da Antonio Iraci | Feb 13, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
Zum Goldenen Handschuh, che in italiano sarebbe ”al guanto d’oro”, era un localaccio malfamato molto frequentato negli anni settanta che si trovava nel famoso quartiere a luci rosse St. Pauli di Amburgo. In questo bar, luogo di ritrovo di ubriachi e di vecchie prostitute, Fritz Honka andava a reclutare le sue donne per portarsele a casa nel vano tentativo di possederle sessualmente. Al suo ennesimo fallimento scaricava la sua rabbia uccidendole per poi smembrare i loro corpi e nasconderli in un ripostiglio. Una misera storia con un misero epilogo.
Fatih Akin, nato ad Amburgo da genitori turchi emigrati in Germania negli anni sessanta, è un regista e sceneggiatore oramai noto in campo internazionale dopo i successi ottenuti con La sposa turca che vinse nel 2004 l’Orso d’Oro qui a Berlino e l’European Film Award; successivamente con Ai confini del Paradiso fu premiato al 60esimo Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura mentre nel 2009 con Soul Kitchen ebbe a Venezia il Leone d’Argento, Gran premio della Giuria. Il film presentato in concorso in questa edizione della Berlinale è tratto da un fatto di cronaca vera che riguarda Fritz Honka, un serial killer la cui storia aveva ispirato nel 2016 Heinz Strunk a scrivere un romanzo subito considerato un interessante caso letterario. Colpito dalla vicenda criminale, che aveva scosso in quegli anni l’opinione pubblica tedesca, Fatih Akin porta ora sul grande schermo gli omicidi di Honka, facendo una minuziosa rappresentazione dei fatti, o meglio misfatti, dell’assassino. Lo spettatore viene quasi costretto a subire la scena in uno spazio claustrofobico dove oltre al feroce delitto dovrà pure assistere alla mutilazione del cadavere. Non certo di conforto è lo spettacolo dell’umanità che si incontra nel famoso locale di Amburgo: ubriachi senza fissa dimora e prostitute dai corpi informi avvolti in panni sudici e maleodoranti e la cui esistenza non interessa a nessuno. Nonostante la perfetta ricostruzione del singolare appartamento del serial killer e di ogni singolo dettaglio estetico, ci si chiede il perché di tutta questa messa in scena. Non sembra ravvisarsi una minima indagine psicologica della figura del protagonista e del suo background che possa in qualche modo dare una spiegazione circa gli efferati omicidi. Si nota però una certa rara convergenza tra ciò che Honka pensava delle donne e come in effetti vengono rappresentate nel film: solo carne da macello. Si tratta quindi di vedere l’umanità attraverso gli occhi di un individuo il quale patologicamente non ha più nulla di umano così come le vittime, private della vita prima ancora di essere uccise.
Ottima l’interpretazione dell’attore tedesco Jonas Dassler, che ricopre il ruolo del protagonista, veramente irriconoscibile per assomigliare il più possibile all’omicida. Ci si chiede se vale la pena di sottoporsi a questo film, a tratti decisamente disgustoso e con delle scene macabre che il regista avrebbe fatto bene ad evitarci. Pubblico in sala molto perplesso…
data di pubblicazione:13/02/2019

da Antonio Iraci | Feb 12, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
Un gruppo di ragazzi, tutti minorenni, sfrecciano con i loro scooters per le vie del rione Sanità di Napoli. Il sogno della loro vita è quello di procurarsi con ogni mezzo tanti soldi, sufficienti a garantire loro l’ultimo modello di sneakers o altro capo d’abbigliamento super firmato. Usano e spacciano droga e non esitano un istante ad impugnare le armi per tenere sotto controllo il quartiere. Il loro leader è Nicola che conosce a fondo le regole del gioco e sa esattamente che per affermarsi dovrà contrastare i vecchi boss malavitosi che ora detengono il potere. Letizia, la sua ragazza, lo seguirà in questa escalation di criminalità, anche lei è conquistata da una vita facile, piena di lusso e di divertimenti.
La paranza dei bambini, presentato oggi in concorso alla Berlinale, è un film di Claudio Giovannesi tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano che ne ha curato la sceneggiatura insieme allo stesso regista e a Maurizio Braucci. Il termine paranza non serve solo ad indicare un tipo di pesca che utilizza una rete a strascico, ma in gergo camorristico indica una piccola banda malavitosa formata da giovanissimi, ragazzi per lo più quindicenni che hanno abbandonato la scuola e che cercano di realizzare il loro unico sogno di entrare nella criminalità spicciola del quartiere in cui vivono. Per potersi imporre dovranno intanto avere una pistola per fronteggiare chi già detiene il potere, ed iniziare così a trafficare droga che consente loro di procurarsi in breve tempo una grande quantità di denaro. Divenuti i capi indiscussi che controllano gli affari, di fronte alla loro efferatezza nell’usare le armi anche i vecchi boss di una volta si arrendono e cedono il passo.
Giovannesi, regista molto sensibile verso i problemi dei giovani (ricordiamo Alì ha gli occhi azzurri del 2012 e Fiore del 2016), ha dichiarato di non volere assolutamente guadagnarsi una funziona pedagogica ma semmai illustrare una realtà, tutta napoletana, dove gli stessi giovani si trovano costretti ad una scelta criminale, per lo più inconsapevoli dei rischi e del prezzo molto alto che prima o poi dovranno pagare. Una decisione quindi determinata dalla contingenza di soddisfare per sé e per la propria famiglia dapprima dei bisogni primari, e poi per comprarsi generi di lusso veri e propri status symbol del potere. I due protagonisti Nicola (Francesco Di Napoli) e Letizia (Viviana Aprea) sono stati presi dalla strada così come tutti gli altri giovani interpreti, pure loro non professionisti, che nel quotidiano seguono per fortuna ideali ben diversi. A differenza di Gomorra di Matteo Garrone, anch’esso ispirato all’omonimo best seller di Saviano, La paranza dei bambini ci mostra un aspetto un po’ diverso, quasi tenero, intriso di un realismo estremo che ci porta ad osservare la vita pulsante dei quartieri napoletani dove nonostante tutto aleggia una profonda umanità, sentimento che in fondo anima la coscienza di questi ragazzi, cresciuti disgraziatamente in fretta.
È alta la curiosità nel vedere come la giuria valuterà questo film, in cui violenza e amore seguono le vicende degli attori verso un ineluttabile epilogo, e sui quali il regista si è astenuto volutamente dall’esprimere alcun giudizio né tantomeno dal condannare.
data di pubblicazione:12/02/2019

da Antonio Iraci | Feb 11, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
Dopo l’improvvisa morte della madre, Dafne, nata con la sindrome di Down, dovrà occuparsi energicamente del padre che sta lottando contro una forte depressione. Ma Dafne dovrà anche pensare a riorganizzare la sua vita rielaborando il lutto dentro di sé: di contro troverà, nel supermercato dove lavora, un clima di affetto tra i colleghi e gli stessi clienti, che la circondano d’affetto disinteressatamente. Nonostante la giovane età, sarà lei che prenderà in casa le redini della situazione e, con l’ottimismo che la contraddistingue, sarà capace di superare i momenti tristi e trovare la forza di andare avanti per la sua strada.
Federico Bondi è un giovane regista e sceneggiatore italiano che si è fatto già conoscere dalla critica e dal pubblico con il suo primo lungometraggio Mar Nero, più volte premiato nel 2008 al Festival di Locarno. Questo suo secondo lavoro Dafne, presentato nella Sezione Panaroma della Berlinale, è un progetto nato quasi per caso, come ha dichiarato il regista, osservando un giorno per strada un signore che teneva per mano una ragazza “Down”. Ripensando a quella scena non esitò a scrivere un soggetto che, dopo l’incontro con la protagonista Carolina Raspanti, diventerà una vera e propria sceneggiatura. Il film sin da subito colpisce proprio per la sua interpretazione, perché si percepisce che la giovane non recita alcun copione ma sé stessa, così com’è realmente nella vita. In sostanza riesce perfettamente a trasmettere la sue verve e il suo modo coraggioso di affrontare il quotidiano. Come da lei stessa affermato, le disgrazie bisogna buttarsele dietro le spalle e andare avanti perché, comunque sia, la vita è bella per quello che è e per come noi stessi vogliamo costruircela.
Una storia semplice dunque, ma che ci diverte e commuove al tempo stesso, perché tocca quanto di più genuino si possa rappresentare. Man mano che la narrazione va avanti non ci si accorge neppure della disabilità di Dafne, perché la sua diversità è al contrario ciò che rende noi diversi, incapaci di percepire e di godere “del qui ed ora”. Il padre, che per tre giorni dalla nascita non ebbe il coraggio di guardare la figlia nella culla, se ne fece poi una ragione ed ora la osserva quasi con ammirato stupore perché è proprio lei che gli procura la forza di sopravvivere al dolore per la perdita della moglie.
Quello che il film nella sua semplicità vuole dirci è che nella vita sostanzialmente non ha importanza chi riesce a dare e chi invece riceve, ciò che conta è restare uniti per superare insieme con un sorriso quello che verrà.
Un plauso va a questo giovane regista che con la sua spontaneità è riuscito a creare un gioiello cinematografico e a dare un messaggio forte al pubblico, che in sala lo ha ringraziato con un lungo e caloroso applauso.
data di pubblicazione:11/02/2019

da Antonio Iraci | Feb 10, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
Bernadette, o Benni come lei preferisce farsi chiamare, è una bambina di nove anni dall’aspetto delicato ma dotata di una terribile energia distruttiva verso tutto ciò che la circonda. La si può definire una “system crasher” termine che viene usato per descrivere quei soggetti che rifiutano qualsiasi tipo di regola e che pertanto sono destinati a essere rinchiusi in centri sociali speciali. Ma in famiglia o, peggio ancora, nei vari centri di accoglienza in cui è stata ospitata, non si riesce a calmare la sua rabbia e a infonderle quel sentimento di fiducia verso coloro che tutto sommato le vogliono bene e che si prendono con impegno cura di lei. L’unica cosa che consentirebbe a Benni di comportarsi in maniera normale sarebbe la possibilità di tornare a vivere con la madre e suoi fratellini.
A Berlino con il suo primo lungometraggio, la regista tedesca Nora Fingscheidt si occupa di una bambina a dir poco problematica, in quanto Benni (egregiamente interpretata dalla bravissima Helena Zengel) non solo è iperattiva ma è anche dotata di una incredibile dose di violenza che non esita a manifestare verso tutti coloro che la circondano, grandi e piccoli. Il film è un piccolo dramma con al centro della scena la giovane protagonista che riesce a coinvolgere il pubblico che non può che seguire con una certa apprensione tutta la sua odissea, che si svolge tra un istituto e una casa di accoglienza, in cui nessun metodo adottato riesce ad aver presa su di lei. Allo stesso tempo la storia è anche una disperata dichiarazione d’amore che la piccola tenta in ogni maniera di far giungere alla madre, donna debole ma anche l’unica che potrebbe salvarla e che, al contrario, si rifiuta di accoglierla in famiglia in quanto la ritiene pericolosa e di cattivo esempio per i suoi fratelli. Quando vediamo la bambina sottoposta ad ogni tipo di accertamento medico per scoprire quale malattia nervosa possa causare i suoi comportamenti fuori controllo, scopriamo un corpo pieno di ferite che farebbero pensare ad abusi sulla sua persona, ma che al contrario sono l’espressione concreta, tangibile, di un senso di colpa che la piccola prova e che sconta sul proprio corpo perché si ritiene incapace di conquistarsi l’affetto della madre, unica persona a cui lei tiene veramente. E così quella violenza indiscriminata verso tutti “gli altri”, è un modo per mascherare tanta infelicità e disperazione per non riuscire a tornare nella sua casa.
Systemsprenger è un film delicato, una eccellente prova registica di sensibilità verso l’infanzia calpestata, poco rispettata, alla quale non si riesce a dare attenzione e affetto necessari per una vita dignitosa.
L’interpretazione di Helena Zengel è di altissimo livello come quella dell’intero cast che ruota intorno alle vicende della piccola Benni: una storia terribilmente vera che lascia la sensazione di un vuoto inconsolabile.
data di pubblicazione:10/02/2019

da Antonio Iraci | Feb 9, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
Dopo la morte della moglie a seguito di un incidente stradale, il 67enne Trond Sander lascia Oslo per ritirarsi in un piccolo villaggio nella foresta norvegese. Siamo alla fine del 1999 ed il millennio sta per finire così come sembra finire anche la sua vita e nella più totale solitudine. Una notte riconosce in un uomo, che sta cercando il suo cane davanti la sua piccola casa sommersa dalla neve, un amico della sua infanzia. Questo incontro casuale porterà alla sua memoria il ricordo di un’estate del 1948 quando appena quindicenne aveva trascorso giornate intere ad aiutare il padre a tagliare alberi nel bosco. Per lui quell’anno fu pieno di tanti cambiamenti dal momento che proprio il suo amato genitore si stava preparando a lasciare la famiglia per iniziare una nuova vita.
Il regista norvegese Hans Petter Moland, per la quarta volta qui alla Berlinale con Out Stealing Horses in concorso per l’Orso d’Oro, ha trovato ispirazione per questo suo ultimo lavoro dal romanzo di Per Petterson che da subito ha considerato un piccolo capolavoro letterario, sia per la descrizione meravigliosa che era riuscita a dare del paesaggio norvegese sia per lo studio introspettivo del singoli personaggi del racconto. Ruolo importante per questa ottima riuscita del film è stata l’interpretazione dei due attori Stellan Skarsgard e Jon Ranes, rispettivamente nel ruolo di Trond da anziano e da giovane. La loro fisicità in continuo movimento ben si adatta alla perfezione dell’ambiente incontaminato e apparentemente statico che la fotografia di Rasmus Videbaek riesce a rendere a dir poco poetico. I singoli istanti del presente si alternano ai ricordi del passato per riportare alla memoria gli stessi affetti oramai per sempre andati. Molan si dimostra infatti un maestro nel saper far riaffiorare i ricordi di una adolescenza in cui i sentimenti sembrano faticare a farsi strada e ad esprimersi con spontaneità, e che solo la forza figurativa delle immagini utilizzate riesce in qualche modo a rappresentarli. La storia è anche il pretesto per far ritornare in vita quel nefasto periodo nazista in cui anche la Norvegia oscillava tra uno spirito collaborazionista e quello proprio della resistenza, immagini queste che erano rimaste anch’esse indelebili nella memoria del protagonista.
Il film, così come è stato strutturato, di sicuro farà parlare di sé in questa edizione della Berlinale perché oltre ad usare un linguaggio cinematografico di grande effetto riesce comunque a trasmettere allo spettatore la voglia di esplorare l’intimo degli individui per scoprirne lentamente la vera, sia pur imponderabile, natura.
data di pubblicazione:09/02/2019

Gli ultimi commenti…