dimostrato, in questa sua lodevole opera prima, di avere il coraggio di raccontare di guerriglia e di portare dentro di essa la musica e la danza, due mondi diversi ma che riesce a rendere assimilabili perché entrambi richiedono impegno e disciplina ferrea. Il dramma umano si materializza nello sguardo feroce, ma anche smarrito, di Aleksei, interpretato dall’attore tedesco Franz Rogowski, bravissimo nel suo ruolo soprattutto quando dovrà affrontare una propria sfida interiore che metterà seriamente in crisi la sua permanenza nella Legione Straniera e, conseguentemente, il suo futuro in Francia. Disco Boy è un film che sotto le armi nasconde invece un cuore tenero e sensibile, merito del regista che ha saputo raccontare tutto in maniera genuina convolgendo emotivamente lo spettatore. L’arrangiamento musicale è curato da Vitalic, disc jockey francese che è stato uno dei primi a portare il teatro musicale elettronico nella scena underground. Da un esordio così ci si può aspettare solo grandi cose, a cominciare da questa Berlinale, e siamo tutti curiosi di vedere se quest’opera prima alla fine riceverà un meritato riconoscimento. Distribuito da Lucky Red, nelle sale a partire dal 9 marzo.

data di pubblicazione:20/02/2023








THE SURVIVAL OF KINDNESS di Rolf de Heer – BERLINALE 2023

THE SURVIVAL OF KINDNESS di Rolf de Heer – BERLINALE 2023

(73 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 16 – 26 Febbraio 2023)

Una donna nera rinchiusa in una gabbia viene lasciata morire in mezzo al deserto. La zona sembra essere infestata da qualcosa di epidemico e coloro che detengono ora il potere finiscono di annientare crudelmente gli indigeni sopravvissuti. La donna, oramai stremata, riesce però a liberarsi e a intraprendere un viaggio ai confini della realtà. Incontrerà gli orrori di questo mondo e la brutalità dei suoi aguzzini, ma lei riuscirà comunque a cavarsela. Tutto ciò è vero o solo pura immaginazione?

  

Rolf de Heer è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico olandese naturalizzato australiano. Nel 1993 il suo film Bad Boy Bubby ottenne il gran premio della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia e nel 2006 con 10 Canoe fu premiato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. The Survival of Kindness viene presentato in concorso in questa edizione della Berlinale. Il suo film, il cui titolo in italiano sarebbe “la sopravvivenza della gentilezza”, potrebbe apparire senza senso, ma invece è adatto per indicare un dramma allegorico ambientato nel nulla, in un deserto disseminato di ossa dove i pochi ancora in vita devono sottostare alla spietata violenza di una ristretta classe al potere. I personaggi non parlano, emettono solo rare espressioni incomprensibili che non consentono loro di comunicare. Quando la donna, abbandonata a morire in mezzo al deserto, riesce a liberarsi, non è chiaro se ci troviamo di fronte ad una situazione in contrasto con la realtà del presente, in un futuro distopico oppure in una costruzione simbolica. Il film si basa sulla metafora e gioca sul contrasto tra il reale e il fantastico, raggiungendo in alcuni momenti una dimensione surreale, quasi allucinatoria. Già dalla prima scena introduttiva ci troviamo di fronte ad un quadro apocalittico con figure armate, causa di aberranti atrocità verso vittime inermi. Quel che più lascia lo spettatore disorientato è lo scoprire che tutto ciò non è altro che una torta che sta per essere tagliata e divorata da veri personaggi, irriconoscibili perché indossano tutti maschere protettive antigas. Il ruolo della protagonista è affidato a Mwajemi Hussein, nata nel Congo e poi rifugiata con la sua famiglia in Tanzania ed ora in Australia, dopo aver ottenuto asilo politico. Lei, che mai aveva messo piede dentro un cinema, mai avrebbe immaginato di diventare la figura principale di un film diretto da un regista famoso come Rolf de Heer. Ci si chiede come lei stessa possa rimanere imperturbabile di fronte a scene di inimmaginabile brutalità. Si tratta di una presa di coscienza che nulla potrà essere fatto di fronte alla persecuzione e alla discriminazione, di cui sono ancora oggi vittime i neri, oppure una visione più ottimistica della vita, dove lo spirito buono è tutto quello che non si può ingabbiare ed è destinato comunque a sopravvivere ad ogni costo?

data di pubblicazione:18/02/2023








LAGGIU’ QUALCUNO MI AMA di Mario Martone – BERLINALE 2023

LAGGIU’ QUALCUNO MI AMA di Mario Martone – BERLINALE 2023

(73 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 16 – 26 Febbraio 2023)

Nel giugno del 1994 moriva prematuramente Massimo Troisi, poche ore dopo la fine delle ultime riprese de Il postino, film per il quale avrebbe ricevuto una candidatura postuma al premio Oscar come miglior attore. A questo indimenticabile regista, sceneggiatore e comico napoletano, che proprio in questi giorni avrebbe compiuto settanta anni, Mario Martone dedica un intero documentario in cui si ripercorre la sua storia attraverso la visione di inediti nonché di interventi di amici e colleghi che lo hanno sempre ammirato e amato.

 

Sembrerebbe forse inopportuno, o quanto meno strano, presentare oggi alla Berlinale e alla stampa internazionale un documentario che si ripropone di ricordare la carriera cinematografica di un attore che ha reso famose le peculiarità di una comicità tutta partenopea. Ma non è così. Troisi è e deve essere considerato uno dei maggiori interpreti nella storia del teatro e del cinema, italiano e internazionale. Come ci si può dimenticare infatti del film Ricomincio da tre? Così si decretò il suo successo, come attore e come regista esordiente, proprio per il fatto che lì veniva fuori palesemente il suo umorismo, semplice e schietto ma anche talvolta amaro, che avrebbe poi caratterizzato tutta la sua carriera. Il tributo di Martone, coadiuvato in questa sorprendente impresa da Anna Pavignano che è stata compagna e da sempre stretta collaboratrice di Troisi, risulta utile non solo per quella generazione che a partire dagli anni ottanta ha potuto gustare quel tipo di cinema, ma anche per i giovani che sanno poco di quel mondo, non essendo stati in contatto con la realtà di quel tempo. Il riportare sul grande schermo frammenti di scene, che molti ricordano a memoria, risulta funzionale a far capire meglio Troisi e i processi mentali che avevano fatto nascere le sue opere. Era il suo modo proprio di essere che si esprimeva con una gestualità goffa e un modo di dialogare timido e impacciato proprio di fronte all’amore e alle donne, temi sempre presenti nei suoi film. Come lui stesso sosteneva: “il tormento peggiore per l’uomo è l’amore perché, nonostante gli sforzi e le buone intenzioni, risulta sempre irraggiungibile”. Interessante l’intervento di Paolo Sorrentino in cui spiega con estrema chiarezza come sia stato da sempre influenzato da Troisi dal quale spesso ha tratto ispirazione per creare il carattere dei propri personaggi. Obiettivo quindi di Martone è di riportare alla ribalta un attore con il quale lui stesso riesce ancora a dialogare e a rinnovare quel rapporto di vera amicizia che esisteva tra di loro. Troisi è stato un grande e come Eduardo e lo stesso Totò è riuscito a creare un proprio stile espressivo che lo caratterizzava sia nei ruoli esclusivamente comici come in quelli più profondi. Il film è stato presentato nella Sezione Berlinale Special alla presenza di un folto pubblico che non si è risparmiato in una standing ovation a fine proiezione. In distribuzione nella sale italiane a partire dal 23 febbraio.

data di pubblicazione:17/02/2023








SHE CAME TO ME di Rebecca Miller – BERLINALE 2023

SHE CAME TO ME di Rebecca Miller – BERLINALE 2023

(73 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 16 – 26 Febbraio 2023)

Steven è un compositore che da un po’ di tempo non compone più, ha frequenti attacchi di panico ed è in piena crisi creativa. La moglie Patricia, psicoterapista, attraversa uno smarrimento esistenziale e, nonostante un figlio diciottenne, sperimenta una tardiva vocazione religiosa e desidera diventare suora. Per caso compare Katrina, donna eccentrica che vive e lavora su una chiatta nel porto di New York. Sarà proprio lei che involontariamente metterà a posto i diversi tasselli di un puzzle quanto mai irrisolvibile e che poi si comporrà nel più semplice dei modi.

Rebecca Miller, figlia del noto drammaturgo Arthur Miller, inaugura con She Came to Me questa 73esima edizione della Berlinale. Gli organizzatori di questa kermesse cinematografica non a caso hanno scelto una commedia per mettere in moto questo Festival, tra i più importanti a livello internazionale. La tradizione infatti vuole che a Berlino si inizi con un film leggero, forse a voler preparare la stampa ad affrontare l’arduo lavoro che le spetterà nei prossimi giorni con un programma quanto mai impegnativo in tutti i sensi. La Miller, con questo suo ultimo film, affronta il tema dell’amore in tutte le sue sfaccettature, da quello adolescenziale, tra due giovani pronti a giurarsi reciprocamente eterna fedeltà, a quello più maturo tra un uomo e una donna, oramai stanchi di doversi confrontare con il mondo che li circonda e, impresa tanto più faticosa, con se stessi. La sceneggiatura, curata dalla stessa regista, è ben strutturata ma, nel tentativo di voler risultare a tutti i costi anticonformista, ricade purtroppo in una inaspettata banalità. Sullo sfondo di una New York appena abbozzata, sia pur non esente dalle palesi contraddizioni che la caratterizzano, si muovono i vari personaggi che, con i loro diversi substrati sociali, si trovano a dividere e a condividere situazioni possibili, ma quanto mai improbabili. Le difformità fisiche e culturali dei protagonisti non sembrano aver peso nell’articolato contesto, che vuole proprio dimostrare come in amore tutte le combinazioni, anche le più apparentemente bizzarre, possano essere funzionali al raggiungimento della felicità. Il film riesce a riscattarsi grazie alla bravura del cast tra cui spicca Peter Dinklage nella parte del compositore Steven Lauddem e Anne Hathaway nella parte della moglie Patricia, terapista con diverse sindromi ossessive al limite della schizofrenia. La Hathaway, premio Oscar per la sua interpretazione nel film Les Misérables, in Italia è divenuta famosa per aver lavorato accanto a Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada, diretto nel 2006 da David Frankel. She Came to Me è un film sottile, di poche pretese, che riesce comunque ad intrattenere senza dimostrare, a tutti i costi, di possedere quel quid che in realtà non ha. Presentato fuori concorso nella Sezione Berlinale Special.

data di pubblicazione:16/02/2023








LA STORIA, tratto dal libro omonimo di  Elsa Morante, drammaturgia di Marco Archetti, regia di Fausto Cabra, con Franco Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa

LA STORIA, tratto dal libro omonimo di Elsa Morante, drammaturgia di Marco Archetti, regia di Fausto Cabra, con Franco Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa

(Teatro Vascello – Roma,8/19 febbraio 2023)

Il teatro tenta l’impresa di misurarsi con l’epocale libro del 1974 e la vince con una solida ricostruzione ellittica. Scenografia di grande suggestione e richiesta drammaturgica anche fisica che conta sull’eccezionale disponibilità degli attori.

Drammaturgia d’autore che si presta anche alla didattica se è vero che il teatro era affollato di liceali, assolutamente pronti alla ricezione del messaggio attraverso due ore di spettacolo teso con almeno cinque punti di suggestivo ed emotivo climax. Partendo da lontano, non tentando neanche lontanamente un approccio omogeneo con il film di Comencini, il plot si snoda precipuamente nella forbice pregna di eventi 1941/19457. In mezzo c’è il fascismo, l’improvvisa conversione del figlio della protagonista (metafora del cambiamento di milioni di italiani): dall’adorazione per il fascismo alla ribellione partigiana. In ordine sparso: il dramma degli ebrei, l’immersione negli stenti della guerra, le sconfitte, l’armistizio, una saga familiare, letta attraverso gli occhi di una donna che cerca di assembleare e gestire la piccola famiglia creata, allargata dopo uno stupro. La scelta evocativa scavalla l’esigenza realistica. Sono simboli cane e gatto, un attore capace e adulto si cala nelle vesti del bambino. Le luci e veloci cambi di scena permettono di sdoppiare le interpretazioni. Dunque uno spettacolo che ha richiesto una lunga gestazione, una Storia lunga e che viene da lontano. L’allocuzione dell’attore che si avvicina al pubblico sembra una riflessione d’attualità sull’eterno fascismo (tesi di Umberto Eco), mai scacciato definitivamente dal popolo italiano. Una Storia nuda e cruda che non sembra offrire vie di fuga e anticipate salvezze e dunque non contiene alcun palpito moralistico e sembra proporre allo spettatore la richiesta di risposte possibili e plausibili. Spettacolo di contenuti forti e di forma scenica ineccepibile. Coraggioso anche nella lunghezza (due ore) senza la pretesa di restituire tutti i particolari del complesso poliforme mosaico creato dalla Morante.

data di pubblicazione:16/02/2023


Il nostro voto:

CINEMA, MODA, COSTUME, CIRCOLI VIRTUOSI

CINEMA, MODA, COSTUME, CIRCOLI VIRTUOSI

La moda ripropone continuamente stili, modelli, forme dal passato. Si dice segua un movimento circolare, o meglio a spirale, in cui elementi della moda di decadi o secoli fa ritornano dopo un certo periodo e ispirino il presente e qualcosa di nuovo, o che cerca di esserlo, viene quindi prodotto (foto tratta dalla Mostra Pier Paolo Pasolini TUTTO È SANTO al Palazzo delle esposizioni di Roma).

 

 

Sono gli archivi di moda i custodi di questo patrimonio storico. Ogni anno gli stilisti fanno dei fulminei pellegrinaggi per guardare, studiare, toccare abiti e stoffe conservati attentamente per decenni e così lasciarsi ispirare per le loro imminenti collezioni. Siano essi archivi di impresa o archivi indipendenti di collezioni private poco importa perché in entrambi i casi sono ambienti alquanto esclusivi. Per ragionevoli questioni pratiche (conservazione, spazi, diritti d’autore, privacy) ma anche, probabilmente, per creare l’immagine romantica di misteriosi sancta sanctorum della moda dove vengono conservati i segreti del savoir-faire di un’azienda. Solo raramente possono essere visitati ma in ogni caso mai nella loro interezza (e sempre previo appuntamento ça va sans dire).

Dopotutto, per il pubblico più profano ci sono sempre i musei dedicati e le mostre a tema che catturano l’immaginazione con una varietà di artefatti e di mezzi espressivi (videoproiezioni, schermi interattivi, musica di sottofondo e chi più ne ha più ne metta) che creano esperienze di visita sempre più immersive. Gli abiti non sono meramente montati su tristi manichini senza vita ma diventano i protagonisti di scene evocative o vignette cinematiche il cui scopo è quello di lasciare a bocca aperta il visitatore. Come all’ultima mostra del Metropolitan di New York, In America: an Anthology of Fashion, per il cui allestimento sono stati chiamati a lasciare il proprio imprinting registi come Martin Scorsese, Sofia Coppola, Regina King, Chloé Zhao e l’eclettico Tom Ford.

Ci sono però più spettatori che guardano film e serie tv che visitatori nei musei e nelle gallerie, e sicuramente molti di più di coloro che frequentano gli archivi di moda (nel 2020, il 27.3% della popolazione italiana ha frequentato musei e mostre mentre il 45.3% è andato al cinema, Istat). Il guardare al passato per molti dunque avviene tramite il guardare uno schermo. E il cinema ha un legame stretto con la storia: fin dalle sue origini ha sempre avuto una forte inclinazione per le grandi rievocazioni con i primi kolossal e le trasposizioni di importanti classici della letteratura. E fin da subito (come nella storia dell’arte prima di esso) uno degli strumenti per comunicare il periodo storico allo spettatore è proprio il costume.

A quanti è capitato di ricordare, di leggere, di sentir parlare di un evento storico, un periodo e subito pensare a un film ambientato in quell’epoca?… Un illustre esempio? Se si parla di Risorgimento, come non pensare alle grandiose immagini create da Visconti con Senso e Il Gattopardo? E intrinsecamente anche i meravigliosi abiti a crinolina di Piero Tosi. Si potrebbe dire che il costume può innestare e coltivare una familiarità visuale con l’abito storico, indipendentemente dalle conoscenze dello spettatore, andando a formare una memoria collettiva di moda. Il costume mostra l’esperienza fisica dell’abito di un certo periodo – come veniva indossato, come si muoveva. (Ci sarebbero poi le questioni della loro accuratezza e di come la moda del presente del film si imponga nella ricostruzione storica ma sono temi per altri post).

Per concludere, se della storia della moda l’archivio è il custode, il cinema ne è il divulgatore più capillare che con la sua narrazione contestualizza anche gli usi e le convenzioni sartoriali del passato. Succede poi che i film e i costumi stessi diventino le muse della moda…creando un meraviglioso circolo virtuoso.

data di pubblicazione:13/02/2023