CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino, 2018

CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino, 2018

Estate del 1983: nella villa del Prof. Perlman arriva ospite un giovane americano per completare la propria tesi. Oliver è un uomo pieno di fascino, colto ed intelligente, con una buona dose di empatia e, in breve tempo, riuscirà ad accattivarsi la stima di tutti, inclusa quella di Elio, il figlio del professore. Tra i due nascerà inizialmente un’amicizia sincera che però piano piano sfocerà in un profondo rapporto affettivo. Finito il soggiorno di studio, Oliver tornerà negli Stati Uniti non senza il piacevole ricordo del calore di quella famiglia che lo ha ospitato e dei bellissimi momenti trascorsi con il giovane Elio.

 

Presentato nel 2017 in anteprima mondiale al Sundance Film Festival, Chiamami col tuo nome partecipò subito dopo alla Berlinale dove fu salutato quasi con una standing ovation, polarizzando a buon ragione l’attenzione del pubblico. La storia, tratta dall’omonimo romanzo di André Aciman e di cui il palermitano doc Luca Guadagnino ne ha firmato la sceneggiatura insieme a James Ivory e Walter Fasano, si svolge in una non meglio identificata campagna del Nord d’Italia, dove il professore universitario d’arte antica Perlman e la sua famiglia trascorrono serenamente l’estate. Elio, il diciassettenne figlio del professore, è un ragazzo molto maturo per la sua età, ama trascorrere il tempo tra lettura e musica dilettandosi a suonare al piano brani classici con una notevole professionalità, anche se non disdegna, come tutti i suoi coetanei, passare le sue serate nei bar del paese a bere con gli amici e a ballare. Nella tranquillità della vita di tutta la famiglia, irrompe con forza e vitalità il ventiquattrenne americano Oliver, ospitato nella villa affinché possa completare i suoi studi di dottorato. La frequentazione quotidiana tra i due giovani si trasforma pian piano in una relazione che li coinvolge intimamente senza che loro stessi se ne rendano conto.

La potenza di questo film sta proprio nell’aver utilizzato, attraverso delle immagini definite “idilliache” dallo stesso regista, un linguaggio espressivo semplice e autentico dove non occorrono parole per definire un sentimento di fatto indefinibile. Le scene sono girate in un modo da far sembrare tutto molto naturale e la fotografia ci fa veramente percepire la gradevolezza del paesaggio estivo in cui è ambientata la storia, ricorrendo a volte a delle dissolvenze che con discreto pudore sottraggono lo sguardo dalle immagini più intime. In sottofondo abbiamo un’Italia degli inizi anni ottanta dove, nonostante le turbolenti questioni politiche, imperava ancora l’idea di guardare al futuro con una giusta dose di ottimismo. Il film non è una love story tra due ragazzi, perché sarebbe troppo riduttivo definirla tale: sin dalle prime scene si viene catturati dalla bellezza dei luoghi in cui è ambientato e dall’interpretazione assolutamente naturale dei due protagonisti Timothée Chalamet (Elio) e Armie Hammer (Oliver), come se la narrazione trattata fosse vita vissuta, e sicuramente si deve a questo giovane regista l’abilità di aver reso percepibile, in immagini e dialoghi, che si può dare un esatto contorno alla felicità e all’amore solo quando dopo averli vissuti si prova la sofferenza di perderli.

Distribuito finalmente in Italia dopo aver riscosso ampi consensi in tutto il mondo, Chiamami col tuo nome come tutti sanno ha ottenuto, successivamente alle tre nomination ai Golden Globe, quattro candidature ai premi Oscar 2018: miglior film, miglior attore (Chalamet), miglior sceneggiatura non originale, miglior canzone (Mystery of Love). Non ci sarebbe da meravigliarsi se il film riuscirà ad ottenere anche una sola delle prestigiose statuette, avendo tutti gli ingredienti che lo hanno già reso tanto caro al pubblico americano e non solo.

data di pubblicazione:28/01/2018


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GEPPETTO E GEPPETTO scritto e diretto da Tindaro Granata

GEPPETTO E GEPPETTO scritto e diretto da Tindaro Granata

(Teatro India – Roma, 24/28 gennaio 2018)

Geppetto e Geppetto (alias Tony e Luca) sono felicemente in coppia da diversi anni, quando in loro nasce il desiderio di diventare genitori. In assenza di una madre o meglio di una donna, come fece Geppetto in Pinocchio i due dovranno cercare un modo per dar vita al proprio figlio, non certo modellando un pezzo di legno, bensì ricorrendo a quello che volgarmente viene definito “utero in affitto”, operazione possibile solo all’estero dietro esborso di una ingente somma di denaro per affrontare tutte le pratiche, burocratiche e non, necessarie allo scopo.

 

Lo spettacolo nasce nel 2016 in occasione della XXII esima edizione della rassegna di teatro omosessuale Garofano Verde ed è stato scritto subito dopo l’approvazione in Parlamento della legge Cirinnà proprio per affrontare, tra il serio e il faceto, l’attualissimo tema della stepchild adoption che ha tanto diviso i partiti politici e l’opinione pubblica italiana in generale. Scritto e diretto da Tindaro Granata, che interpreta Luca sulla scena, il lavoro ha già avuto diversi premi che ne hanno sottolineato l’impegno sociale e divulgativo al tempo stesso, dal momento che lo si potrebbe considerare come un valido vademecum per gli aspiranti padri gay. Intramezzato da reali interviste fuori campo, lo spettacolo snocciola via via tutte le varie problematiche psicosociali che, sin dalla nascita, il figlio e i due patri, l’uno biologico e l’altro adottivo, dovranno affrontare nel quotidiano. Matteo, divenuto oramai un uomo adulto, si chiede ora del perché di questa scelta che ha permesso di farlo nascere in una famiglia diversa dove non è contemplata una figura femminile. Il regista ha ideato un buon testo, perfettamente equilibrato nel quale affronta i pro e i contro dell’intera vicenda, trattata con assoluta imparzialità, inserendo qua e là situazioni leggere e divertenti senza mai cadere nel grottesco. Un meritato bravo quindi al sicilianissimo Tindaro Granata e all’intero cast che sulla scena hanno dato vita ad un incontro/scontro dove non sono mancati anche momenti espressivi di grande impatto drammaturgico. La produzione è del Teatro Stabile di Genova, Festival delle Colline Torinesi e Proxima Res.

data di pubblicazione:25/01/2018


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DAS KAFFEE HAUS (LA BOTTEGA DEL CAFFÈ) di Rainer Werner Fassbinder, da Carlo Goldoni

DAS KAFFEE HAUS (LA BOTTEGA DEL CAFFÈ) di Rainer Werner Fassbinder, da Carlo Goldoni

(Teatro Vascello – Roma, 23/28 gennaio 2018)

In scena al Teatro Vascello la Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, diretta da Veronica Cruciani, che ci presenta il riadattamento di un lavoro teatrale che Fassbinder alla fine degli anni sessanta scrisse ispirandosi alla celebre commedia goldoniana.

Torna quindi alla ribalta il regista tedesco rimasto indimenticabile per i suoi film trasgressivi che portavano in sé un disagio spesso di natura sociale di cui era intrisa la Germania di allora, dilaniata da tensioni internazionali. Gli attori si muovono in una Venezia in pieno carnevale, tutta risplendente di luci violente e di suoni che si alternano, rimandandoci dal settecento a oggi dove tutto è cambiato nell’apparenza ma non nella sostanza. Lo sguardo di Goldoni, rivolto ad una borghesia veneziana che gravita intorno alla bottega del caffè, dà spazio a una serie di personaggi pieni di contraddizioni emotive ma tutti interessati essenzialmente agli zecchini di allora, che vengono oggi convertiti automaticamente in dollari, sterline, euro con una ripetizione ossessiva, una sorta di mantra rivolto al dio denaro da cui tutti indistintamente sono attratti. Seppur uomini e donne subiscano in maniera eguale questo fascino, l’approccio all’atto pratico è poi diverso e tale differenza è ciò che caratterizza il genere maschile rispetto al genere femminile. La posizione sociale della donna, inizialmente succube, riesce alla fine a capovolgersi lasciando l’uomo a confrontarsi con la propria fragilità e le proprie incongruenze. Il cast è composto da attori molto bravi e la cura nell’adattamento scenico è amplificato da una forte drammaturgia sonora.

Ottima l’iniziativa della regista di rispolverare un classico, accostando il grande nome di Goldoni a Fassbinder, che seppur lontani nel tempo, entrambi seppero scrutare l’intimo dell’uomo per rivelarne la natura e i desideri più nascosti, spesso inconfessabili.

data di pubblicazione:24/01/2018


Il nostro voto:

LOVELESS di Andrey Zvyagintsev, 2018

LOVELESS di Andrey Zvyagintsev, 2018

In una Russia oramai super patinata, Zhenya e Boris affrontano in maniera rancorosa e aggressiva la decisione inevitabile del loro divorzio, alla luce anche del fatto che entrambi stanno già costruendo una propria vita alternativa sulla quale ripongono grandi aspettative. Messa in vendita la casa coniugale, rimane da affrontare l’unico problema ancora rimasto irrisolto: la sistemazione del proprio figlio dodicenne Alyocha, considerato sin dalla nascita come un intralcio alla realizzazione della loro felicità. Ben consapevole di tutto questo e del futuro che lo attende, il ragazzo un giorno decide di scomparire non lasciando alcuna traccia o indizio che possa in qualche modo agevolarne le ricerche.

 

Il regista e attore Andrey Zvyagintsev, noto nel 2003 per aver vinto a Venezia il Leone d’Oro con il suo film d’esordio Il ritorno, ottenendo un grande successo sia di pubblico che di critica, considerato il degno discepolo del grande Tarkovsky con il suo ultimo lavoro Loveless, premiato dalla giuria al Festival di Cannes 2017, mostra ancora una volta la sua particolare sensibilità. La pellicola infatti affronta temi delicati in cui emergono le problematiche di un paese oramai saturo di benessere, dove tuttavia risultano ancora carenti gli elementi formativi basilari che, dall’intimità del singolo, investono poi il sociale. La limpidezza dei paesaggi invernali ricoperti di neve che sembra cadere senza soluzione di continuità, come a voler rimuovere qualcosa di scomodo, non sembra possa attenuare la cupezza che incombe sui personaggi, alla ricerca di un qualcosa che possa appagare la loro vita in un contesto dove, all’evidente opulenza materiale, risulta altrettanto evidente la mancanza assoluta di amore, tema sul quale ruota l’intera narrazione.

Il regista tiene pertanto a sottolineare quanto sia drammatico non tanto il fatto che Zhenya e Boris non abbiano ricevuto amore dalla famiglia di appartenenza, ma che la tragedia vera e propria risulta essere la loro incapacità nel produrre amore verso sé stessi e verso il loro unico figlio Alyocha. Il desiderio del ragazzo di essere amato si percepisce dal suo pianto silenzioso e, consapevole del deserto affettivo che lo circonda, preferisce sparire guidato dalla ferma volontà di non farsi più ritrovare. Il passare del tempo, nonostante le apparenze, sembra però non voler sbiadire il senso di colpa che attanaglia i due disgraziati genitori, anche dopo essere riusciti a costruire un nuovo nucleo familiare. Il film raggiunge momenti di grande tensione emotiva che difficilmente lo spettatore riesce a dominare, supportati da una recitazione intensa e ricca di pathos. Ci si chiede se a tutto ciò ci sia una via di scampo, se lo domanda il pubblico e la stessa Zhenya che, nella scena finale mentre si esercita in casa sul tapis roulant, guardando fisso nell’obiettivo sembra chiederci un disperato aiuto.

Un film assolutamente da non perdere.

data di pubblicazione:24/01/2018


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GIUDIZIO UNIVERSALE di Vittorio De Sica, 1961

Un mattino normale di una giornata normale a Napoli improvvisamente irrompe una voce grave e altisonante che sembra provenire dall’alto dei cieli per annunciare che alle ore 18 precise di quello stesso giorno inizierà il “Giudizio Universale”. L’insolito comunicato si ripete più volte e la gente presa dalle quotidiane faccende all’inizio pensa trattarsi di uno scherzo di cattivo gusto, ma poi, data l’insistenza, incomincia a prendere sul serio la questione mostrando una giustificata preoccupazione. Interessanti infatti sono le diverse reazioni da parte di questa variegata moltitudine di uomini e di come ciascuno, in maniera più o meno convinta, si prepara all’incontro con il Padreterno. Alle 18 in punto, sotto lo scrosciare di un diluvio, pure lui universale, inizia il giudizio che però si conclude in maniera enigmatica così come del resto era iniziato. Il soggetto, sapientemente scritto da Cesare Zavattini, dopo l’esperienza con De Sica nel ben riuscito film di impronta neorealistica Miracolo a Milano, questa volta assume un tono decisamente surreale, quasi un pretesto per raccontare di Napoli con le sue storie di vita quotidiana intrecciate di miseria e nobiltà. Il film fu accolto tiepidamente dalla critica che lo definì deludente come contenuto anche se supportato da un cast di attori eccezionali tutti rigorosamente scelti tra i migliori del momento, escludendo volutamente quelli napoletani pur essendo la storia totalmente ambientata a Napoli. Proprio la città partenopea ci fa affiancare a questa pellicola una ricetta di stampo prettamente mediterraneo, un piatto saporito e di ottimo effetto: melanzane a “scarpone” ripiene.

INGREDIENTI: 5 melanzane – 300 grammi di pomodorini – 100 grammi di olive nere denocciolate – 50 grammi di capperi – 150 grammi di mozzarella – 50 grammi di parmigiano grattugiato – basilico – olio – sale e pepe qb.

PROCEDIMENTO: Tagliare le melanzane a metà e svuotarle della polpa senza romperle. Disporre le melanzane sotto sale per far perdere loro l’acqua. Dopo circa un’ora sciacquarle e disporle in una teglia ricoperta di carta da forno quindi fare cuocere in forno per circa 10 minuti a 180°. Intanto tagliare la polpa delle melanzane a dadini e friggerli in olio d’oliva finché non risultano ben dorati. In una padella scottare i pomodorini tagliati a pezzetti e poi sistemarli in una ciotola insieme alle melanzane fritte, i capperi dissalati, le olive nere, il parmigiano grattugiato e la mozzarella tagliata a pezzetti. Levare dal forno gli “scarponi” di melanzane e riempirli con il composto creato. Infornare per altri 15 minuti, guarnire con qualche foglia di basilico e servire il tutto ben caldo.