NIDO DI VIPERE di Kim Yong-Hoon, 2022

NIDO DI VIPERE di Kim Yong-Hoon, 2022

Joong-Man proprietario con la vecchia madre di un negozio oramai sull’orlo del fallimento, lavora come dipendente part-time in una sauna. Un giorno, nel ripulire gli armadietti destinati alla clientela, trova una borsa apparentemente abbandonata che contiene un patrimonio in contanti. Da quel momento diversi personaggi senza scrupoli si fronteggeranno per entrare in possesso di quell’ingente somma di denaro.

 

Sulla scia del successo planetario ottenuto da Parasite di Bong Joon-ho (Palma d’oro alla 72° edizione del Festival di Cannes e a seguire quattro Premi Oscar, di cui uno per il miglior film) il sudcoreano Kim Yong-Hoon presenta il suo film di esordio Nido di Vipere. La sceneggiatura, curata dallo stesso regista, è congegnata come un meccanismo di precisione: i vari personaggi ruotano attorno ad un unico obiettivo che è quello di impossessarsi di una borsa (di Louis Vuitton sic!) ricolma di denaro. Sicuramente, nel corso della narrazione, lo spettatore riconosce un tratto “tarantiniano” che caratterizza l’intera storia con un mix di thriller-noir-splatter drammatico, con scene sanguinolente di cui si tralasciano i particolari per non impressionare più del dovuto. Ciascuno, per motivi diversi, si sente legittimato ad entrare in possesso della borsa che, come spesso accade nelle favole a lieto fine, finirà nella mani di chi non c’entra proprio niente in tutta questa pasticciata faccenda. Il film è suddiviso in vari capitoli i cui titoli servono per focalizzare l’attenzione dello spettatore sul tema principale al fine di assecondare la cosiddetta quadratura del cerchio poiché la storia si conclude nel punto in cui era iniziata. Decisamente convincente la recitazione dei vari attori anche se è opportuno riconoscere che la tendenza leggermente sopra le righe delle situazioni è dovuta essenzialmente al tipo di atteggiamento interpretativo orientale che si discosta molto da quello occidentale. Tra le interpreti femminili riconosciamo Youn Yuh-jung, già Premio Oscar nel 2021 come miglior attrice non protagonista nel film Minari di Lee Isaac Chung. Con Nido di Vipere abbiamo certamente ulteriore conferma che il cinema sudcoreano stia attirando molta attenzione nel panorama cinematografico mondiale, specializzandosi in un genere dove la famiglia e l’individuo stanno al centro delle storie anche se poi ci sono interferenze cruente e spietate che sembrano rimandare inevitabilmente alla prima filmografia dei fratelli Coen. Il film è accattivante, i personaggi sono ben assortiti e le situazioni ben concatenate dove nulla è lasciato al caso. Il regista, che con questa sua prima opera ha già vinto diversi premi, dimostra di saper cogliere gli aspetti essenziali dei fatti senza indugiare nelle situazioni e senza prolungare i tempi oltre il dovuto. Esperimento interessante in una pellicola di cui si consiglia la visione.

data di pubblicazione:25/09/2022


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CRIMES OF THE FUTURE di David Cronenberg, 2022

CRIMES OF THE FUTURE di David Cronenberg, 2022

In un futuro distopico, l’enigmatico Saul Tenser si esibisce di fronte ad un folto pubblico, accompagnato dalla sua assistente Caprice, in ciò che si potrebbe definire una body performance. Con godimento e compiacimento l’uomo si sottopone a una ripetuta espiantazione di nuovi organi che lui stesso genera all’interno del proprio corpo. L’umanità sta coscientemente affrontando un lento processo evolutivo e il nuovo organismo, geneticamente modificato, si sta così adattando a nutrirsi di scarti di materiale plastico opportunamente rielaborato.

Dopo alcuni anni di preoccupante silenzio ritorna sul grande schermo il cineasta canadese David Cronenberg (Toronto, classe 1943) con il suo nuovo Crimes of The Future, presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes. Cronenberg, in questo suo ultimo lavoro, ricalca per grandi linee il soggetto del suo omonimo film del 1970 in cui già si potevano riscontrare i temi caratteristici della sua singolare produzione.

Il corpo umano, con gli organi che lo costituiscono al suo interno, è oggetto e soggetto di una continua evoluzione che comporta un doversi necessariamente adattare a prevedibili mutazioni della specie umana. L’uomo diventa così carne da macello sottoponendosi beatamente ad interventi chirurgici poiché oramai è annullata la soglia del dolore. Il lavoro di Cronenberg, del resto, è incentrato sul corpo e sulle sue provocate deformazioni, ciò che è brutto e doloroso diventa fonte di piacere e puro nutrimento dell’anima. Gli stessi valori basici vengono ora sovvertiti e sacrificati in virtù di una nuova etica comportamentale: uccidere è la soluzione più semplice ma non ci sono colpe da espiare. Tutto cambia e le relazioni interpersonali sono in funzione del mostrarsi interiormente perché ciò che conta è il bello interiore, l’arte ridisegnata sui propri organi, anch’essi in continua metamorfosi. Anche il piacere corporeo diventa per Cronenberg pretesto per sovvertire ogni formula tradizionalmente costituita e una alterazione corporea o una semplice cicatrice possono diventare zona erogena e fonte di appagamento sessuale. Tutti i personaggi, e tra questi i due protagonisti Viggo Mortensen nel ruolo di Saul e Léa Seydoux in quello di Caprice, si muovono in un mondo polveroso e arrugginito dove il passato, oramai remoto, deve ancora imporsi per riaffermare i propri valori in un futuro ancora incerto, dove si fa fatica ad identificarsi.

Un film certamente di nicchia destinato a cinefili raffinati che non si fermano certo alle immagini esteriori, talvolta disturbanti, ma che vanno oltre per ricercare ogni nuova forma di arte concettuale, al di là dell’immagine estetica in senso tradizionale. Con Crimes of The Future, Cronenberg sembra raggiungere il punto di arrivo del suo percorso creativo caratterizzato da una rivoluzione e un sovvertimento di ogni linguaggio visivo: in lui c’è la volontà di sottrarre il cinema ad ogni vincolo formale e culturale per spingere lo spettatore a guardarsi dentro e ritrovare forse quella bellezza interiore svalutata se non addirittura ignorata.

data di pubblicazione: 30/08/2022


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HISTORY OF VIOLENCE di Thomas Ostermeier, 2022

HISTORY OF VIOLENCE di Thomas Ostermeier, 2022

(Festival dei Due Mondi – Spoleto, 24 giugno/10 luglio 2022)

La vigilia di Natale del 2012, tornando a casa dopo una cena con amici, Édouard incontra per strada un uomo, Reda. I due parlano, scherzano e decidono di passare insieme il resto della notte. Reda racconta la storia della sua infanzia e l’arrivo in Francia di suo padre, fuggito dall’Algeria. Dopo una serie di bagordi a sfondo sessuale, alle sei del mattino Édouard viene insultato, violentato, rischiando seriamente di essere persino ucciso…

 

Con una palese sfida a quello che si può definire politically correct, si chiude questa 65ma edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto con la direzione artistica di Monique Veaute che è riuscita, in due settimane, a concentrare quanto di meglio ci si possa aspettare, a livello nazionale e internazionale, sia in campo musicale che teatrale. In apertura della rassegna ci eravamo già confrontati con il monologo L’appuntamento, tratto dal noto romanzo d’esordio di Katharina Volckmer, spettacolo quanto mai sovversivo e irriverente che usa senza alcun riserbo un linguaggio a dir poco audace. In chiusura, il pubblico ha potuto apprezzare History of Violence, racconto autobiografico dello scrittore francese Édouard Louis, dove viene proposto il dramma dello stupro vissuto dal protagonista (e autore) con un intreccio di temi specificatamente personali con quelli più generali e sociali come l’emigrazione, il razzismo e l’omofobia. Il soggetto proposto, tra desiderio, passione e violenza, non poteva non interessare un regista teatrale della portata di Thomas Ostermeier oggi direttore artistico della Schaubuhne di Berlino e già insignito del Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2011. In effetti il lavoro di Édouard Louis non è solo il racconto di una violenza sessuale subita da un uomo da parte di un altro uomo, ma è la testimonianza dello specifico disagio di una classe sociale emarginata che tenta disperatamente, con ogni mezzo possibile, di integrarsi in un contesto che politicamente e culturalmente non gli appartiene. Il protagonista parla inoltre della sua omosessualità, una sorta di autodafé, e del suo problema di farsi accettare all’interno del proprio nucleo familiare e dalle istituzioni in generale. Il linguaggio drammaturgico di Ostermeier è vario e include una recitazione piena di pathos da parte dei due principali protagonisti Laurenz Laufenberg e Renato Schuch, rispettivamente nel ruolo del violentato e del violentatore, il tutto accompagnato da proiezioni video dal vivo degli stessi attori sulla scena e da una musica in sottofondo piuttosto fredda, ma essenziale per evidenziare i vari passaggi della narrazione. Uno spettacolo quindi di forte impatto emotivo che investe tematiche ancora oggi irrisolte quali l’auto-accettazione della propria sessualità e la contrapposizione, quasi innaturale, tra l’impulso personale di odio verso lo stupratore e il sentimento di empatia verso colui che a sua volta è continuamente vittima di oppressione. History of Violence è un lavoro ben fatto perché racconta di violenza, omofobia, povertà ma che in fondo racconta anche di amore che, come afferma lo stesso regista, è la leva più importante che sorregge la vita umana.

data di pubblicazione:12/07/2022


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ALCARRÀS – L’ULTIMO RACCOLTO di Carla Simòn, 2022

ALCARRÀS – L’ULTIMO RACCOLTO di Carla Simòn, 2022

La famiglia Solé coltiva da generazioni un frutteto su un vasto terreno che i proprietari gli avevano ceduto, in segno di riconoscenza, per un “favore” speciale ricevuto durante la dittatura franchista. La vita nei campi è dura in quella parte assolata della Catalogna, ma i Solé lavorano sodo e nel tempo sono riusciti a crearsi una certa agiatezza economica. Un bel giorno gli verrà comunicato che, al posto della piantagione, verranno presto istallati pannelli solari per la realizzazione di un impianto fotovoltaico…

  

Carla Simòn è una regista e sceneggiatrice catalana che si è fatta già notare dalla critica internazionale per la sua pellicola di esordio Estate 1993, candidata come miglior film straniero agli Oscar 2018. Con, Alcarràs – l’ultimo raccolto, sua seconda opera, ha vinto l’Orso d’oro all’ultima edizione della Berlinale, primo film in lingua originale catalana a ricevere tale premio. La giuria, presieduta dal regista indiano Shyamalan, ha voluto così premiare un film all’insegna della semplicità, una storia intrisa di puro verismo per fotografare oggettivamente la realtà sociale e umana di una famiglia di agricoltori. Il presente è presente con i problemi di natura politica ed economica legati al duro lavoro nei campi, ma tutto ciò non svilisce il clima positivista che aleggia attorno ai personaggi, tutti, ognuno per la propria parte, impegnati a portare avanti il bene comune, senza peraltro trascurare il vantaggio personale. Appena sfiorato il tema della passata dittatura spagnola in una regione, appunto quella rurale della Catalogna, dove accanto a una economia prettamente agricola, si iniziano a intravedere i primi concreti tentativi di apertura a un nuovo mondo tecnologico. Gli attori, tutti rigorosamente non protagonisti, sono stati scelti proprio per interpretare una realtà semplice ma anche non scevra di impegno sociale. La Simòn intende così lanciare un messaggio, quanto mai attuale, per salvare un’agricoltura oramai in via di estinzione: la globalizzazione impone prezzi politici che non consentono più ai contadini la giusta remunerazione per il lavoro svolto. Quimet, il padre padrone, interpretato da Jordi Pujol Dolcet, è un uomo all’antica che crede nel suo lavoro anche perché da sempre fa questo lavoro e non cede alla proposta, da parte dei reali proprietari del frutteto, di diventare custode di un campo sterminato di pannelli solari. Certo potrà lavorare di meno e guadagnare di più, ma lui è sempre stato un agricoltore e tale vuole rimanere, rifiutando ogni forma di compromesso. La regista dimostra di conoscere molto bene quel tipo di realtà agricola, la realtà peraltro delle sue vere origini, che fa poi da filo conduttore di tutta la storia. I bambini che giocano a fare la guerra o a improvvisarsi astronauti, occupando il rottame di una vecchia auto, rappresentano sicuramente un ritorno alla sua infanzia, un tratto autobiografico che aggiunge pura genuinità al contesto. Tutto si svolge con i tempi giusti per fare così assaporare al meglio un mondo senza malizia né artificio dove i vari personaggi si muovono con i gesti del quotidiano, interpretando se stessi. Merito quindi della Simòn è quello di aver portato sullo schermo una realtà poco artefatta, forse destinata a sparire, ma che dà spazio a un sentimento puro e non a un falso sentimentalismo, qui meno che mai inopportuno.

data di pubblicazione:01/07/2022


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CALCINCULO di Chiara Bellosi, 2022

CALCINCULO di Chiara Bellosi, 2022

Benedetta ha 15 anni: scontrosa, cicciona e piena di brufoli. Vive nella periferia romana, in una famiglia con tante aspirazioni fallite che la copre di attenzioni e dice di volerle bene, anche se tutto ciò ha il sapore di un atto dovuto. Un giorno conosce Amanda, trans che ufficialmente si guadagna la vita in un parco giochi ambulante. Da questo incontro casuale la ragazza inizierà a coltivare maggiore stima di sé e imparerà a emanciparsi, lasciandosi alle spalle un’adolescenza grigia e priva di qualsiasi prospettiva.

 

Chiara Bellosi con Calcinculo è al suo secondo lungometraggio dopo Palazzo di Giustizia, sua opera prima. Presentato all’ultima Berlinale, nella Sezione Panorama, il film già accolto favorevolmente in quella sede è arrivato finalmente in sala. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio percorso di formazione perché Benedetta, la protagonista, a seguito di un incontro fortuito con Amanda, si troverà repentinamente a passare da una fase adolescenziale a quello di una donna matura capace di guardare la propria fisicità con un tratto diverso, proiettandosi verso un futuro nuovo. La regista parla della vita vera utilizzando un linguaggio cinematografico asciutto, dove non c’è spazio per situazioni artificiose, costruite e prive di qualsiasi substrato reale.

L’incontro con Amanda, trans privo di qualsiasi retorica morale ma genuino nell’esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni, sarà determinante per la crescita della ragazza: Benedetta imparerà a guardarsi con un occhio diverso e soprattutto a capire da sé che anche lei può essere oggetto di attenzione, lasciandosi alle spalle la percezione di essere brutta e grassa a confronto delle sue due graziose sorelline e di quella madre, mancata ballerina, presenza ingombrante con cui è costretta a confrontarsi ogni giorno.

Il film riesce a trattare con raro equilibrio un tema che poteva risultare banale, evitando situazioni eccessive o compiacimenti morbosi, sussurrandoci all’orecchio cose vere e importanti in tono amichevole e confidenziale, senza note dissonanti o tragiche. L’esordiente Gaia Di Pietro (Benedetta) appare molto sicura nel suo ruolo accanto ad un bravissimo Andrea Carpenzano, diventato un attore molto conosciuto dal pubblico italiano che imparò ad apprezzarlo al suo esordio a Berlino nel 2018 come protagonista ne La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo.

A parte il titolo poco felice che in realtà potrebbe indicare la giostra dove la ragazza inizia a prendere visione della vita o, metaforicamente, ci suggerisce che si cresce anche a calci nel sedere, Calcinculo merita sicuramente un’attenzione particolare e per questo se ne consiglia la visione.

data di pubblicazione:25/03/2022


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