da Antonio Iraci | Feb 14, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Salutato quasi con una standing ovation, Call me by your Name, unico film italiano presentato in questa traballante edizione della Berlinale nella Sezione Panorama, ha polarizzato a buon ragione l’attenzione del pubblico.
Il film, firmato dal palermitano doc Luca Guadagnino, che ne ha curato la sceneggiatura insieme a James Ivory e Walter Fasano, si basa sull’omonimo romanzo di André Aciman.
L’azione si svolge in una non meglio identificata campagna del Nord d’Italia, dove il professore universitario d’arte antica Perlman e la sua famiglia trascorrono serenamente l’estate. Un giorno arriva il ventiquattrenne americano Oliver che verrà ospitato nella villa affinché possa completare i suoi studi di dottorato: bello ed intelligente, in poco tempo conquisterà l’attenzione di tutta la famiglia, inclusa quella del diciassettenne figlio del professore, Elio. Questi passa il tempo tra la lettura e la musica, dilettandosi a suonare al piano brani classici con una notevole professionalità; ma, come tutti i ragazzi della sua età, ama anche trascorre le serate nei bar a bere e a ballare. La frequentazione quotidiana tra i due giovani si trasforma pian piano in una relazione di cui, come lo stesso Oliver afferma, non c’è necessità di parlarne. La potenza di questo film sta proprio nell’aver utilizzato, attraverso delle immagini definite idilliache dallo stesso regista, un linguaggio espressivo semplice e autentico dove non occorrono parole per definire un sentimento di fatto indefinibile. Le scene sono girate in un modo da far sembrare tutto molto naturale e la fotografia ci fa veramente percepire la gradevolezza del paesaggio estivo in cui è ambientata la storia, ricorrendo a volte a delle dissolvenze che con discreto pudore sottraggono lo sguardo dalle immagini più intime. In sottofondo abbiamo un’Italia degli inizi anni ottanta dove, nonostante le turbolenti questioni politiche, imperava ancora l’idea di guardare al futuro con una giusta dose di ottimismo. Il film non è una love story tra due ragazzi, perché sarebbe troppo riduttivo definirla tale: sin dalle prime scene si viene catturati dalla bellezza dei luoghi in cui è ambientato il film, e dall’interpretazione assolutamente naturale dei due protagonisti Timothée Chalamet (Elio) e Armie Hammer (Oliver), come se la narrazione trattata fosse vita vissuta.
Dopo che lo scorso anno l’Italia ottenne l’Orso d’oro con Fuocoammare di Rosi, risultava alquanto strano che questa nuova edizione della Berlinale non avesse presentato alcuna pellicola made in Italy. Call me by your Name è un film che, in qualche modo, riesce pienamente a riscattare questa inspiegabile assenza, certamente non dovuta alla mancanza di talenti italiani nello scenario cinematografico internazionale.
In selezione ufficiale in questa sesta giornata sono stati presentati altri tre film: The Other Side of the Hope del regista finlandese Aki Kaurismaki, Beuys del tedesco Andres Veiel e Sage Femme del francese Martin Provost, in cui brillava come interprete principale una radiosa ed affascinante Catherine Deneuve.
data di pubblicazione:14/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 13, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Bright Nights del regista tedesco Thomas Arslan apre non bene questa quinta giornata della Berlinale. In occasione della morte del padre, che viveva in un posto remoto della Norvegia, Michael parte da Berlino con il figlio quattordicenne Luis che incontra sporadicamente da quando si è separato dalla moglie. Dopo il funerale, i due decidono di passare qualche giorno insieme accampandosi con la tenda tra i boschi e i laghi norvegesi. Per Michael e Luis, che durante il viaggio a stento si rivolgono la parola, potrebbe essere un pretesto per ritrovarsi e far nascere una affettività mai esistita. Il film è avaro di contenuti e la sceneggiatura procede con una lentezza esasperante, per poi non approdare a nulla evidenziando una certa inconsistenza.
Di ben altra pasta il film The Party della regista inglese Sally Potter che porta sul grande schermo una piéce teatrale in bianco e nero molto divertente e per nulla banale, un’amara ed allusiva riflessione sulla politica di oggi e sulle vuote prospettive che ci vengono proposte. Janet, appena nominata ministro di un governo ombra, insieme al marito Bill decidono di festeggiare l’evento con gli amici più intimi, invitandoli a casa loro. Una inaspettata dichiarazione di Bill sconvolgerà la variegata brigata che si troverà ad affrontare un pericoloso gioco al massacro dove ognuno risulterà vittima e carnefice allo stesso tempo. Il cast è di prim’ordine: Patricia Clarkson, Bruno Ganz, Cherry Jones, Emily Mortimer, Cillian Murphy, Kristin Scott Thomas e Timothy Spall. Il film è stato molto apprezzato dal pubblico in sala, piacevolmente intrattenuto dai dialoghi molto taglienti che hanno fatto sorridere, mitigando così la reale tragedia in gestazione. ù
Ultimo della giornata, sempre tra quelli in concorso ufficiale, Mr. Long del giapponese Sabu. Il film è un alternarsi di violenza da vero e proprio action movie e momenti di serenità domestica che si alternano a sentimenti di puro amore. Long, spietato killer in Taiwan, si trova braccato da pericolosi malavitosi ed è costretto a nascondersi in Giappone dove sopravvive preparando deliziose zuppe per il vicinato e per qualche casuale cliente. Il protagonista, aiutato dal piccolo Jun, cerca di raccogliere i soldi necessari per ritornare al suo paese e riprendere la vita spregiudicata di sempre. La storia si lascia seguire anche se la sceneggiatura è piuttosto prevedibile: qualche sforbiciata qua e là avrebbe sicuramente giovato all’intera narrazione che all’inizio prometteva molto bene in quanto sembrava discostarsi dai soliti cliché giapponesi, ma nel complesso poi è sembrata piuttosto deludente.
data di pubblicazione:13/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 12, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Questa quarta giornata ha finalmente aggiustato il tiro, facendo quasi dimenticare quel leggero sconforto che aleggiava tra i rappresentanti della stampa internazionale qui presenti per la Berlinale. I tre film proposti, molto diversi per tipologia e ambientazione, hanno infatti convinto il pubblico in sala che si è persino lasciato andare a inaspettati prolungati applausi. Il primo film è stato Pokot, della regista polacca Agnieszka Holland, un thriller psico-ecologista ambientato tra i boschi della Polonia dove vive da sola Duszejko (Agnieszka Mandat). Oramai in pensione, la donna mostra un’esagerata passione per gli animali che la porta a lottare in maniera aggressiva contro la società locale, molto propensa invece alla caccia indiscriminata. La bellezza della natura incontaminata dove si muovono liberamente i cervi, i cinghiali ed ogni altro tipo di animale selvaggio contrasta con la mentalità corrotta della gente, che sembra addirittura coalizzata contro di lei.
Di ben altro spessore il film fuori concorso Viceroy’s House di Gurinder Chadha, regista nata in Kenia ma di origini indiane. Il film vuole essere un devoto omaggio al paese dei suoi genitori che vissero in prima persona le vicende del 1947 che segnarono la fine della colonizzazione britannica in India e la creazione del Pakistan, un nuovo stato creato allo scopo di sedare le cruenti lotte interreligiose tra Indi e Mussulmani. Il ruolo del vicerè britannico, pronipote della regina Vittoria, è affidato a Hugh Bonneville, attore inglese molto conosciuto che ha raggiunto la notorietà grazie a Notting Hill, mentre l’americana Gillian Anderson, nota per aver partecipato alla serie televisiva X-Files, impersona sua moglie. La pellicola vanta un cast eccezionale ed una incredibile ambientazione all’interno del palazzo imperiale di Nuova Delhi entro le cui mura, oltre ai fatti storici trattati, c’è persino spazio per una love story molto sofferta tra due giovani di diversa appartenenza religiosa. Film molto interessante dunque per molteplici aspetti, con una produzione di tutto rispetto ed una regia veramente di prim’ordine: non stupirebbe un riconoscimento da parte della giuria.
Il terzo film in programma Una Mujer Fantastica, del regista cileno Sebastian Lelio, ci proietta su un pianeta completamente diverso: la realtà dei transgender. Marina e Orlando hanno una intensa storia d’amore che viene troncata dalla tragica, quanto mai inaspettata, morte dell’uomo. Da questo momento Marina deve subire tutta una serie di soprusi da parte della famiglia di Orlando a partire dalla ex moglie che gli impedisce addirittura di partecipare ai suoi funerali. Sospettata e umiliata persino dalla polizia, la ragazza dovrà a proprie spese imparare a difendersi per sopravvivere e costruirsi una nuova vita. Molto intensa Daniela Vega nel ruolo della protagonista, che è riuscita a portare il pubblico in sala dalla sua parte, instillando la voglia di lottare per la difesa dei suoi diritti civili e della sua libertà sessuale. Giornata quindi intensa e piena di sorprese che ci predispone bene nel seguire con attenzione i rimanenti (ancora numerosi) film in selezione ufficiale.
data di pubblicazione:12/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 11, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Apre questa terza giornata berlinese Félicité, il film in concorso di Alain Gomis, francese di nascita ma di origini africane. Félicité è il nome della protagonista, che si guadagna da vivere cantando in un bar di Kinshasa; a seguito di un incidente nel quale il figlio è rimasto gravemente ferito, la donna è costretta per farlo operare a ricorrere alla solidarietà dei suoi poveri ammiratori. Nonostante la tematica affrontata, che sicuramente rimanda alla triste condizione sociale del Congo, il film, di cui Alain Gomis ha curato anche la sceneggiatura, non riesce a coinvolgere più di tanto, e la musica africana che avrebbe potuto essere il collante all’intera storia, non assume invece quella nota di rilievo che ci si sarebbe aspettati. Altro film in concorso è stato Wild Mouse dell’austriaco Josef Hader, opera prima di cui ha curato anche la sceneggiatura oltre a ricoprire il ruolo da protagonista. Georg, esperto critico musicale di una testata giornalistica, si trova dall’oggi al domani licenziato per un problema di riduzione dei costi e quindi, furioso verso il suo ex capo, medita una vendetta che possa in parte compensare la frustrazione subita. Il film, che presenta un lato umoristico anche se a tinte amare, è una drammatica critica alla classe media viennese dove, talvolta, una improvvisa deviazione alle regole borghesi può essere persino tollerata e giustificata. La storia, tuttavia, non riesce proprio ad appassionare. Finalmente, anche se fuori concorso, viene proiettato Final Portrait dell’attore, regista e produttore americano Stanley Tucci, che porta per mano lo spettatore nell’atelier di Alberto Giacometti, dandogli la possibilità di osservare da vicino le stravaganze di questo pittore e scultore svizzero. L’artista propone ad un critico d’arte americano, James Lord, di posare per lui per un ritratto; ma i tempi di gestazione dell’opera saranno enormemente lunghi perché Giacometti, come una bizzarra Penelope, distrugge in un attimo ciò su cui per giorni aveva lavorato, ricoprendo quanto già dipinto per poi iniziare l’opera daccapo. L’attore australiano Geoffrey Rush (vincitore di vari premi internazionali nonché di un Oscar per il film Shine) ricopre il ruolo del protagonista confermando la sua incredibile bravura e versatilità. Da segnalare anche l’interpretazione del bell’attore californiano Armie Hammer nella parte di James, che riesce ad adattare la sua figura aristocratica all’ambiente polveroso e bohemien dell’artista. Il film è divertente, l’ambientazione perfetta, i personaggi riescono veramente a coinvolgere il pubblico. Ecco finalmente l’unico film, seppure fuori concorso, che ha riscattato un’intera giornata altrimenti tragicamente noiosa.
data di pubblicazione:11/02/2017
da Antonio Iraci | Feb 10, 2017
(Berlino, 9/19 Febbraio 2017)
Dopo Django che ha aperto ufficialmente ieri la Berlinale, tre film molto diversi tra di loro sono stati presentati in questa seconda giornata. Il primo è stato On Body and Soul della regista ungherese Ildikò Enyedi, in concorso, che ha portato sul grande schermo la storia di un uomo e di una donna che lavorano in un mattatoio, e che cautamente cercano di unire le proprie solitudini esistenziali dando vita a qualcosa che possa avere la parvenza di un rapporto d’amore. La storia scorre lentissima e sembra almeno inizialmente voler volare alto, cercando di svelare l’intimo imperscrutabile dei due protagonisti Maria (Alexandra Borbéli) e Endre (Géza Morcsanyi). Il risultato, purtroppo, delude le aspettative.
Dopo due ore di “calma piatta”, il pubblico si vede catapultato in una dimensione completamente diversa con il film fuori concorso di Danny Boyle T2 Trainspotting che raccoglie, vent’anni dopo, le stravaganze dei ben noti quattro eroinomani alle prese con problematiche esistenziali e con il loro rifiuto a qualsiasi forma di vita convenzionale. Renton (Ewan McGregor) torna a casa dopo anni di latitanza per incontrare i vecchi amici ai quali aveva sottratto il ricavato di una partita di eroina da loro venduta; i suoi tre amici Spud (Ewen Bremner), Sick Boy (Jonny Lee Miller) e Begbie (Robert Carlyle) lo stanno aspettando per regolare brutalmente i conti in sospeso. Il montaggio, perfettamente riuscito, grazie a dei flash back ci rimanda a quel Trainspotting che tanto strepitoso successo riscosse tra i giovani della generazione di allora, con un ritmo frizzante che riesce a coinvolgere emotivamente anche il pubblico più moderato.
Terzo film in concorso è stato The Dinner, del regista israeliano Oren Moverman, che ha decisamente trovato largo consenso tra il pubblico in sala. Paul (Steve Coogan) viene costretto dalla moglie Claire (Laura Linney) ad accettare un invito a cena da parte di suo fratello Stan (Richard Gere) e di sua moglie Barbara (Rebecca Hall). Tra una portata e l’altra in un ristorante di lusso dove Stan, prossimo candidato a Governatore, è di casa, i quattro si trovano a fronteggiarsi l’un contro l’altro nel prendere una importante decisione che riguarda i rispettivi figli, responsabili di un terribile crimine. Molto interessante lo studio caratteriale dei personaggi che mette in luce le diversità dei due fratelli, ma soprattutto il loro discordante senso di responsabilità nei confronti dei propri figli ora che il loro stesso futuro è seriamente messo in pericolo. Il regista evidenzia in modo molto netto il conflitto etico che spesso caratterizza la vita dell’uomo politico e quella dell’uomo comune nel trovarsi a fronteggiare situazioni imprevedibili e talvolta in contrasto con le proprie convinzioni morali. La pellicola, che ha decisamente convinto il pubblico in sala, si lascia seguire con attenzione ed interesse; splendida l’interpretazione di un maturo Richard Gere che mai come in questa prova è riuscito a dare il meglio di se stesso.
data di pubblicazione:10/02/2017
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