da Daniela Palumbo | Mag 9, 2025
(Teatro Biondo – Palermo, 8 maggio 2025)
Al Biondo di Palermo, una campagna abbonamenti lanciata in anticipo rispetto alle date consuete e incentrata su una felice combinazione di nomi autorevoli e nuove prospettive. Con una mano protesa verso i giovani, ricercati sia come fruitori sia come portatori di modernità. E un abbraccio che si estende a tutto il territorio e oltre.
“Teatro Biondo – Cultura aperta”: l’insegna s’impone come primo tratto distintivo del progetto, presentato in anteprima con soddisfazione ed entusiasmo. Una cultura, ovvero un teatro che s’intende “percorribile”. Aperto a ciascun tipo di pubblico, al territorio nella sua interezza, ai diversi generi teatrali.
Sul palco della Sala Strehler – preceduto da Gianni Puglisi, Presidente del Teatro Biondo – si svela, con la parola e con il gesto, il direttore artistico Valerio Santoro. “Uomo di teatro”, come lo definiscono ed egli stesso si definisce. Eclettico per passione.
Un corale e colorito benvenuto in perfetto gergo teatrale (assessori alla Cultura e al Turismo ed altri artisti – attori e registi locali – gli fanno compagnia in questa sede) introduce il nuovo protagonista. “Un napoletano a Palermo” (o quasi napoletano), ospite di questa “terra magnetica” e insieme labirintica, dove fermentano e proliferano la “poesia e la musica”, nel segno della speranza. Duettando idealmente con il maestro Marco Betta, sovrintendente del più noto (in campo nazionale) Teatro Massimo di Palermo, Santoro annuncia, inoltre, un singolare coniugio tra prosa e lirica. L’obiettivo: lavorare “insieme” per creare armonia, e diffonderla ovunque la sua voce possa giungere.
Dunque, un progetto ampio e ambizioso. Che si concretizza e si manifesta quasi come una visione. Una sorta di “onda culturale”, un’onda lunga, volta a raggiungere finanche le zone più marginali o periferiche della città. Uno specchio d’acqua, in altre parole, limpida o torbida, a seconda della storia. Dove ciascuno potrà vedere riflessa (da qui il titolo Storie che si riflettono) una parte di se stesso, trasferendo dal palcoscenico alla platea – e viceversa – molecole d’anima, particelle di vita.
Il cartellone, di cui vengono enumerati alla fine gli spettacoli della stagione (a cominciare da Re Chicchinella di Emma Dante, 18-26 ottobre), si presenta corposo e vario. E vanta nomi prestigiosi, da Silvio Orlando (Ciarlatani di Pablo Remón, 18-23 novembre) a Toni Servillo (Tre modi per non morire di Giuseppe Montesano, 28 gennaio-1febbraio). Da Giuliana De Sio (Il gabbiano di Anton Čechov, 4-8 febbraio) a Gabriele Lavia, regista e interprete in Lungo viaggio verso la notte (3-8 marzo).
Una menzione particolare merita La principessa di Lampedusa (data unica, 11 ottobre), diretto e interpretato da Sonia Bergamasco, una trama che si iscrive nell’ambito del “Progetto Gattopardo” che si svolgerà nell’arco di un triennio, fino al 2027.
Un invito al viaggio, dunque. In un teatro che vuole vagare, ritrovandosi, oltre le barriere del tempo e dello spazio.
data di pubblicazione:09/05/2025
da Daniela Palumbo | Mag 1, 2025
Un treno ad alta velocità diretto a Tokyo rischia di saltare in aria per effetto di una bomba piazzata nelle vetture da un anonimo attentatore. Impossibile viaggiare al di sotto dei cento chilometri orari, impossibile frenare. Difficile, per il personale di bordo, gestire l’emergenza e le reazioni dei tanti passeggeri, facendo i conti al tempo stesso con la paura di morire. Suspense garantita fino all’ultima sequenza o quasi: chi si salverà? chi dovrà essere sacrificato?
Remake di una pellicola giapponese datata 1975 (vaghe reminiscenze del contemporaneo Cassandra crossing potrebbero affiorare alla mente di qualche spettatore), questo thriller a tema ferroviario offre un miscuglio ben dosato di adrenalina e commozione.
Vi si ritrovano, uno dopo l’altro, tutti i “passaggi” tipici del genere. Dalla breve carrellata dei personaggi – molto diversi tra loro – nella parte introduttiva, all’irruzione della minaccia con crescente percezione del pericolo. Panico tra i passeggeri, scontri spesso violenti, e tensioni tra gli “addetti” a mantenere ordine e controllo. Tra questi, spicca la figura del capotreno Takaichi (interpretato da un intenso Tsuyoshi Kusanagi), sin dalle prime scene presentato come una sorta di nume tutelare dei vagoni, tanto calmo, quasi imperturbabile, quanto attento e scrupoloso. A lui il compito di proteggere, mettere in salvo ciascun viaggiatore (non uno di meno), mantenere viva la speranza, in più di un senso. E al di là dei binari, nel chiuso di un’efficientissima centrale operativa, il medesimo ruolo è svolto, col massimo del coinvolgimento, dal direttore e dai collaboratori tutti, compreso un rappresentante del governo per buona parte della vicenda trincerato nel proprio cinismo.
Il tratto di maggiore originalità – nella narrazione di questa storia che è luogo comune del cinema – è dato da quelle “suggestioni d’oriente” di cui la pellicola risulta per buona parte impregnata. Così il tema si snoda, al ritmo vorticoso del treno, tra un harakiri autopunitivo – percepito nelle scene più impetuose o drammatiche – e una pacata saggezza, messa in risalto grazie a certi primi piani realizzati ad hoc, con focus sullo sguardo.
Tecnologie all’avanguardia e umanità, reciproci e profondi inchini – segno di obbedienza o devozione – ma anche spirito di squadra e senso di appartenenza, ponderazione e operosità estrema si alternano armoniosamente fino alle ultime riprese. Con un messaggio che prevale su tutto, persino sull’angoscia della catastrofe, o sull’istinto di sopravvivenza: amare chi non riesce ad amarsi è l’unica salvezza possibile. Per tutti quanti. Perché, semplicemente, “è difficile da credere, ma si può sempre ricominciare”. Insieme.
data di pubblicazione:01/05/2025
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da Daniela Palumbo | Apr 10, 2025
adattamento e regia di Luca Bargagna, con Silvia Ajelli, Claudio Di Palma, Arturo Muselli, Antonio Elia
(Teatro Biondo – Palermo, 9/13 aprile 2025)
Adattamento teatrale di un racconto di Raymond Carver, la pièce rievoca gli ultimi momenti di vita di Anton Čechov, gravemente colpito da una malattia ai polmoni, come peraltro lo stesso Carver. Traendo ispirazione da alcune pagine del diario di Olga Knipper, sulla scena si alternano ricordi del passato e citazioni letterarie, in un’atmosfera intima e drammatica insieme.
Luca Bargagna interpreta il testo di Raymond Carver – scrittore di racconti e poeta statunitense – e lo porta sulla scena mescolando biografia e invenzione, realismo e sogno. È l’incubo della morte incombente che si trasforma in visioni tanto oniriche quanto prosaiche. La poesia dei gesti quotidiani, colti nell’intimità tra Anton e la moglie Olga – accovacciarsi insieme sul pavimento, adagiare il cappotto sulle spalle dell’altro o semplicemente chiedersi come stai? – dilaga e trova spazio (materiale e simbolico) nel teatro. Rievocato, recitato e vissuto, questo, per celebrare la grandezza di chi ha scritto, creato, amato. E ancora ama.
Così gli interni domestici (casa o camera d’albergo?) che compongono la scena, nella loro sobrietà essenziale, sembrano aprire improvvisi squarci su orizzonti grandiosi. Si tratta proprio di lui, il Čechov scrittore al quale persino l’immenso Tolstoj volle rendere visita. Grande anche lui, pur nella sua modestia, e tuttavia incapace di disancorarsi da una realtà limitata, come limitata è l’umana esistenza. Proprio come i personaggi dei suoi racconti, l’uomo Čechov non è proiettato verso un’eternità, che non esiste. Alla domanda “dove vanno i suoi personaggi?” lui per primo risponderà, con squisita ironia, “dal divano al ripostiglio”, una replica che trova corrispondenza tanto nello spazio scenico quanto nei brevissimi spostamenti all’interno dello stesso.
La malattia costringe Anton in un ambiente ridotto, corto come il suo respiro, ravvivato solo dall’esuberanza della fedele moglie attrice, e dalle sue “numerose coppie di mani gesticolanti”. Eppure lui sogna di tornare a Mosca, con lei, e con un vestito nuovo di flanella bianca. E improvvisa una danza anche, lì sul palcoscenico. Una breve danza cheek to cheek sulle note di un jazz suadente, finché la tosse interrompe tutto bruscamente, e il respiro si cambia in rantolo. Il corpo cede e la malattia ha il sopravvento, mostrando il fallimento della medicina. E di ciò il dottor Schwohrer in persona – testimone impotente della vicenda – per primo si rammarica.
Curare il corpo può essere, dunque, inutile e vano. Di contro, l’intelletto resiste, deve resistere, a costo di sforzi e fatica. Perché come dice a gran voce la stessa Olga, sempre più appassionata e audace, quello che scrive Anton “è necessario”. Per la sua poesia e bellezza, è necessario alla vita. E lui resiste, in questa sentita rappresentazione, fino al fatidico “Io muoio” plateale e sommesso insieme. A più riprese, sulla scena, Čechov muore della stessa morte di Carver, in una sorta di mise en abyme in cui si specchia e si riflette l’uomo. O lo stesso spettatore.
E dopo l’ultimo respiro? Si lascia spazio agli oggetti e alla loro simbologia: un telefono, una bottiglia di champagne, tre calici di cristallo su un vassoio, in equilibrio precario sulla testa di un improbabile cameriere, strampalato nell’aspetto e nei modi. A lui “l’incarico” di mutare il delirio dato dal dolore estremo in un ironico gioco di parole, che suscita il riso in mezzo alle lacrime. A lui il compito di raccogliere il tappo, sfuggito a quell’ultima bottiglia di Moët e che giace, superstite, sul pavimento. In attesa che qualcuno si chini a raccoglierlo e, finalmente, lo serri in pugno.
data di pubblicazione:10/04/2025
Il nostro voto: 
da Daniela Palumbo | Apr 3, 2025
con Vincenzo Pirrotta, Lucia Portale, Alessandro Romano, Marcello Montalto e i musicisti Luca Mauceri, Mario Spolidoro, Osvaldo Costabile
(Teatro Biondo – Palermo, 28 marzo/6 aprile 2025)
Tratta dall’omonimo libro, autobiografia di Vincenzo Rabito, questa trasposizione teatrale mette in scena il racconto di un contadino analfabeta di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, che ripercorrendo le tappe della sua “molto desprezzata e maletrattata vita” attraversa tutto il Novecento.
La storia è quella di Vincenzo Rabito, figlio di un Salvatore che fu e di una Salvatrice, madre tanto amata, rimasta vedova con sette creature da sfamare.
È un diseredato, lui. “Rapito” fin dalla tenera età dalla sorte, e costantemente in fuga. Sempre in cerca di salvezza e di affrancamento per sé e per i suoi familiari. Sopravvive, malgrado il destino avverso. Al lavoro “sotto padrone”, alle timpulate delle femmine nei casini, alla lingua della suocera maldicente, ai commendatori e ai ruffiani. Sopravvive alle guerre, soprattutto. Tutte e due le guerre. E ogni volta, “si salva”.
La scena è spoglia, quasi desolata, come l’esistenza. Solo una sedia, quasi sempre al centro del palco. Un caposaldo su cui “stare”, seduto oppure in piedi. Altre volte simile a un bastone, o a una stampella, da tenere sottobraccio come una baionetta. Sullo sfondo, un trio di musicanti. E di tanto in tanto qualche breve comparsa. Sono apparizioni per lo più grottesche, dal carabiniere con tanto di pennacchio al brioso barbiere dotato di mantellina svolazzante.
In primo piano, sotto le luci della ribalta, la figura di lui, lo straordinario mattatore Pirrotta, che è anche regista e ideatore della pièce. Cantastorie infaticabile, capace di recitare a perdifiato per oltre un’ora e mezza alternando toni diversi (il lirico, il comico, il drammatico), Vincenzo attore/autore esprime al meglio uno dei motivi essenziali: la capacità di adattamento. Come insegna la fame, o la necessità di mettersi addosso qualcosa, qualsiasi cosa (emblematico ed esilarante l’aneddoto delle divise distribuite ai soldati, tutte uguali e della medesima taglia: “pantaloni per uno di un metro e novanta a me che ero un metro e cinquanta… e dei quaranta centimetri in più, che me ne facevo?!”).
Un fiume di parole, dunque. Inarrestabile come l’epopea di questo contadino, soldato zappatore e carbonaio all’occorrenza. E le parole, proprio quelle, sono protagoniste assolute, padrone indiscusse della scena. Brulle come i terreni incolti, ferite e storpie come i mutilati nelle trincee. Approssimative, come il succedersi degli eventi. Imprevedibili. Eppure pregne di verità, autentiche. Vengono alla luce una dopo l’altra, così, come i figli. Turiddu e poi Tanuzzo e poi ancora Giovanni. Figli cercati, voluti, e insieme “calati dal cielo” (lanciati e presi al volo) come se nulla fosse. E riscattati, alla fine, da quella miseria vissuta realmente e realmente patita. Perché quello che “ci cunta” Vincenzo Rabito, classe 1899, forse non è tanto comprensibile, e non è detto “come si deve”. Però senz’altro, e senza dubbio alcuno, “è successo davvero”. E lascia il segno, o il solco, su questa terra matta dove trascorre la vita.
data di pubblicazione:03/04/2025
Il nostro voto: 
da Daniela Palumbo | Mar 18, 2025
Una famiglia apparentemente tranquilla viene sconvolta da un evento traumatico: l’arresto del figlio appena tredicenne, Jamie, accusato di aver accoltellato a morte una compagna di scuola. “Non ho fatto nulla” – ripeterà il ragazzo. I genitori, dal canto loro, sono convinti che si tratti di un errore di persona. Sarà vero? O è vero il contrario?
Si ispira al genere true crime questa miniserie britannica girata in piano sequenza, senza tagli e senza interruzioni. Solo un cambio di prospettiva, seguendo il cammino spesso tortuoso dell’uno o dell’altro personaggio. Un filo che non si spezza né si recide, ma si avvolge e si dipana via via come una matassa. O si espande come una ragnatela. Un male che coinvolge in primo luogo il giovane Jamie Miller (Owen Cooper, ottimo interprete), protagonista della vicenda. Ma anche la sua famiglia, gli amici, la comunità tutta intera.
Chi è il vero colpevole? Chi ha ucciso chi, e come lo ha fatto. Poiché si può uccidere in tanti modi. E soprattutto, come può un bambino – poco più di questo, in realtà – essere all’origine di un tale crimine. E subirne le conseguenze, proprio come fosse un uomo, un adulto.
Tra le primissime scene, l’irruzione degli agenti di polizia dentro casa dei Miller. Per arrestare lui, il ragazzino. Prelevarlo, stanarlo da sotto le coperte, lì dove appare gracile e indifeso, e col pigiama irrorato di paura. Irrompono in egual misura l’incredulità, lo sgomento, e al tempo stesso il sospetto, terribile. Ma a risultare davvero straziante, nel corso di tutta la narrazione in “presa diretta”, non è il pianto di Jamie. Piuttosto, è quel baratro negli occhi smarriti del padre, Eddie Miller (interpretato da un intenso Stephen Graham), la smorfia atroce sul viso contratto di lui, man mano che gli eventi si susseguono e il “vero” si disvela. Sono le lacrime trattenute a fatica dalla psicologa (Erin Doherty) al termine dell’ultimo estenuante colloquio col ragazzo/detenuto. È lo sguardo attonito di Luke, l’ispettore incaricato del caso (Ashley Walters), di fronte a una realtà che egli stesso (a sua volta padre di un adolescente) ignorava. Mentre gli adulti armeggiano con logiche e tecniche ormai prive di senso (ricerca del movente, testimonianze di altri per “capire perché”), i giovanissimi si muovono sotterraneamente, con linguaggi cifrati, portatori di ambiguità e violenza (“Non lo sapevo! È difficile credere a tutto questo tramite due simboli…”).
Si cerca dunque una verità che nella “rete” virtuale dei rapporti fasulli semplicemente non esiste. Distorta, deformata, mutata in pensiero fallace nella mente dei figli (“Per me è importante quello che pensi, non quello che è vero”). E proprio in questa mancata corrispondenza tra intima percezione e dato di realtà risiede il dramma di questa “Adolescence”. Che non fa più rima con “Innocence”. In un mondo di piccoli che fa paura ai grandi.
data di pubblicazione:18/03/2025
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