FIORE di Claudio Giovannesi, 2016

FIORE di Claudio Giovannesi, 2016

Daphne e Josh, colpevoli di fronte alla legge per aver compiuto dei piccoli furti, devono scontare la pena in un carcere minorile. Pur essendo detenuti in sezioni separate, trovano il modo di incrociare i propri sguardi e, nonostante il divieto assoluto di comunicare tra di loro, iniziano una intensa e passionale storia d’amore che al momento, tra le mura e le grate che li separano, si limiterà ad uno scambio furtivo di bigliettini e di brevissimi contatti fatti di semplici e innocenti gesti. E così il loro vissuto, le loro colpe e le frustrazioni causate da un affetto a loro negato, sembrano improvvisamente svanire per lasciare il posto allo sbocciare di “un fiore” che i due adolescenti riescono a custodire e ad alimentare con l’amore che, come sempre, non conosce ostacoli perché capace di andare oltre le sbarre dell’incomprensione e delle sterili convenzioni sociali.

Ben presto imparano, sulla propria pelle, che in carcere la privazione della libertà investe soprattutto la sfera dei sentimenti e che per correre insieme verso un futuro che sta lì ad aspettarli, oltre le mura penitenziali, bisogna necessariamente infrangere quelle barriere.

Dopo il successo di Alì ha gli occhi azzuri, che ha ottenuto nel 2012 il premio speciale della giuria al Festival Internazionale del Film di Roma, ancora una volta il regista romano Claudio Giovannesi ci racconta una storia vera di adolescenti veri.

I protagonisti, interpretati rispettivamente da Daphne Scoccia e Joshua Algeri, alla loro prima esperienza cinematografica rappresentano sé stessi, riuscendo a trasmettere quel giusto pathos emotivo richiesto dall’intenso script e rendendo la narrazione assolutamente perfetta grazie alla loro spontaneità, con imprevisti e colpi di scena che non risultano per niente banali o scontati.

A questi due giovani interpreti si affianca, come padre di Daphne, Valerio Mastandrea che con brevi apparizioni riesce a comunicarci quella giusta dose di sentimento paterno, intenso ma impacciato, grazie a quella collaudata naturalezza che ben conosciamo.

Questa bella pellicola sicuramente riceverà dal pubblico in sala lo stesso calore con cui è stato accolto a Cannes, dove il film è stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.

data di pubblicazione:24/05/2016


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IL MESTIERE DELLE ARMI di Ermanno Olmi, 2001

IL MESTIERE DELLE ARMI di Ermanno Olmi, 2001

Presentato in concorso al 54° Festival di Cannes, dove ebbe solo una nomination per la Palma d’oro, il film ottenne in compenso tantissimi riconoscimenti in Italia e sicuramente si può considerare tra i film più riusciti di Olmi insieme a L’albero degli zoccoli del 1978.
Giovanni dalle Bande Nere, pseudonimo di Giovanni De’ Medici, accorre in difesa dello Stato Pontificio per fronteggiare l’armata dei Lanzichenecchi scesi in Italia, su ordine dell’imperatore Carlo V, con l’obiettivo di saccheggiare Roma.
Il duca di Ferrara Alfonso I d’Este, in cambio del matrimonio di suo figlio Ercole II con una principessa imperiale, dona al condottiero invasore quattro cannoni in grado di abbattere qualsiasi tipo di armatura tradizionale. Infatti durante un attacco alle truppe nemiche Giovanni De’ Medici viene colpito dalla nuova arma letale e, gravemente ferito ad una gamba, viene trasferito a Mantova presso il palazzo dei Gonzaga.
Nonostante le cure, la ferita si infetta e provoca una cancrena che costringe il medico di corte ad amputare l’arto. Con la morte del valoroso condottiero fiorentino i Lanzichenecchi avranno via libera per Roma che verrà selvaggiamente depredata nel maggio del 1527.
Il regista, famoso per la ricercatezza delle sue ambientazioni scenografiche, utilizza una fotografia dai toni scuri che rimanda ad uno studio approfondito dell’arte rinascimentale, con particolare riferimento alla pittura del Mantegna, attivo a Mantova presso i Gonzaga.
Il mestiere delle armi è un film di altissimo spessore anche per il suo valore storiografico in quanto ci spiega come, con l’introduzione delle armi da fuoco, si rivoluzionavano gli ideali bellici e cavallereschi che avevano sino a quel momento ispirato i grandi condottieri.
I duchi di Mantova ci ispirano questa torta sbrisolona, dolce tipico della zona.

INGREDIENTI: 200 grammi di farina bianca – 200 grammi di farina gialla – 2 tuorli d’ uovo – 200 grammi di mandorle tritate – 200 grammi di zucchero – 100 grammi di strutto – 100 grammi di burro.
PROCEDIMENTO: Mescolare i due tipi di farina, le mandorle, lo zucchero e i due tuorli d’uovo. Aggiungere lo strutto ed il burro senza fonderli, facendoli solo ammorbidire a temperatura ambiente. Amalgamare il tutto, impastando a piccoli grumi che dovranno essere sistemati disordinatamente nella teglia imburrata.
Infornare per circa 40 minuti ad una temperatura di 180 gradi, fino a quando la torta risulti ben dorata.

LA MEMORIA DELL’ACQUA di Patricio Guzmàn, 2016

LA MEMORIA DELL’ACQUA di Patricio Guzmàn, 2016

Tutto è composto sostanzialmente d’acqua: noi siamo acqua, le pietre sono acqua, le stelle sono acqua. E poiché l’acqua ha una memoria propria, cioè ha insita in sé la capacità di mantenere nel tempo il ricordo delle cose e delle circostanze con le quali nei secoli è venuta a contatto, se mai arriverà il giorno in cui riusciremo a decifrare tale fenomeno, allora potremo leggere come in un libro tutta la storia dell’umanità e dell’universo intero.

Patricio Guzmàn è un regista, sceneggiatore, attore, scrittore e fotografo cileno già molto conosciuto a livello internazionale per aver raccontato, nei suoi innumerevoli documentari, la storia del suo paese, con le sue lotte e rivolte, arrivando ai fatti riguardanti le tristi vicende politiche che hanno attraversato il Cile e di cui lui stesso ne rimase vittima ai tempi della dittatura di Pinochet.

La memoria dell’acqua, Orso d’argento alla Berlinale 2015 per la miglior sceneggiatura, non è un documentario che ci parla solo dell’acqua e della sua innegabile memoria, ma è anche un punto di avvio che Guzmàn sceglie per narrare ancora una volta la storia del suo paese martoriato, nel corso dei secoli, da eccidi di massa, partendo da quelli che hanno portato alla quasi radicale estinzione delle prime popolazioni aborigene che abitavano le regioni della Patagonia da millenni.

Attraverso la testimonianza dei pochissimi sopravvissuti al massacro perpetuato dai primi coloni europei, veniamo pertanto a conoscenza della vita primordiale di questi antichissimi popoli che vivevano sostanzialmente da nomadi spostandosi su rudimentali canoe lungo le frastagliatissime coste cilene, un enorme arcipelago che emerge dalle immense acque dell’oceano Pacifico. Da questi racconti il regista passa lentamente a frammenti di storia più recenti, quando migliaia di uomini e donne vennero trucidati solo perché ritenuti oppositori al regime di Pinochet: molte furono le vittime che furono fatte sparire gettando, i loro corpi torturati, direttamente nell’oceano, legati a porzioni di binari della ferrovia affinché essi venissero definitivamente inghiottiti dall’acqua, facendone disperdere le tracce, i così detti desaparecidos.

La fotografia di Guzmàn, assieme ad una voce fuori campo, ci narrano la vera storia del Cile in un modo diretto ed essenziale, senza falsa retorica, coinvolgendoci emotivamente in un vissuto forse a noi lontano ma che in qualche modo ci riguarda in quanto uomini.

Ecco quindi che questo documentario, come già abbiamo avuto modo di riscontrare in Fuocoammare di Rosi, diventa un documento prezioso, una testimonianza di qualcosa di accaduto che ci induce a riflettere su atrocità fine a se stesse, una sorta di atroce capriccio del potere di pochi a danno di molti, un segreto che l’acqua stessa ha mantenuto e che ora ci rivela restituendocene la memoria perché siamo tutti ruscelli di una stessa acqua.

data di pubblicazione:08/05/2016


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MINOTAURO – EL ALMA GRITA, regia e coreografia di Dario Carbonelli

MINOTAURO – EL ALMA GRITA, regia e coreografia di Dario Carbonelli

(Teatro Vascello – Roma, 25 aprile)

Accompagnato da uno struggente lamento il Minotauro si trascina in catene per consumare in solitudine la sua condanna nel labirinto, un luogo pensato tutto per lui dove si entra per non uscire.

Con questo incipit Dario Carbonelli avvia uno spettacolo di danza dove il flamenco rappresenta al meglio l’idea del ritmo martellante di un’anima che grida dolore: i movimenti, fuori dalle comuni regole coreografiche, rimangono circoscritti in un antro buio, uno spazio solo per il sé e per la propria immagine riflessa.

Una voce narrante ci guida passo passo nel turbinio del dramma mitologico che da sempre ci appassiona e atterrisce nello stesso tempo: il Minotauro ha due facce, come la nostra natura umana, di cui una nascosta e mostruosa, impresentabile in società. Ma proprio questo lato oscuro di noi è quello che nella sostanza ci affascina perché ci attira morbosamente verso il proibito, verso il diverso.

Ecco allora che il flamenco risulta funzionale alla storia perché non rappresenta solo uno stile di ballo, attorno al quale ruota la musica e la poesia, ma diventa una vera e propria filosofia di vita, un’espressione di pura passione.

Mentre all’inizio il Minotauro danza solo per la propria morte, successivamente, dopo l’incontro con la fanciulla destinata ad essere a lui sacrificata, la cadenza assordante dei suoi passi diventa lentamente un inno all’amore.

Tutto però ci riporta ben presto alla caducità della vita ed il filo di Arianna non introduce solo Teseo all’interno del labirinto, ma con sé porta la disperazione e la morte, la punizione e la condanna, il disorientamento e la presa di coscienza finale.

Dario Carbonelli, oramai da anni, orienta la propria attività di ballerino e coreografo esclusivamente verso il flamenco e nel 2015 ha creato un’associazione che promuove corsi e spettacoli per la diffusione in Italia  di questa peculiare forma di danza.

Alla chitarra classica i musicisti Marco Perona, Francesco De Vita e Riccardo Rubi Garcia che insieme alle percussioni di Paolo Monaldi ed al sax di Fabio Cimatti hanno formato un ensemble di grande effetto interpretando perfettamente le musiche di Marco Perona che non solo accompagnano il ballo dello stesso Carbonelli, ma anche predispongono la base sonora per le canzoni eseguite da David Palomar, Josè Salguero e Vicente Gelo, sincronizzando il tutto con il ritmo incalzante proprio del flamenco. Riccardo Polizzy Carbonelli ci ha guidato con la sua intensa recitazione in questo percorso di vita, amore e morte che però si può anche rivedere all’inverso, dal momento che il Minotauro passa, attraverso l’amore, dalla morte alla vita. Apparentemente fuori contesto il brano composto e cantato da Carlo Putelli che, con il suo particolare timbro vocale, riesce invece a creare quel giusto contrappunto alle musiche che hanno accompagnato lo spettacolo.

Molta partecipazione da parte del pubblico che si è lasciato trascinare dal vortice frenetico del ritmo andaluso in una atmosfera carica di emozione e tormento, tipica del mondo gitano.

data di pubblicazione: 27/04/2016


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MINOTAURO – EL ALMA GRITA, regia e coreografia di Dario Carbonelli

PILADE di Pier Paolo Pasolini, regia di Daniele Salvo

(Teatro Vascello –  Roma 21 aprile/1° maggio 2016)

Daniele Salvo, regista ed attore emiliano diplomato al “Teatro Stabile di Torino” e allievo di Luca Ronconi con il quale ha collaborato per diversi anni, dopo il successo ottenuto con Dionysus ci propone, sempre al Teatro Vascello, Pilade tratto da un testo che Pier Paolo Pasolini scrisse e rimaneggiò più volte alla fine degli anni settanta.

Pasolini riprende la corposa trilogia di Eschilo, l’Orestea, conclusasi con la definitiva assoluzione di Oreste per l’intervento decisivo di Atena, dea della Ragione. Oreste era stato processato per l’uccisione della madre Clitemnestra, che a sua volta aveva ucciso il marito Agamennone, re della città di Argo.

Lo scritto pasoliniano parte dall’ascesa al potere di Oreste, in quanto erede naturale del tiranno Agamennone, che, una volta liberatosi dalla persecuzione delle Eumenidi, può finalmente regnare introducendo nella polis i principi di democrazia, illuminato dalla stessa Atena che gli suggerisce di rinnegare il passato per proiettarsi verso un futuro di sovranità popolare,  in cui potrà prosperare solo il benessere e il progresso della collettività.

Ma Oreste, pur animato da buoni propositi, finisce ben presto col rinnegare i propri valori per ricadere invece nella tirannide e, pur di conservare il dominio, non esita ad allearsi con la sorella Elettra, fino a quel momento isolata a causa delle sue idee reazionarie.

Pasolini non perde l’occasione di attualizzare il testo al contesto politico sociale del suo tempo dove, sotto falsi ideali di democrazia, si nascondeva l’arroganza dei partiti politici, sinistra inclusa, che pur di mantenere il potere non esitavano a sacrificare le proprie idee a vantaggio di una società neocapitalistica e borghese.

A questo punto della narrazione interviene Pilade per cercare di distogliere Oreste dalla sua insana  brama di comando e cercare di convincerlo che l’unica soluzione valida è quella di fondare la vita sul passato, ciò che realmente conosciamo e che quindi possiamo sinceramente amare e apprezzare.

Presentato come un diverso, si pone in contrapposizione all’autorità in difesa dei deboli e degli emarginati, fautore di una rivoluzione armata contro la supremazia, per dare giustizia alle masse umiliate e derise proprio da quelli che dovevano difenderli.

Pasolini palesemente si identifica con Pilade, anche lui considerato un diverso per le proprie scelte ideologiche e di vita, rifiutato dalla società borghese, sottoposto a un continuo processo e allontanato dal contesto politico per il quale aveva sacrificato le proprie energie.

Fallisce quindi la sua rivoluzione, forse anche lui tentato dalla bramosia di potenza, come falliva in quegli anni la rivolta del proletariato in Italia, un’utopia destinata a soccombere di fronte a una realtà politica rimasta immutata nella sostanza, una forma di assolutismo capace di annientare qualsiasi idea sovversiva e renderla parte del sistema.

La tragedia di Pilade, solo e nudo sulla scena, ci riporta inevitabilmente al dramma vissuto da Pasolini, sacrificato e ucciso da coloro che vedevano minacciati i centri di potere, in difesa di una falsa Ragion di Stato.

Forse nelle intenzioni doveva essere un messaggio concreto e diretto volto alle masse, ma il testo teatrale pasoliniano non risulta di così facile accesso, decisamente privo di quella essenzialità che era un punto fermo almeno nell’idea del suo autore.

Ottima la regia di Daniele Salvo, più che collaudato nella trasposizioni dei classici per aver più volte rappresentato le tragedie al Teatro Greco di Siracusa, e di ottimo livello tutto il folto cast impegnato sulla scena con particolare riferimento a Elio D’Alessandro nel ruolo di Pilade e Marco Imparato in quello di Oreste, che hanno saputo trasmettere al pubblico il pathos peculiare della narrazione, una recitazione perfetta che ha rivelato una preparazione di altissimo grado drammaturgico.

D’effetto le luci di Valerio Geroldi e i costumi di Nika Campisi che riescono ad attualizzare i contenuti peculiari della mitologia greca nella realtà odierna in cui, ancora una volta, il pensiero di Pasolini ci appare quanto mai attuale, un chiaro riferimento alla lotta per l’egemonia e alla palese mistificazione degli ideali di democrazia e di salute sociale.

data di pubblicazione: 24/04/2016


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