da Antonio Iraci | Feb 27, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Francis, fuggito dall’Africa, dopo un terribile naufragio in cui perde la sua compagna, approda miracolosamente su una spiaggia. In quel momento, da unico superstite, promette a se stesso che inizierà una nuova vita all’insegna dell’onestà. Arrivato a Berlino da profugo, senza regolari documenti, dovrà presto abbandonare i suoi buoni propositi perché, in quella società che si mostra ostile nei suoi confronti, si renderà conto che per crearsi un futuro dignitoso dovrà scendere a patti con la malavita locale.
Ispirato dall’omonimo romanzo di Alfred Döblin, un classico della letteratura tedesca moderna di cui lo stesso Fassbinder ne aveva ricavato nel 1979 una miniserie televisiva, Burhan Qurbani presenta alla Berlinale il suo lungometraggio, rivisitandone la storia che era ambientata nella Berlino degli anni venti e che aveva come protagonista Franz Biberkopf. Il regista, esiliato per motivi politici dall’Afganistan e ora cittadino tedesco, ci propone una propria versione della mitiga figura di Franz, riadattandola su Francis, emigrato dalla lontana Guinea. Nonostante la volontà iniziale di integrarsi al meglio in una società occidentale a lui estranea, il giovane rimarrà invece invischiato in situazioni di malaffare per le quali ne pagherà le conseguenze.
Se nel testo originale ci si abbandonava spesso a delle metafore per dare più spazio all’immaginazione, nel film i personaggi sono fortemente condizionati dal contesto in cui si trovano, anche se poi teoricamente liberi di effettuare le proprie scelte. Analogamente si muove Francis che come outsider affronterà molteplici circostanze in contrasto con i propri valori morali, che cambierà come il suo nome, Franz appunto: una sorta di sopravvissuto che a suo modo vuole rimanere buono, ma che la società non gli consentirà mai di esserlo. Il protagonista è Welket Bungué, nato a Bissau in Guinea ed emigrato da piccolo con la famiglia in Portogallo e poi in Brasile, dove ha studiato per diventare attore. Avendo recitato già in circa cinquanta film, non meraviglia come Welket abbia interpretato in maniera più che convincente il ruolo, riuscendo a mantenere una costante tensione emotiva in un film decisamente lungo: cinque capitoli e un epilogo per una durata di oltre tre ore.
Berlin Alexanderplatz, sia pur in questo adattamento contemporaneo, rispecchia comunque l’essenza della sua fonte letteraria perché parla di una società da un lato, con le sue spietate regole, e di individui emarginati dall’altro, con i loro tentativi di integrazione e i loro, a volte, inevitabili fallimenti.
data di pubblicazione:27/02/2020

da Antonio Iraci | Feb 26, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Clint vive solo – unica compagnia i suoi cinque cani da slitta husky – in una casa sperduta tra le nevi della Siberia. Esplorando i suoi sogni e i suoi ricordi, intraprende un viaggio senza tempo alla ricerca della propria identità. In questo percorso intimo incontrerà varie persone, alcune delle quali oramai morte, e dovrà affrontare i numerosi demoni che affollano il suo passato…
Siberia è il sesto film che Willem Dafoe interpreta come protagonista sotto la regia di Abel Ferrara. Il regista sembra essere arrivato ad un punto di massima maturità creativa e utilizza l’attore come suo alter ego per rappresentare se stesso in questo suo personale viaggio interiore. Accompagnato dai suoi cani, che infaticabili strascineranno la slitta tra i ghiacci della Siberia, il protagonista si troverà invischiato in strane situazioni del tutto oniriche che lo porteranno a ricordare con nostalgia il tempo della sua infanzia quando andava a pescare con il padre e il fratello. Gradualmente veniamo a ricomporre i tasselli della sua vita, fino ad arrivare al ritiro siberiano dove gestisce uno strano bar frequentato da pochi abitanti del luogo e da un misterioso esploratore: con loro riesce a comunicare nonostante parlino una lingua a lui sconosciuta.
Il film è una sequenza di immagini che si sovrappongono senza apparente logicità, un poco come quei “dream logic” che troviamo in David Lynch, dove sogno e visione si fondono per generare qualcosa di surreale, fuori da ogni dimensione spazio-temporale. Certamente un film di non facile approccio e soprattutto da evitare per coloro che sono alla ricerca comunque di un significato palese in ogni cosa. Non viene seguito un percorso lineare: si passa dai ghiacciai siberiani al deserto magrebino, passando per un lussureggiante giardino dove si incontrano persone e cose che non ci sono più perché da tempo morte. Il film, molto atteso qui a Berlino dove viene presentato in concorso, ha lasciato alquanto interdetti gli spettatori in sala: alcuni hanno disertato dopo i primi dieci minuti di proiezione quando sullo schermo si sono alternate alcune sequenze decisamente splatter. Incuriosisce molto sapere come la giuria internazionale valuterà questo film visto che la Berlinale si è sempre distinta come un festival di nicchia e certamente Siberia è un film per cinefili molto esigenti, quelli che non chiedono spiegazioni ma preferiscono trovarsele da sé.
data di pubblicazione:26/02/2020

da Antonio Iraci | Feb 25, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
In un agglomerato residenziale alla periferia di Roma, diverse famiglie interagiscono di comune accordo mentre i loro figli giocano a fare i grandi. Una voce fuori campo ci legge dal suo diario ciò che accadde in una certa estate quando, davanti alle palpabili frustrazioni dei genitori, i bambini metteranno in scena una drastica protesta. Non è un atto di ribellione in sé, ma il loro rifiuto di entrare a far parte di una società che i loro stessi padri hanno reso vuota e sterile.
Per i fratelli-gemelli D’Innocenzo, ancora reduci dal successo ottenuto proprio qui a Berlino nel 2018 con il loro primo film La terra dell’abbastanza, era proprio questo il momento giusto per realizzare un vecchio sogno. Nasce così il loro secondo lungometraggio Favolacce, completamente diverso come genere dal primo, dove loro stessi raccontano, tramite dei bambini, le proprie esperienze vissute nella periferia romana. Come dichiarato nella spassosissima conferenza stampa: “Oramai ci troviamo in un’età intermedia dove non siamo più troppi giovani ma neanche troppo grandi e quindi non potevamo più aspettare a raccontare di quelle sensazioni che noi stessi abbiamo percepito da piccoli”. Il film è uno spaccato sulla nevrosi tipica delle classi medio borghesi italiane, un accumularsi di insuccessi, per la mancata realizzazione di sogni e stupide ambizioni, che si riversano inevitabilmente sui figli. Vittime di questi abusi mentali sono loro che, proprio perché ancora lontani dai condizionamenti di un ambiente diventato indecoroso, riescono a percepire istintivamente il malessere della società. In questo bisogna dare atto ai due giovani registi, appena trentenni, di aver saputo ben inquadrare l’intimo dei singoli piccoli protagonisti, lasciando agli stessi libertà di espressione lontano da qualsiasi forzatura da copione. Ancora una volta il bravo Elio Germano, giusto in tempo per togliersi i panni di Antonio Ligabue nel film di Diritti, in Favolacce è Bruno Placido che insieme alla moglie Dalila (Barbara Chichiarelli) rappresentano un certo tipo genitori dei nostri tempi moderni, molto concentrati su se stessi e poco attenti alla sensibilità dei figli. I D’Innocenzo rivelano ancora una volta un loro lato squisitamente umano, tipico di un certo popolino romano, e con questo film dimostrano di aver raggiunto una genuina maturità necessaria per raccontare una favola piena di amarezza, che si adatta perfettamente ai giorni nostri.
Il film, presentato in concorso, è distribuito da Vision Distribution e arriverà nelle sale italiane dal prossimo 16 Aprile.
data di pubblicazione:25/02/2020

da Antonio Iraci | Feb 24, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Luc, già avviato nella falegnameria del padre in un piccolo paese della provincia francese, arriva a Parigi con l’intento di specializzarsi nella famosa scuola per ebanisti Boulle. Subito incontra Djémila di cui si innamora ma, dopo pochi giorni, deve ritornare a casa dove riprende una relazione intima con Genevieve, una sua vecchia fiamma. Passati due mesi, il ragazzo riceve la conferma di essere stato ammesso a frequentare il corso per cui torna a Parigi dove incontra Betsy, con la quale inizia una nuova storia…
Il fatto che il regista e attore francese Philippe Garrel, con questo sul ultimo film Le Sel des Larmes, vada a infrangere le tradizionali regole narrative non vuol dire che il film non sia da considerarsi di impronta decisamente classica. La storia raccontata ripercorre infatti i soliti cliché di amori facili, iniziati e subito dopo interrotti, da parte del bel protagonista Luc (Logann Antuofermo) con ragazze abilmente sedotte e poi cinicamente abbandonate. Luc non sa ancora distinguere cosa sia il vero amore e il solo affetto che riesce a esprimere, in maniera del tutto sincera, è nei confronti del vecchio padre che lo ha cresciuto con i sani principi educativi di un tempo. Il film porta l’impronta riconoscibile del regista che ama entrare nei personaggi per studiarne le azioni e le reazioni ponendo le loro facce in primo piano in un gioco di luci ed ombre, un chiaroscuro messo in evidenza dalla scelta operata di servirsi del bianco e nero sottraendo alla vista qualsiasi accenno di colore. Al di là della notevole presenza scenica di Logann, qui al suo esordio come attore, colpisce la recitazione di Oulaya Amamra, nella parte di Djémila, rivelazione assoluta anche se è stata già premiata come miglior attrice per alcuni film in cui ha partecipato. Interessante inoltre come la narrazione si sviluppi anche con l’intervento di una voce fuori campo, quasi a voler sottolineare l’importanza di alcuni passaggi, senza ricorso all’immagine, che sarebbero risultati forse troppo ridondanti. Luc racchiude in sé la figura del ragazzo apparentemente sicuro, ma che in realtà nasconde la sua intima fragilità: ad ogni sua conquista sembra perdere parte di sé riuscendo a comprendere il valore degli affetti solo dopo che li ha lasciati andare. Buona la reazione del pubblico in sala per niente disturbato da una pellicola che utilizza un linguaggio cinematografico forse da alcuni considerato démodé.
data di pubblicazione:24/02/2020

da Antonio Iraci | Feb 23, 2020
(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)
Inés lavora come doppiatrice per il cinema e nello stesso tempo fa parte di un coro a Buenos Aires come soprano. Dopo la misteriosa morte di Leopoldo, con il quale stava provando ad avere una relazione, la donna rimane sotto shock e a nulla vale il cocktail di pillole che inizia a prendere ogni giorno per recuperare un poco di pace interiore. Improvvisamente qualcosa cambia nella sua voce e strani suoni vengono percepiti senza sapere esattamente da dove originano.
Ispirandosi al romanzo El mal menor dello scrittore argentino C.E. Feiling, Natalia Meta, regista di Buenos Aires, presenta in concorso alla Berlinale il suo secondo lungometraggio. El Pròfugo in effetti non è classificabile come genere perché, nel voler creare un’atmosfera claustrofobica intorno al personaggio principale, ottiene un risultato ibrido dal momento che il film non è uno psico-thriller né tantomeno un horror in senso stretto. La storia ruota intorno al personaggio di Inés (Erica Rivas) che stressata dal lavoro e ancora scioccata dalla morte del suo uomo, inizia a percepire dei suoni in parte dall’esterno, in parte prodotti involontariamente dal suo corpo. Vittima di frequenti incubi, sembrerebbe che delle entità soprannaturali stiano invadendo i suoi sogni passando poi alla sua vita reale per turbare, se non addirittura distruggere, la sua persona. I suoni incalzano, alcuni impercettibili altri percettibili, e sono proprio loro i veri protagonisti: Inés diventa così uno strumento in balìa di forze occulte che difficilmente riesce a dominare, rimanendone invischiata sino a rasentare la follia. Nonostante gli sforzi recitativi della protagonista, il film non riesce a decollare rimanendo imbrigliato in situazioni poco convincenti sia dal punto di vista narrativo che comunicativo. Una sceneggiatura con un plot del tutto scontato che non cattura l’interesse perché perso in un labirinto di situazioni poco risolte e psicologicamente poco rilevanti. Probabilmente manca qualcosa che possa rendere convincente l’identità stessa di Inés perché lo spettatore non riesce a provare per lei alcun sentimento né di simpatia né di compassione, forse solo fastidio. Un happy end liberatorio che arriva dopo appena 90 minuti di proiezione, ma che sono sembrati un’eternità.
data di pubblicazione:23/02/2020

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