DELITTO E CASTIGO di Fëdor Dostoevskij, regia di Konstantin Bogomolov

DELITTO E CASTIGO di Fëdor Dostoevskij, regia di Konstantin Bogomolov

(Teatro Argentina – Roma, 3/15 aprile 2018)

Dal 3 al 15 aprile sul palcoscenico del Teatro Argentina in scena Delitto e Castigo,l’opera di Fedor Dostoevskijcon la regiadel moscovita Konstantin Bogomolov, uno tra i più giovani ed autorevoli talenti della scena russa. L’opera letteraria già frutto nel tempo di innumerevoli adattamenti teatrali, è qui ricondotta ad una dimensione contemporanea.

Il punto di partenza è il romanzo di Dostoevskij, ambientato a Pietroburgo in una calda estate, che narra la vicenda di un duplice omicidio commesso per la brama di denaro del protagonista e di come per l’espiazione di questa pena sia necessario percorrere la lunga via della sofferenza. Di stampo apertamente cattolico, il romanzo si pone così in rapporto moralistico con il lettore, rafforzando il credo religioso ed esistenzialista dello scrittore.

Ma il dubbio se sia giusto o meno uccidere non è più un argomento così attuale, non fa più notizia; ciò dipende dal modo in cui la nostra società si è evoluta e si sta evolvendo. Nella sua versione Bogomolov parte diretto senza la preoccupazione di un eventuale giudizio, inserendo la vicenda raccontata da Dostoevskij in un salotto stile anni Sessanta, dove sono presenti un grosso divano giallo, due poltrone di lato, tre schermi televisivi alle spalle, un grande comò in fondo a destra. I personaggi vengono totalmente stravolti e lo spettatore è costretto ad abbandonare da subito l’immaginario oscuro della San Pietroburgo del romanzo. Il protagonista non è più un giovane intellettuale incapace di adeguarsi alle regole imposte dalla società russa ottocentesca, bensì un robusto immigrato africano, indolente e privo di qualsiasi ideologia, che si macchia dell’assassinio di una donna bianca e di sua figlia.

Raskol’nikov infatti commette il cruento atto senza pensarci più di tanto e nemmeno dopo, nell’interessante relazione che costruirà con Sonya Marmeladova, avrà modo di riflettere e pentirsi, anzi andrà a costituirsi solo perché lo convincerà lei, prostituta per necessità ma con un forte attaccamento religioso.

Naturalmente sono nere anche la sorella e la mamma di Raskol’nikov mentre Sonja è, anche qui, una prostituta che cerca di persuadere il protagonista a convertirsi al cristianesimo, mentre il poliziotto è presentato come un soggetto scaltro ed erotomane capace di chiudere un occhio coi delinquenti basta che assecondino i suoi piaceri.

L’inizio è folgorante: atmosfere rapsoftporno a metà strada tra Pulp Fiction e le sit-com americane, tra manichini, travestimenti, simulazioni, rumori fuori scena. Parte poi invece la narrazione affidata ai personaggi del romanzo ed alle caratteristiche degli attori, con tanti momenti a forte impatto emotivo in cui la trama si dipana e la vicenda si consuma.

È un racconto torbido, a volte distaccato, freddo, doloroso, a momenti angosciante, ma anche delicato e intimo. Resta centrale il senso del testo di Dostoevskij e cioè se sia giusto o meno uccidere quando la vittima è una persona squallida e abietta come un’usuraia, e di conseguenza, se in tal caso, siano necessari il castigo e la pena.

Il cast, tutto italiano, è composto da bravissimi attori: Leonardo Lidi nei panni di Raskol’nikov, Paolo Musio in quelli del pubblico ministero Porfirij Petrovič, e poi Anna Amadori, Margherita Laterza, Marco Cacciola, Diana Höbel, Renata Palminiello e Enzo Vetrano.

Il testo dell’autore russo è stato riadattato e ricomposto dallo stesso regista che si accosta a Dostoesvkij con leggerezza e ironia, creando forse scalpore in qualcuno, ma enfatizzando il confronto con il nostro tempo e con quello che il quotidiano oggi ci offre.

data di pubblicazione: 10/4/2018


Il nostro voto:

CIRCUS DON CHISCIOTTE regia di Ruggero Cappuccio

CIRCUS DON CHISCIOTTE regia di Ruggero Cappuccio

(Teatro Eliseo – Roma, 3/22 aprile 2018)

Torna a Roma Ruggero Cappuccio e il suo virtuoso circolo di attori e collaboratori con Circus Don Chisciotte, uno spettacolo che narra le vicende di Michele Cervante (interpretato dallo stesso Ruggero Cappuccio), professore universitario in pensione ed in fuga dalle convenzioni, presunto discendente dell’autore del Don Chisciotte della Mancia, preda di un mistico vagabondaggio che è anche una sua forma di rivolta nei confronti dell’esasperazione tecnologica che disumanizzando il mondo.

Gravita nei pressi di una stazione ferroviaria abbandonata, a stretto ridosso della Napoli di oggi, con il suo fardello di libri e di saggezza da salvare ad ogni costo. In una delle sue peregrinazioni notturne incrocia un sempliciotto, anch’esso di fatto dissociato dal contesto cittadino, che diventerà suo scudiero e a cui darà il Santo Panza (Giovanni Esposito). Tra i due nasce un rapporto di amicizia fatto di curiosità e di disagio reciproco, di lucidità e fantasia, di saggezza e leggerezza, che li unisce nella lotta a quel progresso che sta soffocando la spiritualità dell’uomo.

In realtà la stazione non è completamente abbandonata, è di certo ingiallita dalle luci al sodio (bellissima la scenografia di Nicola Rubertelli ed il disegno luci di Nadia Baldi) come le pagine dei suoi vecchi libri, ma pian piano si popola di stravaganti presenze, traghettate da un vagone fantasma che viene e va. I nuovi arrivati hanno anch’essi un vissuto sospeso tra disagio sociale e costrutti aulici: due ex ristoratori (Ciro Damiano e Gea Martire), un prestigiatore della provincia veneta (Giulio Cancelli) e una principessa siciliana (Marina Sorrenti). Con essi il professor Cervante e Santo Panza condivideranno un progetto di pacifica rivoluzione contro il deterioramento sociale, politico, strutturale, che si baserà su quanto riportato da Philip Roth, Luis Sepulveda, Daniel Pennac, Amos Oz ed in tutti quei vecchi libri che faranno da ponte di passaggio verso la riaffermazione dell’essenza spirituale dell’umanità.

Una metafora molto forte sul ruolo della cultura quale unico paradigma di riferimento, un testo colto e divertente basato su un efficace uso della lingua e dei differenti dialetti, una macchina teatrale che provoca applausi e risate, spensierate ed amare, grazie ad una prova attoriale forte e nitida, per uno spaccato quanto mai attuale, su cui riflettere profondamente.

data di pubblicazione:06/04/2018


Il nostro voto:

GIURAMENTI – TEATRO VALDOCA

GIURAMENTI – TEATRO VALDOCA

(Teatro Vascello – Roma, 21/25 marzo 2018)

È tornato in scena al Teatro Vascello di Roma, dal 21 al 25 marzo 2018, il Teatro Valdoca con lo spettacolo GiuramentiIl Teatro Valdoca, nato nel 1983 a Cesena, dal sodalizio fra il regista Cesare Ronconi e la poetessa e drammaturga Mariangela Gualtieri, ha da sempre perseguito con rigore e raffinatezza una propria ricerca sul lavoro d’attore, creando spettacoli corali, in una scrittura scenica che fonde danza, arti visive e musica dal vivo.

Con Giuramenti il regista Cesare Ronconi riparte da una piccola comunità di giovani attori e danzatori per attivare le dinamiche pedagogiche e spettacolari proprie del Teatro Valdoca.

Lo spettacolo si sviluppa su una liturgia lirica che alterna brani cantati, brani recitati, brani danzati in cui il movimento produce una partitura di suoni prodotti da percussioni, bastoni di legno, anelli di metallo mentre sul fondo, un grande specchio concavo restituisce ribaltata la visione frontale dello spettatore. Al centro di questa struttura un movimento continuo, una comunità temporanea e solidale, che non usa la narrazione ma la poesia.

Un viaggio a ritroso nel tempo per poter poi interrogare il presente, indagare i corpi e i sentimenti di chi oggi ha vent’anni e guarda il mondo esterno e i suoi conflitti, la sua bellezza, le sue incoerenze.

Dodici giovani interpreti che raccontano un coro in movimento, fluido e vitale e che gridano in faccia al mondo la propria inquietudine, l’amore, l’ardore, o sussurrano un sapere antico ed enigmatico. E dal coro si distaccano poi singolarmente coi loro racconti intensi e delicati che richiamano il rapporto primordiale tra l’uomo e la natura, oggi quasi dimenticato e sopraffatto dalla tecnologia. L’invito che fa la compagnia cesenate al pubblico, alla fine, è questo: va riscoperto il movimento del corpo e della mente, l’incanto della parola detta e non scritta.

Uno spettacolo empatico e in controtempo, arcaico per certi versi. I giovanissimi interpreti danno allo spettacolo un sapore acerbo e tribale, non carico di colpi ma d’effetto a motivo di un’impalcatura narrativa non chiara, ma che poi si traduce in un mantra inquieto e crescente che alla fine tocca le corde più intime di chi lo ascolta.

data di pubblicazione: 26/3/2018


Il nostro voto:

ANTIGONE di Sofocle, regia Federico Tiezzi

ANTIGONE di Sofocle, regia Federico Tiezzi

(Teatro Argentina – Roma, 27 febbraio/29 marzo 2018)

Antigone di Sofocle, con protagonisti Sandro Lombardi e Lucrezia Guidone, è in scena, in prima nazionale dal 27 febbraio al 29 marzo, al Teatro Argentina di Roma. A tredici anni di distanza dalla versione brechtiana il regista Federico Tiezzi torna a confrontarsi con uno dei massimi capolavori della cultura greca, oggetto di innumerevoli allestimenti.

 

Antigone, sorella di Ismene, Eteocle e Polinice, nata come loro dall’unione incestuosa tra Edipo e la madre Giocasta, assiste a Tebe, dove regna lo zio Creonte, al sanguinoso conflitto tra i suoi due fratelli che si uccidono a vicenda. Al centro della tragedia di Sofocle lo scontro tra la legge naturale e degli affetti, rappresentata da Antigone, che vuole seppellire il fratello Polinice secondo i crismi religiosi degli dei e Creonte, che lo vieta perché ritiene Polinice traditore della città e uccisore di suo fratello Eteocle, che combatteva in difesa di Tebe. Se Antigone dovesse obbedire alle leggi della città, rinunciando a seppellire il fratello, tradirebbe se stessa e la sua famiglia.

Sulle note di Max Ricthter, su una cortina che chiude il palcoscenico, scorrono immagini che presagiscono il crollo della civiltà ellenica, statue che si disgregano, vasi in frantumi in una lenta dissolvenza che apre su un’algida tavola, attorno alla quale siedono Creonte e sua moglie, sua nipote Antigone con la sorella Ismene e il fidanzato (figlio di Creonte) Emone con accanto steso il corpo di Polinice morto, ai piedi di ciò che resta della famiglia maledetta di Edipo.

Federico Tiezzi, coadiuvato dall’imponente scenografia di Gregorio Zurla e dai bellissimi costumi di Giovanna Buzzi, ambienta il dramma in una sorta di ospedale-obitorio, dove le due sorelle, Antigone e Ismene, spinte dal sentimento della pietà, sono venute per trafugare il corpo del fratello, portarlo via e seppellirlo. La guerra tra Tebe e Argo si è appena conclusa ed i letti sono occupati da scheletri che pian piano prendono vita: sono coro e spettri della città di Tebe, tornati in vita per obbedire a Creonte in opposizione all’indovino Tiresia (magistralmente interpretato da Francesca Benedetti).

La determinazione di Antigone mette in crisi in Creonte la sua posizione di maschio che deve difendere l’ordine costituito e non permettere che le donne abbiano la meglio.

In questa alternanza di luci e di ombre, la tragedia si risolve nel segno della morte e del sangue, perché non c’è per l’uomo la possibilità di sfuggire alla sorte che gli è stata destinata.

Si ribellerà Antigone e nell’ospedale–obitorio sopporterà la pena di essere sepolta viva, decidendo poi impiccarsi, scatenando così la maledizione profetizzata da Tiresia sul capo di Creonte, generando i cadaveri dei suoi familiari.

L’ostinazione di Creonte, re non pago di aver inasprito i legami familiari poiché Emone, suo figlio è promesso ad Antigone e la ama, e lui l’ha condannata, è sconfinata. Creonte è un sovrano autoritario e un uomo gelido e sicuro di sé che si spezza però dinanzi ai cadaveri del figlio e della moglie Euridice entrambi suicidi: l’uno dopo aver visto la sua amata Antigone impiccata e l’altra per il dolore della perdita del figlio vivendo il resto dei suoi giorni senza potersi liberare dalla proprie colpe.

La regia di Tiezzi conferma la sua ricchezza visionaria attenta ad esaltare questa complessa trama sotterranea, la destabilizzante guerra tra sessi ma anche lo spietato destino che fa ricadere sui figli le colpe dei genitori, in una catena senza fine di orrori e tragedie. Un velo di speranza forse da coloro che in chiusura lavano il pavimento, spazzando via colpe e sangue ed auspicando una necessaria rinascita.

data di pubblicazione:15/02/2018


Il nostro voto:

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello, regia di Luca De Fusco

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello, regia di Luca De Fusco

 (Teatro Argentina – Roma 6 febbraio/18 febbraio 2018)

Dopo il debutto a Napoli dello scorso ottobre si chiude al Teatro Argentina di Roma la lunga tournée di Sei personaggi in cerca d’autore, in scena dal 6 al 18 febbraio con la regia di Luca De Fusco e protagonista Eros Pagni.

Sei personaggi in cerca d’autore è certamente il dramma più famoso di Luigi Pirandello, rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma, da subito contestato ed in seguito osannato per la forza dirompente di un’opera che sembrava provenire dal futuro, anticipando i tempi in modo inaspettato. Un’opera che identifica la massima riflessione sulla natura stessa del teatro nella drammaturgia del Novecento ed anticipa l’arte concettuale, il surreale, l’esistenzialismo,  rompendo lo schema tradizionale della finzione realistica.

La scenografia dello spettacolo è tutta basata su un grande muro presente sul fondo della scena.  Il muro è in realtà anche un grande schermo cinematografico e da questo schermo escono all’inizio i sei personaggi. Una duplice accezione, teatrale e cinematografica, in cui le figure reali sono riprese da telecamere e proiettate sullo schermo come grandi presenze immaginate ed evocate.

Una rilettura del capolavoro pirandelliano condotta attraverso due sistemi di comunicazione quello teatrale e quello cinematografico, il cui confronto si affacciava prepotentemente alla ribalta negli anni della stesura del testo.

Sei persone entrano in un teatro dove una compagnia di attori sta provando il dramma di Pirandello Il giuoco delle parti. Le sei figure non sono in realtà persone ma personaggi immaginati da uno scrittore che a un certo punto li ha abbandonati. Rivolti al capocomico della compagnia i Personaggi chiedono di sostituire l’autore e far recitare il loro dramma agli attori professionisti impegnati in palcoscenico. Così ciascuno dei Personaggi comincia a raccontare la propria storia. Durante le prove però, alle quali i Personaggi assistono ora in silenzio ora intervenendo con commenti e suggerimenti, ai loro occhi gli attori risultano non credibili, troppo diversi da loro e, per fare in modo che il loro destino di personaggi si compia, dovranno essi stessi recitare sul palcoscenico il proprio tragico dramma fino all’epilogo.

Una trama articolata e sovrapposta, il cosiddetto teatro nel teatro, il rapporto tra verità e finzione, esistenza e letteratura, un testo metafisico e filosofico perfettamente rispettato all’interno di un allestimento che dosa adeguatamente le componenti istintuali, i colpi di scena, le sdrammatizzazioni, la rabbia e l’angoscia.

Uno spettacolo che esalta il recitato. Una regia lineare e non dissacrante, senza voli pindarici ma senza cali di tensione. L’apparizione di Madama Pace, la proprietaria del bordello, evoca atmosfere quasi felliniane con il suo incedere grottesco e clownesco che anticipa il dramma crescente della storia che parte dall’incesto del padre con la figliastra e procede verso l’epilogo di morte. Sei personaggi allo sbando che si presentano fuori da ogni luogo e tempo ma che alla fine sono veri e vivi, disorientando e commuovendo.

data di pubblicazione: 16/2/2018


Il nostro voto: