da Rossano Giuppa | Ott 27, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Alice nella città, 18/28 ottobre 2018)
Il fiore gemello è una rarità ed è un regalo della natura che non può essere separato. Fiore Gemello è la storia di due adolescenti presi a schiaffi dalla vita, che troveranno proprio l’uno nell’altro insieme la forza per riconquistare l’innocenza perduta. Anna, sedici anni è inseguita e minacciata e non riesce a parlare più. Basim è un immigrato clandestino ivoriano alla ricerca di pace e dignità. Insieme intraprendono un percorso che è di fuga e di crescita, di consapevolezza e di dolore ma anche di rinascita. E’ un viaggio anche dentro la natura acerba e misteriosa che protegge e accoglie.
Un immigrato africano clandestino e la figlia di un trafficante di migranti inseguita in maniera ossessiva dall’uomo per cui suo padre lavorava che si è invaghito di lei e la vuole ad ogni costo,si incontrano per caso. Anzi è lui che la protegge da alcuni bulletti. Entrambi sono in fuga dal male. Tutto intorno è più grande di loro. Ma bisogna sopravvivere, bisogna lavorare, bisogna trovare un luogo sicuro per dormire, bisogna proteggersi e bisogna crescere. Ad ogni costo anche attraverso la sofferenza. Non parlano la stessa lingua, vengono da mondi troppo diversi, ma l’affetto e l’amore che progressivamente li lega diventa la loro forza ed il loro futuro. Tutto ciò che accade intorno li aiuta a ritrovarsi e a credere l’uno nell’altro. Un sentiero doloroso che lascia intravedere la luce.
Laura Luchetti ha diretto il suo secondo lungometraggio, Fiore Gemello con un amore infinito trasformando una verità cosi attuale in poesia. Il film in concorso ad Alice nella città, si è aggiudicato già numerosi riconoscimenti, quali una menzione speciale al Toronto Film Festival 2018 e al Festival di Cannes. sarà presto in concorso anche ai BFI London e Busan International Film. La metafora di Anna e Basim (veramente unici i giovanissimi attori Anastasiya Bogach e Kalill Kone), accomunati da uno stesso destino è un percorso di dolore e di rinascita: scopriranno di appartenere allo stesso bulbo e di essere inscindibili, nonostante il passato tormentato ed il futuro incerto accompagnati da una Sardegna bellissima, ancora incontaminata ed impervia che rende la storia ancora più sospesa e magica, evocativa e mistica.
data di pubblicazione:27/10/2018
da Rossano Giuppa | Ott 27, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Alice nella città, 18/28 ottobre 2018)
In una cittadina del Texas Richie Wincott, un ragazzo appena maggiorenne, esce dall’istituto nel quale è stato praticamente dalla nascita. Senza famiglia né riferimenti, deve cercare di far avviare la propria esistenza e guadagnarsi un ruolo nella società, ma non è facile, e il crimine è una tentazione facile, specie se intorno inevitabilmente arrivano le cattive compagnie. Si mette subito nei guai e viene sospettato di essere il fautore di una rapina. Niente sconti, anzi paradossalmente tutto è ancora più difficile visto che il destino lo fa innamorare di una brava ragazza mettendolo crudelmente di fronte a chi senza saperlo ha ferito mortalmente.
Friday’s Child, presentato alla tredicesima edizione di Alice nella città nella sezione Panorama, è la storia di un ragazzo confuso e sperduto che prova ad entrare in un mondo che non gli concede alcun appiglio. Richie è un ragazzo problematico, dallo sguardo quasi assente, dalle poche parole, sussurrate quasi sotto voce (straordinaria l’interpretazione di Tye Sheridan). Ancora incapace di poter trovare una propria stabilità inizia a commettere furti e piccoli crimini per poter sbarcare il lunario. Alla sregolatezza della sua vita si mischia poi il tentativo di trovare un lavoro, finché non si intromette nella sua storia l’elemento devastante, Swim che trascinerà in avventure sempre più estreme che porteranno la polizia sulle loro tracce.
L’ultimo personaggio che accidentalmente si incastra nella vita del protagonista è quello di Joan (molto brava l’attrice Imogen Poots), una giovane ragazza benestante che tenta di introdurre Richie nella sua vita. Ma le loro realtà sono troppo lontane per convivere. E quando forse uno spiraglio sembra aprirsi, il crimine commesso lo punisce in maniera ancora più drammatica, senza lasciargli scampo. L’espiazione forse riuscirà a trasmettergli una speranza per dare un senso al suo futuro.
A.J. Edwards disegna un mondo sfocato tra le strade del Texas, fatto di movimenti fluidi e liberi, grandangoli, vuoti e sovrapposizioni di luci e suoni, tra il reale e l’angoscia con lo sfondo di una natura immobile e ostile. Il regista porta sullo schermo il peso di una vita ai margini, la ricostruzione di una verità degradante, ma questo lo fa sempre mantenendo salda la sua percezione artistica delle immagini, facendo così trasparire le influenze subite dal suo maestro Terrence Malick. Angosciosamente innovativo Friday’s Child, vede inoltre coinvolto anche Gus Van Sant in veste di produttore esecutivo.
Un film che rimane attaccato alla pelle. Nonostante tutto si rimane legati ai personaggi fino alla fine, alla ricerca forse di un senso a tutto quello che sta accadendo, fino all’ultimo sospiro finale, fino a quel colloquio devastante e gelido che nello stesso tempo restituisce una dignità ed una ragione di esistere ad entrambi.
data di pubblicazione:27/10/2018
da Rossano Giuppa | Ott 27, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Alice nella città, 18/28 ottobre 2018)
Un padre separato, premuroso e concentrato sulla figlia Sofia, anni 10 reincontra una sua vecchia fiamma che non vede da tempo. È il colpo di fulmine tra Gabriele (Fabio De Luigi) e Mara (Micaela Ramazzotti). Lui è proprietario di un negozio di strumenti musicali ed ex musicista che ha abbandonato il sogno di sfondare nel rock per prendersi cura della figlia Sofia (Caterina Sbaraglia), una bambina di 9 anni che in camera insieme ai peluches ha i poster di Deborah Harry. Lei fotografa affermata che viaggia in giro per il mondo, indipendente, single e senza nessun desiderio di maternità.
L’amore sembrerebbe trionfare ma c’è un grosso ostacolo da superare: lei non vuol sentire neanche parlare di bambini. Gabriele decide quindi di nasconderle la presenza di Sofia. L’impresa però non sarà per niente facile e Gabriele finisce per impelagarsi in un pasticcio di bugie e sotterfugi per nascondere la presenza dell’una all’altra.
Dopo Classe Z Guido Chiesa torna dietro alla macchina da presa per dirigere De Luigi e la Ramazzotti in Ti presento Sofia fortemente ispirato alla sceneggiatura del riuscito film argentino Sin Hijos, uscito in Italia col titolo Se permetti non parlarmi di bambini.
Chiesa, che firma la sceneggiatura con Nicoletta Micheli e Giovanni Bognetti, manifesta l’intento di provare andare al di là dei cliché con l’inversione dei ruoli tra l’uomo che rinuncia alla carriera per mettere la figlia al centro della propria vita e viceversa una donna che di figli non ne ha voglia non solo per dedicarsi appieno al lavoro, ma anche perché i bambini non li può sopportare.
Tra tante tematiche forti e dense un tocco di leggerezza ad Alice nella città.
Il film è a tratti divertente, da domenica pomeriggio, la coppia di protagonisti funziona e Sofia, interpretata dalla bravissima Caterina Sbaraglia, per la prima volta sullo schermo, intenerisce anche per una naturale vis comica che le appartiene , ma risulta poco credibile quello che ruota attorno ai protagonisti. Un tocco più ironico e grottesco probabilmente avrebbe reso il film più interessante.
data di pubblicazione:27/10/2018
da Rossano Giuppa | Ott 24, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Alice nella città, 18/28 ottobre 2018)
Una sala stracolma di sorrisi e di etnie, di abbracci e applausi per l’italianissimo Go Home – A casa loro, lo zombie movie di periferia, fortemente voluto da Alice nella città nella sezione ‘Panorama Italia’.Si parla e si parlerà a lungo di Go Home – A casa loro, opera prima di Luna Gualano, scritto da Emiliano Rubbi.
Siamo davanti a un centro d’accoglienza, una violenta manifestazione di militanti di estrema destra ne vuole impedire l’apertura. Arrivano dei manifestanti di sinistra, divampa una lotta. La tensione sale, le facce si trasformano in preda alla rabbia, alla follia razzista, alla volontà di sopraffazione. C’è una tv di quartiere e c’è tutto il razzismo del nulla cui purtroppo siamo oggi abituati. Enrico, interpretato da Antonio Bannò,un ragazzo di estrema destra è intento a manifestare con il suo gruppo. Ma, all’improvviso, si diffonde un virus. E sul piazzale davanti al centro di accoglienza tutti cominciano a trasformarsi in zombie, a rincorrere le persone per morderle.
Enrico trova riparo nel centro di accoglienza tra i rifugiati politici che improvvisamente diventano i suoi salvatori. Mentre fuori i morti camminano sulla terra, il giovane cerca in tutti i modi di farsi accettare dai migranti mentre il pericolo dilaga.
Go Home – A Casa Loro porta avanti una lucida accusa contro l’involuzione della società; l’esasperazione del quotidiano diventa un horror sulla discriminazione e sull’odio razziale che sta dilagando in Italia, soprattutto fra i più giovani. Il sentimento d’odio che dilaga soprattutto in quelle periferie dove il conflitto sociale rischia di esplodere più facilmente.
E’ la saga della società ignorante, spaventata e aggressiva nei confronti del diverso.
Il film è una bellissima babele culturale fatta di occhi e lingue diverse: i dialoghi sono in italiano, inglese, francese, arabo, dialetto africano, quello che è poi oggi la comunicazione in un centro di accoglienza. Una intelligente allegoria su quale deriva culturale e politica sta perseguendo il nostro paese.
Ma è soprattutto la storia della realizzazione di questo piccolo grande film che incanta e che è testimoniata da tutti coloro che appaiono nei titoli, una lista infinita di nomi, una vera favola a lieto fine perché frutto della determinazione di un gruppo di persone che ha creduto e fattivamente contribuito alla realizzazione di un progetto e di un’idea. E questo è un grande insegnamento per tutti.
data di pubblicazione:24/10/2018
da Rossano Giuppa | Ott 22, 2018
(Teatro Vitttoria – Roma, 11/20 ottobre 2018)
Un uomo siede da solo davanti a un’enorme prigione in un paesaggio desertico. Chi è? E perché si trova in questo luogo? È una sua libera scelta oppure sta scontando una qualche forma di punizione?
Si apre con questi interrogativi The prisoner, ultimo lavoro di Peter Brook diretto insieme a Marie-Hèlène Estienne e presentato in prima italiana per il Roma Europa Festival al Teatro Vittoria, dall’11 al 20 ottobre.
La storia è quella del giovane e irrequieto Mavuso che uccide suo padre dopo averlo sorpreso a letto insieme a sua sorella. Mavuso in realtà ama la propria sorella Nadia e uccide il loro padre per gelosia. Lo zio Ezekiele diventa giudice di questa situazione, che è frutto di grande amore ma che ha portato a un assassinio, e condanna Mavuso a una punizione esemplare: dovrà rimanere sulla collina di fronte alla prigione, da solo a guardare le mura per un tempo indefinito, aspettando una presunta redenzione, mentre a farlo prigioniero, più che le sbarre, sono i suoi fantasmi.
Brook ed Estienne mettono in scena una parabola sul tempo della pena, uno spettacolo stupefacente che affronta i temi della punizione, della giustizia e del crimine con quel consueto tocco vibrante e poetico che caratterizza la sua scrittura scenica.
Il cast è formato da un eccezionale gruppo di attori di varie nazionalità, Hiran Abeysekera, Hayley Carmichael, Hervé Goffings, Omar Silva e Kalieaswari Srinivasan.
Gli autori antepongono la meditazione al dramma, partendo da una scenografia sospesa e immobile che racconta soprattutto il percorso tutto intimo e personale di Marvuso verso la salvezza, dal piano della redenzione a quello della consapevolezza.
Uno spettacolo rarefatto, assolutamente asciutto e essenziale. Tutto viene appunto semplicemente messo in scena, con un sapiente uso delle luci, senza interpretazioni, rivelando nodi, interrogativi, umanità cui è lo spettatore a dover dare un senso. E sono spesso i corpi, gli sguardi, i volti, la fisicità a essere assolutamente espressivi. L’umanissimo teatro antropologico del grande regista.
data di pubblicazione:22/10/2018
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