LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO di Karim Aïnouz, 2019

LA VITA INVISIBILE DI EURIDICE GUSMAO di Karim Aïnouz, 2019

Rio de Janeiro, 1950. Eurídice e Guida sono due sorelle che vivono in una famiglia di impostazione molto rigida e decisamente patriarcale. Entrambe hanno un proprio sogno: Eurídice, già talentuosa pianista, desidera perfezionarsi presso il Conservatorio di Vienna mentre Guida cerca il vero amore in un marinaio greco conosciuto per caso. Per avverse circostanze le loro vite, un tempo così unite, verranno ad essere drasticamente separate dal padre, ma loro continueranno per anni a cercarsi senza mai perdere la speranza di ritrovarsi…

 

Karim Aïnouz, regista brasiliano che ha già ottenuto molti riconoscimenti nei più importanti Festival cinematografici internazionali, con il suo La vita invisibile di Eurídice Gusmão è stato premiato quest’anno a Cannes nella Sezione “ Un Certain Regard”. Il film si è subito guadagnato un grande successo sia di pubblico che di critica, che lo ha definito un piccolo capolavoro, e rappresenterà il Brasile ai prossimi Oscar. Aïnouz è stato indicato anche come un visual artist proprio per essere riuscito a infondere nei suoi lavori quei principi basilari dell’arte visiva un tempo relegati solo alle discipline tradizionali quali la pittura e la scultura: le immagini fissate sulle schermo riescono a rendere concrete e quasi palpabili le situazioni raccontate e i personaggi assumono una tale credibilità da coinvolgere emotivamente gli spettatori senza ricorrere ad espedienti da mélo. La storia è il frutto dell’adattamento di un noto romanzo della scrittrice e giornalista brasiliana Martha Batalha, ambientata in un Brasile ancora legato agli schemi patriarcali in cui alla donna è preclusa ogni libertà di espressione e, soprattutto, le viene negata la possibilità di scegliere l’uomo da sposare. Eurídice e Guida si amano e per tutta la vita si cercano: l’errore di una ricade ineluttabilmente su entrambe e, separate per sempre dai genitori, creeranno tra di loro una solidarietà profonda, tutta al femminile.

Con la splendida fotografia di Hélène Louvart, Aïnouz riesce a confezionare un lavoro pulito ed elegante, in cui le due protagoniste (Julia Stockler e Carol Duarte) si muovono in maniera più che naturale riuscendo ad alternare momenti di gioia a drammaticità e sconforto. Al regista non importa dare un messaggio sociale sulla condizione femminile di quel periodo (anche se di fatto riesce comunque a darlo), quanto piuttosto concentrarsi sui vari personaggi e sulla loro storia. Traspare in ogni istante la sofferenza di due donne schiacciate da uomini padroni, prima padri e poi mariti, capaci solo di annullare le loro aspirazioni più che legittime.

Un film che parla della forza dell’amore nonostante le avversità di un destino crudele.

data di pubblicazione:19/09/2019


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GRANDI BUGIE TRA AMICI di Guillaume Canet, 2019

GRANDI BUGIE TRA AMICI di Guillaume Canet, 2019

Sopraffatto da problemi personali e finanziari, Max ritorna nella sua splendida villa di Cap-Ferret sull’Atlantico con il pretesto di voler celebrare i suoi 60 anni in solitudine ma, in realtà, per organizzare all’insaputa di tutti la vendita della proprietà. Nel frattempo i suoi vecchi amici, che non vede da tre anni, insieme alla compagna e ai suoi figli irrompono nella casa per fargli una sorpresa e festeggiare con lui il compleanno. Max all’inizio mostra una aperta ostilità verso gli intrusi ma poi, poco a poco, i giorni che passeranno insieme saranno pieni di eventi che metteranno a dura prova ogni tipo di sentimento.

 

 

Passati quasi dieci anni dalla acclamata commedia tragicomica Piccole bugie tra amici, Guillaume Canet, attore, regista e sceneggiatore francese, riesce a mantenere la promessa data e a portare sul grande schermo il sequel. Le bugie, al pari dell’intero cast, sono “cresciute”, ma nella buona sostanza il plot rimane pressoché identico: coppie scoppiate che tentano di riappacificarsi, rancori mal celati, amori mai espressi, il tutto condito da situazioni frizzanti ma che sotto sotto nascondono però un sapore amaro. Nonostante il profondo affetto che li unisce, gli amici di un tempo dovranno fronteggiarsi ma anche inventare nuove bugie per non voler ammettere i propri fallimenti esistenziali, e mostrarsi deboli o indifesi agli occhi degli altri, oltre che verso se stessi. Il film non afferma nulla di nuovo, e la scrittura utilizzata non appare del tutto originale, tuttavia la storia non annoia e l’eccezionale bravura del cast rende il tutto molto gradevole, anche se alcune scene risultano appesantite da lungaggini scontate che il regista avrebbe potuto evitare. Il risultato è una elegia al concetto dell’amicizia che racchiude in sé la summa di tutti i sentimenti, qualcosa che unisce e commuove ma che non è detto che sia eterna come affermato dallo stesso Max (François Cluzet, un po’ sottotono rispetto all’altro film) quando dice: “siamo amici da vent’anni ma non siamo obbligati ad esserlo per sempre…” Il regista, nonché sceneggiatore, dirige gli attori in maniera perfetta, tra questi inutile dirlo emerge l’interpretazione di Marion Cotillard, nel privato moglie e madre dei suoi due figli ma anche attrice di livello internazionale. Grandi bugie tra amici ben si inserisce in quel nuovo filone che sta caratterizzando il cinema francese di oggi: una Nouvelle Vague capace di rappresentare le nuove tendenze del vivere quotidiano, quasi a testimoniare l’inquietudine di una generazione che sia pur apparentemente disinibita nasconde invece un profondo disagio che dal personale sfocia inevitabilmente nel sociale. Non un capolavoro cinematografico ma una piccola parentesi che tra il serio e il faceto ci ricorda cosa sia la vera amicizia e ci consiglia come fare per mantenerla sempre viva.

data di pubblicazione:16/09/2019


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IL SIGNOR DIAVOLO di Pupi Avati, 2019

IL SIGNOR DIAVOLO di Pupi Avati, 2019

Nell’autunno del 1952 Furio Momentè, giovane ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia, viene mandato in missione riservata a Venezia per seguire la fase istruttoria di un processo molto singolare. L’imputato è Carlo, un ragazzo appena quattordicenne reo confesso di aver ucciso Emilio, figlio deforme di una ricca possidente e che, secondo le voci della gente del luogo, avrebbe sbranato a morsi la sorellina in un raptus diabolico. Subito dopo il suo arrivo, il giovane funzionario ministeriale sarà coinvolto in una serie di eventi che metteranno seriamente a rischio la sua incolumità personale.

 

 Dopo qualche anno di assenza, Pupi Avati ritorna sul grande schermo con un film di genere o meglio del “suo genere” preferito, un lavoro ben curato che riesce a dialogare molto con La casa dalle finestre che ridono (1976) oggi considerato un cult dagli amanti del romanzo gotico, in cui è facile riscontrare elementi propri del soprannaturale e del terrore e che, ne Il Signor Diavolo, assumono una dimensione più specifica: c’entrano la sacralità ed argomenti che hanno a che fare con l’eterna lotta tra il bene e il male. Sembra quindi necessario dare al diavolo il rispetto che gli si deve, ecco perché esso è degno di considerazione non solo per quello che fa, ma in parte perché ci appartiene, con sfaccettature ovviamente diverse. Il film senza dubbio inchioda alla poltrona, e lo spettatore trattiene il respiro assecondando quell’atmosfera di sospensione che il regista vuole trasmettere, quella sacralità del male che lo accompagna sin dall’età adolescenziale, quando agli inizi degli anni cinquanta da chierichetto aveva a che fare con i preti, epoca in cui la figura del sacerdote era associata alla morte, dunque al male in funzione della salvezza eterna dell’anima. Sono tutti elementi che il regista sembra masticare bene, mostrando con orgoglio quel lato oscuro di sé o quantomeno poco visibile.

In buona parte ambientata a Comacchio, nel Ferrarese, la storia si intreccia in quella parte dell’Emilia Romagna ancora oggi rimasta rurale, sia per mentalità che per modus vivendi, e che quindi ben si adatta al periodo in cui si svolgono i fatti. Un cast d’eccezione ruota intorno a figure di tutto rispetto oramai habitué della cinematografia di Pupi Avati e che hanno trovato in lui il maestro perfetto della propria formazione professionale.

La direzione della fotografia è affidata a Cesare Bastelli che, insieme agli effetti speciali di Sergio Stivaletti, riesce a rendere l’atmosfera veramente cupa e pregna di quel mistero in cui passato e presente sembrano rincorrersi, per aprirci ad un finale del tutto imprevedibile, stravolgimento voluto dallo stesso Avati che ha infatti modificato la conclusione del suo romanzo dal quale è stato tratto il film.

Paura a parte, Il Signor Diavolo che è stato presentato in anteprima alla stampa in questi giorni ed uscirà nelle sale il 22 AGOSTO, segna il ritorno di un grande regista che comunque, sfidando lo scetticismo di molti, è da annoverarsi tra coloro che hanno fatto la storia del cinema italiano.

data di pubblicazione:24/07/2019

NUREYEV – THE WHITE CROW di Ralph Fiennes, 2019

NUREYEV – THE WHITE CROW di Ralph Fiennes, 2019

La mattina del 16 giugno 1961 Rudolf Nureyev era in procinto di lasciare Parigi dopo che si era esibito con successo all’Opéra insieme alla Compagnia di Balletto del Teatro Kirov di Leningrado; la destinazione successiva della tournèe sarebbe stata Londra, prolungando così lo strepitoso trionfo soprattutto personale al di fuori dell’Unione Sovietica. Già in aeroporto, oramai pronto insieme agli altri ballerini per prendere il volo, alcuni funzionari del KGB, che non lo avevano mai perso di vista durante la permanenza parigina, gli comunicano che per un improvviso cambio di programma dovrà rientrare subito a Mosca per una esibizione straordinaria al Cremlino. Nureyev intuisce subito che tornato in patria non sarebbe più stato autorizzato a lavorare all’estero e decide di consegnarsi alla polizia di frontiera richiedendo formalmente asilo politico alla Francia.

 

 

Oramai archiviate le celebrazioni per i venticinque anni dalla scomparsa di Rudolf Nureyev, avvenuta proprio a Parigi nel gennaio del 1993, viene presentato nelle sale italiane il film che Ralph Fiennes ha diretto, e in parte interpretato, sulla figura straordinaria del ballerino più acclamato di tutti i tempi. Non tutti sanno che il suo lavoro come coreografo influenzò in maniera decisiva il concetto di danza in quanto riuscì a fondere insieme il balletto classico con quello moderno e diventando altresì il precursore di uno stile ancora oggi preso a modello dai ballerini di tutto il mondo. Nureyev, notoriamente molto impulsivo e poco incline al rispetto dell’ordine gerarchico, riuscì infatti a sovvertire le rigide regole impostegli nel balletto e ad accentuare l’importanza del ruolo maschile che sino a quel momento era stato mantenuto sotto tono rispetto a quello femminile. Proprio sulla lettura del suo singolare carattere si base il film di Fiennes senza soffermarsi troppo nel voler raccontare tout court gli esordi professionali dell’artista, quanto piuttosto il suo carattere e quanto questo influenzò la sua carriera e la sua vita. Nureyev sin da bambino aveva percepito la vocazione verso la danza nonostante le difficoltà ambientali e familiari in cui era inserito, prima a ridosso del secondo conflitto mondiale, e successivamente in piena guerra fredda quando l’Unione Sovietica soffriva di un totale isolamento politico.

Partendo da questi fatti il regista, che nel film si ritaglia per sé il ruolo del famoso coreografo del Teatro Kirov Alexander Pushkin, maestro oltre che di Nureyev anche di Baryshnikov, affida coraggiosamente il ruolo di protagonista a Oleg Ivenko, ucraino di 22 anni, famoso come ballerino della Tatar State Oper, ma alla sua prima volta davanti alla macchina da presa come attore. Dai ripetuti primi piani di Oleg si scorge una forte somiglianza con il grande Rudolf e, nonostante l’assoluta mancanza di esperienza cinematografica, il neo attore riesce ad esprimere il carattere deciso, spigoloso ed a tratti arrogante del grande ballerino; ma è con il suo talento professionale che Oleg riesce a sintetizzare la fisicità di Nureyev, la cui tecnica lo rendeva talmente leggero da rimanere sospeso e fuori da ogni reale dimensione.

Girato tra Parigi e San Pietroburgo, Nureyev-The white crow è un prodotto autoriale di tutto rispetto che riesce a mettere a nudo l’anima del grande ballerino-coreografo, ribelle e dissidente, capace di determinare il suo percorso personale e professionale contro ogni schema precostituito. Ralph Fiennes focalizza l’attenzione sul personaggio nella sua intimità più che realizzare un semplice biopic, confezionando così un sentito omaggio verso un ballerino che ha lasciato il suo segno indelebile nel mondo della danza e non solo.

data di pubblicazione:15/07/2019


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LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN di Xavier Dolan, 2019

LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN di Xavier Dolan, 2019

Il giovanissimo ma già affermato attore Rupert Turner, durante un’intervista per una importante testata rivela i retroscena della vita di John F. Donovan, anche lui giovane attore e famosa star della televisione, morto dieci anni prima in circostanze poco chiare. Rupert, ancora bambino, aveva iniziato una fitta corrispondenza epistolare con John che considerava un mito, un super eroe, un esempio da seguire e che ancora oggi, dopo tanto tempo, continua ad avere un ruolo determinante nelle sue scelte individuali e professionali.

 

 

Xavier Dolan, l’enfant prodige canadese oramai considerato tra i grandi registi della cinematografia internazionale, ne La mia vita con John F. Donovan ci racconta in parte la sua storia vissuta perché sin da bambino nutriva il forte desiderio di dedicare al cinema tutto se stesso. Basti ricordare che appena diciannovenne esordì come regista a Cannes con il suo primo lungometraggio J’ai tué ma mère, più volte premiato, mentre qualche anno dopo, sempre a Cannes, vinse il Premio della Giuria con il film Mommy, da molti considerato il suo capolavoro. Penultimo lavoro di Dolan (seguito da Matthias & Maxime in competizione quest’anno per la Palma d’oro) La mia vita con John F. Donovan fu presentato nel 2018 in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival dove fu completamente annientato dalla critica internazionale che lo ritenne il suo peggior film, con un plot troppo articolato e confuso, oltre ad una serie di flashback che, nonostante l’eccellenza del cast, avevano reso il film lungo e noioso. Nonostante l’insuccesso, probabilmente a causa di una scarsa originalità narrativa, si lascia comunque seguire grazie alla descrizione di personaggi che non riescono ad essere se stessi e a relazionarsi con la società che li circonda, perché imbrigliati in schemi che impediscono loro di esprimere i propri sentimenti fuori da ogni reticenza. Ritroviamo, come in ogni sua pellicola, il tema ricorrente del rapporto con la madre, che in questo caso sembra invadere prepotentemente la scena: una madre a suo modo protettiva ma che sa anche essere spietata e che si pone quasi in competizione con il figlio che, seppur ancora bambino, sa già ciò che vuole e soprattutto dove vuole arrivare. Quanto a Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Susan Sarandon, Kathy Bates, Ben Schnetzer, Thandie Newton, Amara Karan, che compongono il cast del film, ognuno di loro è perfettamente calato nel suo ruolo, anche se non sembra essere sufficiente a riscattare un montaggio che inficia in maniera determinante il risultato finale.

Un’operazione dunque non perfettamente riuscita ma che comunque merita la dovuta attenzione perché evidenzia il tocco di un grande regista che sa sempre portare sul grande schermo sé stesso, mettendosi in discussione in ogni suo lavoro. Un film che pur raggiungendo appena la sufficienza, riesce a farci pensare come mondi diversi possano coesistere sottolineando l’importanza di essere sempre liberi dai condizionamenti e da false ipocrisie.

data di pubblicazione:02/07/2019


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