BANKSY – l’arte della ribellione di Elio Espana

BANKSY – l’arte della ribellione di Elio Espana

Una ricostruzione, sia pur frammentaria, della vita e della carriera artistica di Banksy, uomo di strada che fa arte come atto di ribellione contro l’establishment in generale e, più in particolare, contro ogni forma di cultura preconfezionata per una ristretta élite di (pseudo)intenditori. Un documentario in cui vari street artist spiegano come da una espressione artistica spontanea, ai limiti della legalità, possa nascere un movimento mainstream che ha letteralmente sovvertito il concetto stesso di arte, così come finora lo avevamo concepito.

 

Per chi desidera avvicinarsi a Banksy, prima come uomo e successivamente come artista, è certamente impresa non facile visto che nessuno, a parte i suoi amici e collaboratori più stretti, conosce la sua vera o presunta identità. Di lui si sa poco e precisamente che si è formato sulla scena underground di Bristol dove verso la fine degli anni Novanta era attivo, insieme ad altri, nella realizzazione di graffiti. Questi disegni, realizzati per lo più con bombolette spray, erano ritenuti illegali perché invadevano e imbrattavano i muri cittadini con raffigurazioni e slogan spesso a sfondo satirico o di rivolta contro la politica e ogni altra forma di potere istituzionalizzato. I cosiddetti “artisti di strada” mettevano a disposizione di tutti il proprio talento senza chiedere o pretendere un riconoscimento sociale, regalavano praticamente una forma di cultura popolare: un’immagine accessibile anche ai meno colti, fruibile in ogni momento perché la si trovava per strada mentre ci si avviava a lavoro o si andava a fare la spesa. Un’arte quindi che non necessitava di un contenitore museale per farsi riconoscere, che era a portata di tutti e che rigettava qualsiasi etichetta che ne potesse in qualche modo definire o limitare la portata sovversiva. Attraverso la testimonianza diretta di alcuni amici di Banksy, tra i quali Steve Lazarides, suo braccio destro e promotore, e Ben Eine, suo diretto collaboratore, vediamo come nasce e si sviluppa il suo percorso artistico partendo dai graffiti ed evolvendosi poi in altre forme di pop art, soprattutto mediante l’uso dello stencil e la realizzazione di sculture in resina polimerica dipinta o in bronzo verniciato. Dalla sua formazione di base, Banksy intende portare avanti un messaggio di giustizia e di libertà sociale, proprio nel contesto di oggi in cui tutto è sacrificato dall’attività dei magnati dell’economia e da politici corrotti. Famose le figure dei suoi ratti, grandi topi neri che invadono le strade proprio per indicare che una massa di artisti, appartenenti ad una certa sottocultura proletaria, sta per emergere per dire la sua contro ogni forma di manipolazione intellettuale. Il fenomeno oggi è inarrestabile: le opere di Banksy non le troviamo nei musei ma hanno assunto quotazioni stellari e vengono battute da Sotheby’s a Londra anche un milione di sterline. In ogni parte del mondo vengono organizzate mostre con opere sue che, inserite in contesti particolari, costituiscono per i visitatori dei veri e propri happening dove si possono anche visionare animali viventi di tutti i generi dipinti con colori psichedelici. Un atto trasgressivo? Intanto limitiamoci ad osservare il fenomeno mentre lui, l’artista ignoto più famoso del mondo, si diverte probabilmente alle spalle di una umanità ingenua, disposta ad investire acquistando a caro prezzo i suoi lavori. Per chi volesse approfondire, si segnala che è in corso una sua personale al Chiostro del Bramante a Roma fino all’11 aprile 2021. Il film-evento invece, prodotto da Spiritlevel Cinema, studio indipendente fondato da Tom O’Dell e dallo stesso regista Elio Espana, è distribuito da Adler Entertainment ed andrà nelle sale il 26, 27 e 28 ottobre.

data di pubblicazione:16/10/2020

UNDINE – Un amore per sempre di Christian Petzold, 2020

UNDINE – Un amore per sempre di Christian Petzold, 2020

Undine è impiegata come guida presso un importante museo di Berlino e il suo lavoro consiste nell’illustrare ai turisti lo sviluppo urbano della città, a partire dalla sua fondazione e fino ai giorni nostri. Quando il suo fidanzato Johannes le comunica che si è innamorato di un’altra e sta per lasciarla, la ragazza risponde con la minaccia che, se verrà abbandonata, non esiterà ad ucciderlo.

 

Christian Petzold è un regista e sceneggiatore tedesco: ha alle spalle un discreto curriculum come cineasta ed è abbastanza noto anche nel nostro Paese, specie dopo che nel 2008 si distinse alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con Jerichow. Nel 2012 vinse a Berlino l’Orso d’Argento per la miglior regia con il lungometraggio Barbara, mentre nell’ultima edizione della Berlinale ha presentato in concorso Undine ,di cui ne ha curato anche la sceneggiatura.

Il film trova ispirazione nel mito prettamente classico della ninfa Ondina, creatura leggendaria, acquatica e di natura normalmente benevola, incline a cambiare d’umore, divenendo implacabile, se tradita o umiliata. Questo è anche il caso della protagonista del film (Paula Beer, premiata per questo film con l’Orso d’Argento come migliore attrice), che una volta abbandonata dal suo ragazzo (Jacob Matschenz) dichiara apertamente che lo punirà con la morte. A distoglierla dal suo sciagurato intento appare inaspettatamente Christoph (Franz Rogowski): la ragazza sembra essere conquistata dal carattere mite e remissivo del giovane e tra i due inizia una relazione, semplice ma intensa.

Il film oscilla tra la fiaba e il thriller con elementi che via via ci portano al soprannaturale: quest’ultimo tratto non disturba affatto, anzi, sembra essenziale per catturare l’attenzione, contribuendo altresì a mostrare il talento del regista, che riesce a bilanciare i vari aspetti della storia, affrontando il rischio di raccontare una favola che trova fondamento nella mitologia greca. Il risultato ottenuto è sicuramente positivo e il film si lascia seguire con interesse, grazie anche ad interpreti d’eccezione.

Al di là di qualche piccola lungaggine, ci troviamo di fronte a un lavoro sicuramente ben confezionato, che segue una trama con un tocco di fiabesco sentimentalismo che tutto sommato non guasta, anche perché, in fondo, la storia raccontata trova fondamento nella reale vita quotidiana, fatta di amori che nascono per poi inevitabilmente morire.

data di pubblicazione:14/10/2020


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IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, 2020

IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, 2020

Arthur e César sono amici sin dai temi dell’infanzia quando frequentavano lo stesso rigidissimo collegio lontano da Parigi. Diversi caratterialmente e con un vissuto oramai alle spalle, i due si rincontrano dopo anni ed iniziano a rifrequentarsi assiduamente dividendo persino la casa. Motivo di questo inatteso avvicinamento: un malinteso per cui ognuno dei due è convinto che l’altro abbia un cancro incurabile e con pochi mesi ancora da vivere…

 

De La Patellière e Delaporte, coppia di registi ben affermata, da vent’anni firmano insieme commedie di grande successo, basti pensare a Cena tra amici del 2012 basata su una famosa pièce teatrale ripresa nel 2015 dalla nostra Francesca Archibugi che ne ha curato un adattamento ne Il nome del figlio. Presentato nel 2019 alla Festa del Cinema, Le meilleur reste à venir ben si inserisce in un filone di film francesi che caratterizzò la passata edizione della kermesse romana. Il film ha come ingrediente principale la leggerezza, un vero e proprio inno all’amicizia e a quanto la diversità ne sia un elemento indispensabile perché essa possa radicarsi. I due protagonisti Arthur e César (interpretati rispettivamente da Fabrice Luchini e Patrick Bruel) pur completamente opposti nella vita, rappresentano il classico esempio di una collaudata coppia di amici disposti a tutto pur di non mettere in discussione il sentimento che li unisce.

Nel film troviamo una serie di equivoci, a volte persino banali se non addirittura farseschi, trattati in maniera geniale e frutto di una sceneggiatura ben curata in ogni minimo dialogo/dettaglio. Il risultato ottenuto è stato quello di aver creato, da una storia scontata, una commedia brillante e divertente sia pur con una punta di amaro dovuta alla tematica di come affrontare una morte imminente, una sorta di prova generale su come ognuno dovrebbe vivere la propria vita considerando la morte come elemento che ne fa inevitabilmente parte. Un film dunque basato su una sequenza continua di situazioni tragicomiche, rese particolarmente divertenti grazie alla bravura indiscussa di Fabrice Luchini alla quale si aggiunge quella altrettanto valida di Patrick Bruel, attori oramai ben collaudati soprattutto nel genere della cosiddetta “commedia alla francese”. Una regia molto attenta, che riesce a raccontare la storia di un’amicizia vera, sincera, tra due persone caratterialmente opposte ma così indissolubilmente unite: due mondi eterogenei ma proprio per questo complementari, che riescono a dialogare seppur in situazioni drammatiche, in cui ognuno pensa alla morte dell’altro per rendere quei giorni passati insieme indimenticabili.

Inutile sottolineare come il cinema francese riesca oggi a confezionare dei piccoli gioielli cinematografici partendo da plot a volte quasi inconsistenti o, come in questo caso, non del tutto originali.

Se ne consiglia la visione.

data di pubblicazione:20/09/2020


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FAVOLACCE di Fabio e Damiano D’Innocenzo, 2020

FAVOLACCE di Fabio e Damiano D’Innocenzo, 2020

In un agglomerato residenziale alla periferia di Roma, diverse famiglie interagiscono di comune accordo mentre i loro figli giocano a fare i grandi. Una voce fuori campo legge, dal diario di una bambina trovato casualmente, ciò che accadde in una certa estate quando, davanti alle palpabili frustrazioni di uno sparuto gruppo di genitori poco più che trentenni, i loro figli metteranno in scena una drastica protesta. Non è un atto di ribellione in sé, ma il loro netto rifiuto di entrare a far parte di una società che i loro stessi padri hanno reso così vuota e sterile.

I fratelli-gemelli D’Innocenzo, ancora reduci dal successo ottenuto nel 2018 a Berlino con il loro primo film La terra dell’abbastanza, realizzano un loro vecchio sogno tornando alla Berlinale nel 2020 con il lungometraggio Favolacce, vincendo l’orso d’argento per la migliore sceneggiatura e tanto altro ancora, in cui raccontano le proprie esperienze vissute nella periferia romana attraverso le vite e lo sguardo di alcuni bambini: “oramai ci troviamo in un’età intermedia dove non siamo più troppi giovani ma neanche troppo grandi e quindi non potevamo più aspettare a raccontare di quelle sensazioni che noi stessi abbiamo percepito da piccoli”.

Il film è uno spaccato sulla nevrosi tipica delle attuali piccole classi borghesi italiane, in un susseguirsi di insuccessi per la mancata realizzazione di sogni e stupide ambizioni che, inevitabilmente, vanno a riversarsi sui figli, vittime innocenti di questi abusi mentali. Sono loro che, proprio perché ancora lontani dai condizionamenti di un ambiente palesemente indecoroso, riescono a percepire istintivamente il malessere della società così come ci appare, attraverso i loro sguardi severi ed intelligenti, in tutto il suo squallore. Bisogna dare atto ai due giovani registi, appena trentenni, di aver saputo ben inquadrare l’intimo di ogni singolo piccolo protagonista, lasciando ad ognuno libertà di espressione, lontano da qualsiasi forzatura da copione. Ancora una volta il bravo Elio Germano, giusto in tempo per togliersi i panni di Antonio Ligabue nel film di Diritti Volevo nascondermi presentato anch’esso alla Berlinale e vincitore di una serie infinita di premi, in Favolacce è Bruno Placido che, insieme alla moglie Dalila (Barbara Chichiarelli), rappresentano un classico esempio di genitori contemporanei molto concentrati su loro stessi e poco attenti alla sensibilità dei figli, per mancanza di cultura oltre e di quella necessaria propensione verso chi sta sbocciando alla vita.

I registi rivelano ancora una volta un loro lato squisitamente umano tipico di un certo “popolino romano”, di cui non sappiamo se realmente ne facciano parte, ma che in questo film viene descritto in modo esemplare, dimostrando di aver raggiunto una genuina maturità necessaria a raccontare una favola piena di amarezza, che ha profonde radici nel reale tessuto sociale contemporaneo, con una potenza espressiva che agisce su dimensioni profonde, perché i contenuti sono espressi in un linguaggio cinematografico potente e sovversivo, sapientissimo ed al tempo stesso fuori dagli schemi. Il cinema italiano è vivo e può capitare che produca ancora opere d’arte: quando forma e contenuto coincidono, quando la verità della vita spinta agli estremi diventa visionaria e indecifrabile, quando radicalità e reticenza vanno di pari passo, il cinema raggiunge la sua grande potenzialità espressiva e si hanno opere come quella dei geniali fratelli D’Innocenzo (Alessandro De Michele).

Da non perdere… al cinema!

data di pubblicazione:17/07/2020


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UNORTHODOX di Maria Schrader – Netflix 2020

UNORTHODOX di Maria Schrader – Netflix 2020

Esther vive presso la comunità ebraica di Brooklyn dove è costretta, suo malgrado, a seguire le rigide regole imposte dalla fede ultra-ortodossa chassidica. Come donna non può svolgere alcuna attività in società e il suo unico compito sarà quello di dedicarsi alla vita coniugale e concepire figli. Costretta a sposarsi con il giovane Yanky, ben presto si accorgerà di non poter più reggere la monotonia di quel modo di essere e con l’aiuto di un’amica fugge a Berlino, decisa a rifarsi una vita. Vani saranno i tentativi per riportarla a casa…

  

Unorthodox è una miniserie televisiva, disponibile su Netflix, creata da Anna Winger e Alexa Karolinski che si sono ispirate al libro di memorie scritto da Deborah Feldman in cui si racconta il rifiuto scandaloso delle proprie origini chassidiche. Concentrata in soli quattro episodi, la serie racconta la storia di Esther, allevata a New York in una famiglia ortodossa Satmar e sin da piccola separata dalla madre, che a suo tempo era stata cacciata dalla comunità; raggiunta la maggiore età, la ragazza è costretta a sposarsi con Yanky, un giovane legato al movimento satmarico e molto devoto ai precetti impartiti dalla Torah. Esty ama la vita e desidera studiare pianoforte mentre la vita domestica, in attesa di rimanere incinta, non fa per lei. Per realizzare il suo sogno e sottrarsi ai doveri coniugali un bel giorno decide di fuggire e di volare a Berlino dove l’attende una vita completamente diversa piena di musica e di colori. Girati per la prima volta in lingua yiddish, gli episodi, sia pur di breve durata, sono sufficienti a mostrarci due mondi contrapposti: da un lato quello di una comunità religiosa super conservatrice, dove sono ammessi sole le regole e gli insegnamenti impartiti dal rabbino, dall’altro quello di una società occidentale, la berlinese in particolare, dov’è rispettata la libertà di pensiero e d’azione e soprattutto dov’è accettata la diversità. L’israeliana Shira Haas, nei panni della protagonista, è un’attrice straordinaria, di grande talento, perfetta per rappresentare l’infelicità di questa giovane a cui sono imposti solo doveri e a cui non è concessa alcuna libertà di espressione. Una ricostruzione curata nei minimi dettagli che la regista Maria Schrader ha saputo creare per spiegare un universo a molti sconosciuto e intriso di grandi tradizioni, rigorosamente tramandate da generazione in generazione. Ogni personaggio, ciascuno a suo modo, deve lottare contro i propri demoni e soprattutto destreggiarsi tra il rispetto di inflessibili precetti e il desiderio di integrarsi in un mondo a sé più congeniale. Nonostante da pochi mesi nel catalogo Netflix, questa serie sta già riscuotendo un successo strepitoso tanto che già si parla di girare altri episodi, anche perché la storia adesso rimane in sospeso: rimarrà da scoprire come la ragazza affronterà il suo futuro a Berlino, città che l’ha subito accolta benevolmente forse proprio per le sue radici ebraiche.

data di pubblicazione:03/06/2020