BERLINALE [9] – ELISA Y MARCELA di Isabel Coixet, 2019

BERLINALE [9] – ELISA Y MARCELA di Isabel Coixet, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

È il 1889: siamo in un piccolo paese della Galizia in Spagna. Elisa e Marcela frequentano la stessa scuola cattolica presso un convento di suore. Sin dal primo incontro nasce tra di loro una immediata empatia che in poco tempo si trasformerà in una passionale relazione. Divenute entrambe maestre, decidono di vivere la loro relazione, comportamento scandaloso non tollerato tra gli abitanti del luogo. Nell’estate del 1901 Elisa decide di prendere l’identità del defunto cugino Mario e così, raggirando il parroco, potrà sposare regolarmente in chiesa l’amata Marcela e vivere come una coppia etero. L’inganno verrà scoperto e da quel momento inizierà per loro un periodo molto triste e pieno di insidie.

 

  

La regista catalana Isabel Coixet ha ottenuto un discreto successo nel 2005 con il film La vita segreta delle parole, presentato al Festival di Venezia nella Sezione Orizzonti e premiato in patria con ben quattro premi Goya, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia. A Berlino si era fatta già notare nel 2003 con La mia vita senza me e lo scorso anno con The Bookshop, pellicole che hanno ottenuto ampi consensi da parte del pubblico e della critica.

La Coixet sembra prediligere nei suoi lavori tematiche al femminile, come anche in questo suo ultimo lavoro presentato in concorso alla Berlinale, in cui viene affrontata una relazione tra due donne in un tempo in cui era intollerabile. Le immagini in bianco e nero trovano ispirazione da una vera foto che ritrae Marcela e Elisa, quest’ultima in sembianze maschili, il giorno delle loro nozze. Le inquadrature indugiano molto sulle protagoniste come per dare più risalto alla vicenda che le coinvolge, in una spirale sempre più drammatica, entrambe vittime di un contesto che non può accettare la loro unione sentimentale. La regista è molto brava nel voler sottolineare il coraggio dimostrato dalle due donne e la determinazione nel voler a tutti costi salvare il loro amore. Molto singolare è il fatto che il matrimonio non fu mai annullato anche se aspramente condannato, in un paese come la Spagna che passerà attraverso una dittatura di molti anni e che nel 2005 fu uno dei primi paesi democratici europei a legalizzare l’unione tra due individui dello stesso sesso.

L’unica critica al film è forse quella di voler indugiare troppo sull’intimità delle due donne, egregiamente interpretate da Natalia de Molina (Elisa) e Greta Fernàndez (Marcela), con delle semi-soggettive che di proposito allungano esageratamente i tempi di ripresa, anche se l’effetto ottenuto è funzionale alla storia che si articola in un periodo a cavallo tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, in cui le apparizioni in pubblico per le donne di un certo contesto sociale erano contenute e limitate. La pellicola prodotta da Netflix, presente per la prima volta a Berlino, non è stata accolta favorevolmente da tutta la critica presente alla Berlinale: si spera comunque che venga distribuito nelle sale cinematografiche italiane così come è avvenuto per Roma, premiato quest’anno a Venezia con il Leone d’Oro e in odore di Oscar.

data di pubblicazione:15/02/2019








BERLINALE [8] – GOD EXISTS, HER NAME IS PETRUNYA di Teona Strugar Mitevska, 2019

BERLINALE [8] – GOD EXISTS, HER NAME IS PETRUNYA di Teona Strugar Mitevska, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Petrunya ha 31 anni ed è laureata in storia, ma non riesce a trovare lavoro perché nel piccolo villaggio della Macedonia, dove vive ancora con i genitori, a nessuno interessa quel titolo di studio e che ad averlo sia una donna. Il giorno dell’epifania è usanza che il prete ortodosso della comunità getti nelle acque gelide del fiume Vardar una croce di legno: tutti i ragazzi si tuffano per cercare il prezioso oggetto che, secondo la millenaria tradizione del luogo, gli assicurerà fortuna durante l’intero anno. Tornando a casa, dopo un ennesimo colloquio di lavoro fallito, Petrunya assiste alla cerimonia e, senza alcun indugio, si getta vestita e riesce a recuperare il crocifisso. Questo fatto renderà furiosi gli uomini del paese che da quel momento in poi non le daranno più pace.

 

Teona Strugar Mitevska è una regista di Skopje al suo debutto qui alla Berlinale. Il suo film, presentato in concorso, è un’amara satira contro la sua società perché ci racconta della ribellione di una donna contro la rigida mentalità patriarcale ancora vigente in Macedonia. La pellicola se da un lato ha aspetti veramente divertenti e al limite del grottesco, d’altro lato invece induce ad una amara riflessione sull’atteggiamento machista di alcuni paesi come quello di questa storia. È pur vero che la ragazza ha infranto un’antica tradizione religiosa, in una competizione che vede la partecipazione solo di individui di sesso maschile, anche se di fatto le autorità non trovano alcuna legge dello stato che vieti espressamente ad una donna di partecipare. L’atto di ribellione, accompagnato dalla tenacia di resistere agli insulti e alle intimidazioni dell’intera comunità, si può certo considerare il primo tentativo di riscatto da parte di Petrunya che, in quel contesto, sembra non avere pari opportunità rispetto agli uomini. Anche in famiglia la donna non trova sostegno e comprensione da parte dei genitori che la considerano un peso inutile e che difficilmente troverà marito non essendo più giovanissima.

Tra il serio ed il faceto il film ci manda un preciso messaggio di emancipazione femminile che fa fatica a decollare. Il ruolo della protagonista è assegnato a Zorica Nusheva nei panni di una donna che oramai non crede più nelle leggi, civili o religiose che siano, né si aspetta alcun riconoscimento per quello che è e per quello che rappresenta. Una lode particolare però va alla regista per aver usato con ironia un linguaggio diretto che, senza tanti preamboli ,ridicolizza l’atteggiamento della chiesa ortodossa e delle pubbliche istituzioni che sembrerebbero quasi indurre alla misoginia.

Di fronte al caso divenuto di dominio pubblico, dove Petrunya rischia addirittura il linciaggio, interviene pure la giornalista Slavica (Labina Mitevska) che cerca in tutti i modi di far carriera sfruttando l’occasione con uno scoop sensazionale per la televisione; sagace l’osservazione di uno dei tanti intervistati: e se Dio fosse in realtà donna?

data di pubblicazione:14/02/2019








BERLINALE [7] – DER GOLDENE HANDSCHUH di Fatih Akin, 2019

BERLINALE [7] – DER GOLDENE HANDSCHUH di Fatih Akin, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Zum Goldenen Handschuh, che in italiano sarebbe ”al guanto d’oro”, era un localaccio malfamato molto frequentato negli anni settanta che si trovava nel famoso quartiere a luci rosse St. Pauli di Amburgo. In questo bar, luogo di ritrovo di ubriachi e di vecchie prostitute, Fritz Honka andava a reclutare le sue donne per portarsele a casa nel vano tentativo di possederle sessualmente. Al suo ennesimo fallimento scaricava la sua rabbia uccidendole per poi smembrare i loro corpi e nasconderli in un ripostiglio. Una misera storia con un misero epilogo.

 

  

Fatih Akin, nato ad Amburgo da genitori turchi emigrati in Germania negli anni sessanta, è un regista e sceneggiatore oramai noto in campo internazionale dopo i successi ottenuti con La sposa turca che vinse nel 2004 l’Orso d’Oro qui a Berlino e l’European Film Award; successivamente con Ai confini del Paradiso fu premiato al 60esimo Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura mentre nel 2009 con Soul Kitchen ebbe a Venezia il Leone d’Argento, Gran premio della Giuria. Il film presentato in concorso in questa edizione della Berlinale è tratto da un fatto di cronaca vera che riguarda Fritz Honka, un serial killer la cui storia aveva ispirato nel 2016 Heinz Strunk a scrivere un romanzo subito considerato un interessante caso letterario. Colpito dalla vicenda criminale, che aveva scosso in quegli anni l’opinione pubblica tedesca, Fatih Akin porta ora sul grande schermo gli omicidi di Honka, facendo una minuziosa rappresentazione dei fatti, o meglio misfatti, dell’assassino. Lo spettatore viene quasi costretto a subire la scena in uno spazio claustrofobico dove oltre al feroce delitto dovrà pure assistere alla mutilazione del cadavere. Non certo di conforto è lo spettacolo dell’umanità che si incontra nel famoso locale di Amburgo: ubriachi senza fissa dimora e prostitute dai corpi informi avvolti in panni sudici e maleodoranti e la cui esistenza non interessa a nessuno. Nonostante la perfetta ricostruzione del singolare appartamento del serial killer e di ogni singolo dettaglio estetico, ci si chiede il perché di tutta questa messa in scena. Non sembra ravvisarsi una minima indagine psicologica della figura del protagonista e del suo background che possa in qualche modo dare una spiegazione circa gli efferati omicidi. Si nota però una certa rara convergenza tra ciò che Honka pensava delle donne e come in effetti vengono rappresentate nel film: solo carne da macello. Si tratta quindi di vedere l’umanità attraverso gli occhi di un individuo il quale patologicamente non ha più nulla di umano così come le vittime, private della vita prima ancora di essere uccise.

Ottima l’interpretazione dell’attore tedesco Jonas Dassler, che ricopre il ruolo del protagonista, veramente irriconoscibile per assomigliare il più possibile all’omicida. Ci si chiede se vale la pena di sottoporsi a questo film, a tratti decisamente disgustoso e con delle scene macabre che il regista avrebbe fatto bene ad evitarci. Pubblico in sala molto perplesso…

data di pubblicazione:13/02/2019 







BERLINALE [6] – LA PARANZA DEI BAMBINI di Claudio Giovannesi, 2019

BERLINALE [6] – LA PARANZA DEI BAMBINI di Claudio Giovannesi, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Un gruppo di ragazzi, tutti minorenni, sfrecciano con i loro scooters per le vie del rione Sanità di Napoli. Il sogno della loro vita è quello di procurarsi con ogni mezzo tanti soldi, sufficienti a garantire loro l’ultimo modello di sneakers o altro capo d’abbigliamento super firmato. Usano e spacciano droga e non esitano un istante ad impugnare le armi per tenere sotto controllo il quartiere. Il loro leader è Nicola che conosce a fondo le regole del gioco e sa esattamente che per affermarsi dovrà contrastare i vecchi boss malavitosi che ora detengono il potere. Letizia, la sua ragazza, lo seguirà in questa escalation di criminalità, anche lei è conquistata da una vita facile, piena di lusso e di divertimenti.

 

La paranza dei bambini, presentato oggi in concorso alla Berlinale, è un film di Claudio Giovannesi tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano che ne ha curato la sceneggiatura insieme allo stesso regista e a Maurizio Braucci. Il termine paranza non serve solo ad indicare un tipo di pesca che utilizza una rete a strascico, ma in gergo camorristico indica una piccola banda malavitosa formata da giovanissimi, ragazzi per lo più quindicenni che hanno abbandonato la scuola e che cercano di realizzare il loro unico sogno di entrare nella criminalità spicciola del quartiere in cui vivono. Per potersi imporre dovranno intanto avere una pistola per fronteggiare chi già detiene il potere, ed iniziare così a trafficare droga che consente loro di procurarsi in breve tempo una grande quantità di denaro. Divenuti i capi indiscussi che controllano gli affari, di fronte alla loro efferatezza nell’usare le armi anche i vecchi boss di una volta si arrendono e cedono il passo.

Giovannesi, regista molto sensibile verso i problemi dei giovani (ricordiamo Alì ha gli occhi azzurri del 2012 e Fiore del 2016), ha dichiarato di non volere assolutamente guadagnarsi una funziona pedagogica ma semmai illustrare una realtà, tutta napoletana, dove gli stessi giovani si trovano costretti ad una scelta criminale, per lo più inconsapevoli dei rischi e del prezzo molto alto che prima o poi dovranno pagare. Una decisione quindi determinata dalla contingenza di soddisfare per sé e per la propria famiglia dapprima dei bisogni primari, e poi per comprarsi generi di lusso veri e propri status symbol del potere. I due protagonisti Nicola (Francesco Di Napoli) e Letizia (Viviana Aprea) sono stati presi dalla strada così come tutti gli altri giovani interpreti, pure loro non professionisti, che nel quotidiano seguono per fortuna ideali ben diversi. A differenza di Gomorra di Matteo Garrone, anch’esso ispirato all’omonimo best seller di Saviano, La paranza dei bambini ci mostra un aspetto un po’ diverso, quasi tenero, intriso di un realismo estremo che ci porta ad osservare la vita pulsante dei quartieri napoletani dove nonostante tutto aleggia una profonda umanità, sentimento che in fondo anima la coscienza di questi ragazzi, cresciuti disgraziatamente in fretta.

È alta la curiosità nel vedere come la giuria valuterà questo film, in cui violenza e amore seguono le vicende degli attori verso un ineluttabile epilogo, e sui quali il regista si è astenuto volutamente dall’esprimere alcun giudizio né tantomeno dal condannare.

data di pubblicazione:12/02/2019








BERLINALE [5] – DAFNE di Federico Bondi, 2019

BERLINALE [5] – DAFNE di Federico Bondi, 2019

(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)

Dopo l’improvvisa morte della madre, Dafne, nata con la sindrome di Down, dovrà occuparsi energicamente del padre che sta lottando contro una forte depressione. Ma Dafne dovrà anche pensare a riorganizzare la sua vita rielaborando il lutto dentro di sé: di contro troverà, nel supermercato dove lavora, un clima di affetto tra i colleghi e gli stessi clienti, che la circondano d’affetto disinteressatamente. Nonostante la giovane età, sarà lei che prenderà in casa le redini della situazione e, con l’ottimismo che la contraddistingue, sarà capace di superare i momenti tristi e trovare la forza di andare avanti per la sua strada.

 

 

Federico Bondi è un giovane regista e sceneggiatore italiano che si è fatto già conoscere dalla critica e dal pubblico con il suo primo lungometraggio Mar Nero, più volte premiato nel 2008 al Festival di Locarno. Questo suo secondo lavoro Dafne, presentato nella Sezione Panaroma della Berlinale, è un progetto nato quasi per caso, come ha dichiarato il regista, osservando un giorno per strada un signore che teneva per mano una ragazza “Down”. Ripensando a quella scena non esitò a scrivere un soggetto che, dopo l’incontro con la protagonista Carolina Raspanti, diventerà una vera e propria sceneggiatura. Il film sin da subito colpisce proprio per la sua interpretazione, perché si percepisce che la giovane non recita alcun copione ma sé stessa, così com’è realmente nella vita. In sostanza riesce perfettamente a trasmettere la sue verve e il suo modo coraggioso di affrontare il quotidiano. Come da lei stessa affermato, le disgrazie bisogna buttarsele dietro le spalle e andare avanti perché, comunque sia, la vita è bella per quello che è e per come noi stessi vogliamo costruircela.

Una storia semplice dunque, ma che ci diverte e commuove al tempo stesso, perché tocca quanto di più genuino si possa rappresentare. Man mano che la narrazione va avanti non ci si accorge neppure della disabilità di Dafne, perché la sua diversità è al contrario ciò che rende noi diversi, incapaci di percepire e di godere “del qui ed ora”. Il padre, che per tre giorni dalla nascita non ebbe il coraggio di guardare la figlia nella culla, se ne fece poi una ragione ed ora la osserva quasi con ammirato stupore perché è proprio lei che gli procura la forza di sopravvivere al dolore per la perdita della moglie.

Quello che il film nella sua semplicità vuole dirci è che nella vita sostanzialmente non ha importanza chi riesce a dare e chi invece riceve, ciò che conta è restare uniti per superare insieme con un sorriso quello che verrà.

Un plauso va a questo giovane regista che con la sua spontaneità è riuscito a creare un gioiello cinematografico e a dare un messaggio forte al pubblico, che in sala lo ha ringraziato con un lungo e caloroso applauso.

data di pubblicazione:11/02/2019