da Daniela Palumbo | Feb 28, 2025
Indovina chi viene a cena, stasera? FolleMente è il racconto di un primo appuntamento. Uno come tanti, forse. Con lui che si presenta alla porta tenendo in mano un mazzolin di fiori mentre lei prova l’outfit fino all’ultimo secondo utile. Sarà soltanto un’avventura? Ma soprattutto, si tratta davvero di un tȇte-à-tȇte?
Tutto accade in una sera. Sono un uomo e una donna (Edoardo Leo, Pilar Fogliati) in un interno. Fatto di mobili, divani, pareti. Con una piccola veranda “fantasmagorica”, che dà sulla strada. E che si cambia, all’occorrenza, in una sorta di lanterna magica. Quinte e palcoscenico raccolti in un unico luogo, qui prendono forma le emozioni che ciascuno di noi conosce bene o ricorda. Imbarazzo e ritrosia da “prima volta”, desiderio di aprirsi e paura di sbagliare (un solo pensiero può rovinare tutto!), pause di silenzio e rossori improvvisi. Una captatio benevolentiae in piena regola mira a conquistare la simpatia dello spettatore, ad estorcere tenerezza, persino. Sin dalle prime scene. Lui che inciampa ogni tre passi sulle tante suppellettili, nell’appartamento in penombra che “fa atmosfera”. Lei che “scivola” su quel lapsus impudico (ci sdraiamo a tavola? …l’ho detto veramente?!), per poi incepparsi in un singhiozzo molesto e pressoché infantile. Tutto ciò non può che far sorridere. Ma il sale – ed anche il pepe, direi – della storia è dato dalla presenza di altri otto personaggi, quattro per parte, icone delle identità maschili e femminili, con caratterizzazioni da manuale e qualche guizzo insolito. Impersonati da attori reali – brillanti negli interventi, credibili nella mimica e nelle battute – questi personaggi “altri” altro non sono che parti della mente, di lui e di lei. Tratti diversi, spesso contrastanti, di una stessa personalità. Impeccabile Rocco Papaleo nel ruolo del disilluso, sorprendente Maurizio Lastrico che quanto a soavità batte sul campo la “sognatrice” Vittoria Puccini. Semplicemente straordinaria Emanuela Fanelli, la simpatica seduttrice. E comunque bravi tutti.
In questo allegro carosello si avvicendano erotismo e romanticismo, voglia d’indipendenza e bisogno d’amore. Ma anche razionalità, prudenza e un pizzico di disincanto. Presenti sulla scena dall’inizio alla fine, questi “prodotti della fantasia” sono in realtà più veri di quanto non si possa credere. Fanno sorridere ma tengono viva l’attenzione, discutono e si scontrano tra loro ma rimangono lì, spostandosi di un pouf appena. Sono la famiglia – talora ingombrante – che avvolge e che scalda, sono gli amici che non ti abbandonano. Che stanno lì a smussare, sostenere, lavorare di dialettica, dare una mano. E che risolvono alla fine ciò che da soli, in una coppia, forse non si potrebbe. Perché in due è bello, ma in tanti – tutti insieme appassionatamente – è meglio. Lo abbiamo detto davvero?!
data di pubblicazione:28/02/2025
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da Daniela Palumbo | Feb 17, 2025
Netflix ripropone un classico del genere, datato 1979, forse il più conosciuto tra i prison movie. Aggiunto di recente, è già tra i primi dieci film “più visti” sulla nota piattaforma. La materia è costruita a partire da un fatto realmente accaduto: l’evasione di tre detenuti – Frank Morris e i fratelli Anglin – dal penitenziario di massima sicurezza al largo della baia di San Francisco. Reclusi, come tanti altri sull’isola. Fuggiti, come nessun altro prima di loro. E mai ritrovati.
Il nome, che pare svettare maestoso già nel titolo, riecheggia nella memoria di tutti noi. Alcatraz, dal suono quasi onomatopeico, è roccia che emerge nella sua crudezza, come una mannaia pronta a tranciare carni, e vite umane.
Sin dalle primissime inquadrature lo spettatore è immerso nel buio più cupo, dentro un tunnel di rumori sordi e ripetitivi. Una pioggia battente pare sospingere il battello di Caronte, carico di prigionieri, verso la tana che non offre riparo, né lascia presagire alcuna via d’uscita.
Interpretato da un Clint Eastwood solido e carismatico, il personaggio di Morris avanza a testa alta, va incontro a quel destino che appare da subito segnato in modo irreversibile. Non ci si chiede – né si saprà – quale sia il crimine da lui commesso, cosa abbia fatto “prima”, né da dove arrivi. Si può solo seguirlo in questa discesa agli Inferi, in catene e con gli occhi dietro le spalle.
Le scene si susseguono combinando spesso brevità e lentezza, cosicché i tempi dell’azione e quelli della riflessione (o dell’apatia) risultano ora contratti ora dilatati. Le sbarre di ogni singola cella si chiudono e si riaprono come macabri meccanismi a molla. Le guardie misurano i corridoi a piccoli passi regolari. I gesti sono reiterati e opprimenti, così come gli oggetti, snaturati e convertiti in altro, al pari degli individui. Il pathos, però – onnipresente nel rapporto tra quasi tutti i carcerati – è amplificato da un fraseggio di sguardi, talora molto intensi, tanto da sopperire all’impossibile scambio di parole o al contatto fisico negato.
La tensione, specie nella seconda parte del film, cresce via via che il piano di fuga procede facendosi sempre più concreto e rischioso. Non mancano elementi di suspense degni del migliore Hitchcock (il vicino di cella, incaricato di dare l’allarme all’approssimarsi del secondino, mentre Morris “scava” sul muro, nel momento fatidico non riesce a fischiare e dalle labbra quasi atrofizzate viene fuori un soffio impercettibile). Guardando oltre gli stratagemmi narrativi, il messaggio si mostra allo spettatore di ieri e di oggi con estrema chiarezza e mira a far riflettere sulla condizione dell’uomo privato della sua stessa umanità. L’essere braccato e inerme, sottoposto a violenze di rara crudeltà, in un ribaltamento di piani che quasi mai viene messo in rilievo nella giusta misura.
Dal primo all’ultimo momento, nel corso della pellicola, non ci si chiede cosa abbia fatto ciascuno di quei condannati. Né ci viene detto, il più delle volte. Ci basta, per immedesimarci, riconoscere qualche frammento di umanità in ciò che di umano ha ormai poco o nulla. Un topolino scelto come unico e inseparabile amico, una tavolozza di colori per “liberare” l’anima… o un crisantemo, il fiore che sopravvive alla morte, pur non essendo rosa né tulipano.
data di pubblicazione:17/02/2025
da Daniela Palumbo | Gen 29, 2025
Cem, primario della “clinica dell’amore”, è un uomo apparentemente sicuro di sé, ma fortemente inibito dalle delusioni del passato. Pur nascondendo al grande pubblico la sua vera identità, per inettitudine alle relazioni sociali, l’uomo fa della cura dei suoi “malati” la propria ragione di vita. Quasi una missione. L’amore non esiste: questo il suo unico vangelo. Sarà davvero – e soprattutto fino in fondo – una buona novella?
Se tutti gli amori felici si assomigliano (tanto da sembrare tutti uguali, anonimi), ogni amore infelice lo è a modo proprio? È il pensiero – o l’interrogativo -, lo spunto celeberrimo che ciascuno degli otto episodi della serie vuole richiamare alla memoria. E lo fa attraverso una carrellata parodistica di soggetti disperati, con situazioni sentimentali altrettanto disperate. Sono cellule impazzite, destinate a moltiplicarsi senza controllo. Sono note sfuggite alla partitura.
Ideale direttore d’orchestra è lo stravagante Cem (Halit Ergenç), terapeuta per nulla convenzionale – a metà strada tra un Dr House e uno Sherlock Holmes in versione nerd – egli stesso afflitto da crisi nervose e accessi ipocondriaci. Crampi e singulti e sudorazioni improvvise suscitano il riso – o piuttosto la “grassa” risata – innanzitutto nel suo stesso doppio, il suo antico sé obeso riflesso nello specchio. Cinico quanto basta, ma per il bene dei suoi pazienti, questo personaggio di resistente inveterato è il punto di forza dell’intera fiction. La sua ostinazione nel voler guarire a tutti i costi chiunque si rivolga a lui (e non solo) è pari alla sua fragilità, che appare estrema, il più delle volte. Specie nel difficile rapporto con la propria madre (un classico), con la quale comunica quasi sempre attraverso brevi telefonate, annunciate da una eloquente suoneria (un classico anche questo: gli archetti stridenti di Psycho).
Fa quasi tenerezza, questo guru della solitudine, non importa quanto possa risultare irritante. Poiché incarna le debolezze umane e la loro esatta contraddizione. E lo spettatore finisce per empatizzare più con lui che con la “romantica” ed impulsiva Hazal (Funda Eryigit), sua collaboratrice e suo alter ego. Aperta, lei, a tutte le vie del sentimento. Ma la domanda è: sono tutte percorribili queste vie? Lo sono davvero?
data di pubblicazione:29/01/2025
da Daniela Palumbo | Gen 12, 2025
(Immagine tratta dal film Ad Vitam- Netflix)
Franck e la moglie Léo sono due agenti speciali del GIGN. Decidono di avere un figlio, incoraggiati dai colleghi del gruppo, che per loro costituiscono già una famiglia. Coinvolti in un losco affare di Stato, i due rischiano la vita. E soprattutto, vengono separati l’uno dall’altra: lei rapita, lui ricercato per un omicidio che non ha commesso.
È un film d’azione, ma à la française. Non mancano gli “effetti speciali”, dalla motocicletta lanciata in una folle corsa al volo col parapendio, passando attraverso le acrobazie del parkour sui tetti di Parigi. Né si fanno attendere sparatorie ed inseguimenti su strada. E complotti e sotterfugi ad ogni angolo. Il tocco francese è dato piuttosto da una certa malinconia, che sfiora l’anima. Quel mal de vivre che, nonostante un dinamismo spesso senza pause o freni, non risparmia nessuno. Per ragioni diverse.
Così, man mano che il protagonista – braccato – ascende ai cieli sopra Versailles o volteggia tra i comignoli delle case, noi spettatori ci caliamo nel profondo delle emozioni tra le più oscure. Perdere un amico, sentire il peso di una colpa senza rimedio, guardare negli occhi il bambino cui è stato sottratto il padre. E ancora, andare via – per non farvi ritorno – dal luogo cui sentivamo di appartenere. Che non ci vuole più, e ci respinge. Ormai a noi estraneo. Tutto questo lo “viviamo”, lo sentiamo, insieme a lui, il protagonista della storia. Eroe ed antieroe insieme, interpretato dall’ottimo Guillaume Canet, perfetto tanto nel ruolo del “duro” (come da manuale) quanto in quello di compagno premuroso e tenerissimo padre. Apprezzabile anche la prova di Stéphane Caillard, nel ruolo di Léo, coraggiosa con naturalezza, ora nella lotta ora nella resistenza. Ad vitam. Per la vita.
data di pubblicazione:12/01/2025
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da Daniela Palumbo | Dic 22, 2024
Una giovane donna, di ritorno da un breve viaggio nell’Oklahoma delle proprie origini, sbarca all’aeroporto JFK di New York. Il tragitto in taxi, più lungo del previsto, sarà l’occasione per intraprendere una conversazione illuminante con Clark il tassista. Quasi un gioco della verità, favorito dall’iniziale anonimato e dalle ombre della notte, in quella che è annunciata da lui come la sua “ultima corsa”.
Immaginate, una notte qualunque, di scivolare dentro un taxi, convinti che questo vi riporterà a casa nel breve spazio di qualche chilometro. E di ritrovarvi, invece, a bordo di una sorta di macchina del tempo. Dove l’ora che vedrete scattare sul tassametro, al vostro ingresso, non è altro che l’inizio di un conto alla rovescia, verso un passato che riemerge per lasciarsi vivere ancora. Immaginate, alla guida, uno sconosciuto. Uno “del mestiere”. Di cui dovrete fidarvi, comunque. Al quale consegnerete alcune delle “cifre” della vostra vita, a cominciare dal numero della via dove abitate (tra la quarantaquattresima e la nona – dirà la ragazza; un incrocio che sembra quasi il convergere di due sinfonie). E poi, lungo tutto il percorso, un unico paesaggio: gli occhi, lo sguardo di lui, quasi sempre attraverso lo specchio retrovisore. Beffardo, ironico e provocatorio. Ma anche intenerito, addolorato, commosso.
Primissimi piani dell’uno e dell’altra protagonista – Sean Penn e Dakota Johnson, ispirati nelle loro rispettive parti – con inquadrature spesso al limite dell’invadenza, lasciano trasparire stati d’animo fugaci e svelti come le ruote sull’asfalto. I pensieri fluiscono, lungo tutto il film, inseguiti dalle parole, dalle tante domande. E l’abitacolo dell’auto diventa alcova di paure e desideri.
Quanto è difficile svelarsi ad uno sconosciuto? Quanto sospetto, quanta diffidenza o indifferenza fanno il paio con quel gesto ormai troppo consueto di pagare con la carta, o digitando codici “senza mai aprire la borsa”?
Eppure è proprio l’incontro fortuito di due solitudini nella notte – uomo e donna, tassista e passeggera – a dare la misura di quella che è la dimensione umana. Guardarsi, chiamarsi per nome, raccontarsi, provare compassione. Senza vergogna né imbarazzo. Come in un gioco, si vince o si perde (da due a zero a due pari e poi oltre…), ma essendo comunque esentati dal giudizio.
E mentre i messaggi dell’anonimo (o innominato) “uomo sposato”, sul telefono di lei, incalzano con la loro ortografia difettosa, rivelatrice di ben più gravi “errori” (Your’re skin * your), le mani del tassista battono il tempo sul volante. Un tam tam quasi tribale, autentico, scandisce un qui ed ora che non ha alcunché di finto, né di virtuale. Sebbene spesso si richiami ad una surrealtà più prossima al sogno, o alla memoria – forse distorta – di quel passato lontano. Hai mai danzato per tuo padre? – chiederà lui, rabdomante metropolitano, quasi evocando quella “danza della pioggia” che ha del primitivo e del prodigioso insieme. Lui, disilluso dalla vita eppure ancora pieno di tenero vigore, verso se stesso e verso ogni sconosciuto compagno di viaggio, con una storia da raccontare.
E così scorre e si snoda tutto il film, in un percorso che quasi vorremmo non finisse più, che non giungesse mai a destinazione. Per non separarci da loro, il tassista e la ragazza. Che sentiamo vicini, tra di loro e a noi stessi. Per ragioni diverse, simili a noi. Come fratelli che non sapevamo di avere.
data di pubblicazione:22/12/2024
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