da Rossano Giuppa | Mar 25, 2020
Continua a farci compagnia in queste serate l’iniziativa Cinema da casa, il flash mob cinematografico promosso da Alice nella citta, che è arrivato quasi alla fine della seconda settimana di programmazione.
Stasera verrà proiettata sulle facciate della città di Roma, grazie ai titoli suggeriti dalla rivista Cinematografo che a Fellini ha dedicato uno speciale, una selezione dedicata proprio al grande maestro mentre da domani riparte con le serate in compagnia degli amici alla finestra che si collegheranno in diretta telefonica alle 22 in occasione delle dirette sulle pagine social di Alice. Giovedì 26 marzo si aprirà in musica grazie al regista Damiano Michieletto che ha selezionato 13 sequenze tratte dai musical più amati e si proseguirà poi in commedia venerdì grazie a Rocco Papaleo e nel weekend alternanza di grandi classici e cult chiacchierando con l’attrice Sara Seraiocco per chiudere poi domenica assieme a Diane Fleri e Claudia Potenza.
Davvero un’idea bella e originale partita da Roma che grazie al passaparola è andata lontano. Ad oggi sono 60 le finestre attive in Italia e all’estero.
A Roma, Pisa e Torino si proietta tutte le sere alle 22 e da domani si proietterà quotidianamente anche a Bologna, Catania, Palermo e Cagliari.
All’estero cinema da casa è attivo nelle Filippine, Vietnam, Polonia, Bulgaria, Belgio e Svizzera e seguita anche dal brasile , un’iniziativa che è rimbalzata fino in America grazie ai social.
Noi di accreditati lo stiamo seguendo ma per partecipare a cinema da casa basta proiettare alle 22 con il proprio proiettore dalla finestra le sequenze dei film più amate oppure seguire le pagine facebook e IG di Alice alle 22 in diretta tutte le sere.
data di pubblicazione:25/03/2020
da Rossano Giuppa | Feb 29, 2020
(Teatro Ambra Jovinelli – Roma, 19 febbraio/1 marzo 2020)
L’esordio teatrale di Ferzan Özpetek è in linea con le attese. Mine Vaganti, film pluripremiato (2 David Di Donatello, 5 Nastri D’Argento), la grande commedia corale che parla di sentimenti, di famiglia, di pregiudizi, ma anche di crescita e di maturità è a teatro in versione nazional popolare queer inclused, secondo una drammaturgia semplificata rispetto al film, efficace e divertente, senza scossoni e senza grandi sorprese.
In scena c’è il giovane Tommaso che torna nella grande casa familiare al Sud. La famiglia Cantone è proprietaria di un grosso pastificio, con le sue radicate tradizioni culturali alto borghesi e un padre che vuole lasciare in eradità la direzione dell’azienda ai due figli. Il ragazzo è deciso a rivelare al colorato gruppo di famiglia che è un omosessuale con aspirazioni letterarie e non uno studente di economia fuori sede, come ha sempre fatto credere a tutti. Ma la sua rivelazione anticipata sul tempo da quella ancora più inattesa dell’altro fratello, Antonio: anche lui è gay. E da lì, tutto cambia. Tommaso si ritrova così costretto a restare nella grande casa paterna, alle prese con i problemi del pastificio di famiglia da mandare avanti dopo che Antonio è stato cacciato dal padre. Ma soprattutto a rivedere i suoi piani per affermare il suo credo nei confronti di un contesto non ancora pronto ad accettare la libertà degli individui e un nucleo familiare pieno di contraddizioni e segreti.
Özpetek sceglie di dare avvio alla narrazione con un lungo e intenso flash back del protagonista Tommaso che intreccia ricordi, dialoghi con gli altri personaggi, presente e passato.
Il richiamo ai personaggi del film è immediato e rischioso, ma l’approccio del regista è vincente in quanto elimina e rivisita particolari e personaggi, mantenendo nel contempo situazioni e battute conosciute e attese. Molto è evocato, qualcosa è cambiato, ma sostanzialmente affidandosi a un ottimo cast corale, Özpetek riesce a mantenere inalterata la briosità della commedia italiana all’interno di problematiche importanti, quali il ruolo della famiglia, il desiderio di libertà e l’affermazione della propria identità, il giudizio della società, i pregiudizi.
Anche il cast si rivela funzionale alla versione teatrale sostenuta da un bravissimo Francesco Pannofino, capofamiglia Cantone e dalla bravissima Paola Minaccioni capace di ridisegnare a propria immagine il ruolo della madre Stefania, mentre manca la forza della vera mina vagante ovvero della grandissima Ilaria Occhini.
Nel cast anche Giorgio Marchesi che qui si confronta con il ruolo del fratello maggiore, ma anche tanti altri giovani tra i quali Antonio Musella nel ruolo di Tommaso.
Mine vaganti si conferma uno spettacolo piacevole e ben confezionato, una favola agrodolce, differente ma non troppo distante dal linguaggio cinematografico di Özpetek.
data di pubblicazione:29/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 28, 2020
(Teatro Basilica – Roma, 25 febbraio/8 marzo 2020)
Enrico IV è una pietra miliare del teatro pirandelliano e della sua intera poetica. L’opera, per la regia di Antonio Calenda e la straordinaria interpretazione di Roberto Herlizka, porta in scena i grandi temi della maschera, dell’identità, della follia e del rapporto tra finzione e realtà attraverso le vicende di un uomo, un nobile dei primi del Novecento, che da vent’anni vive chiuso in casa vestendo i panni dell’imperatore Enrico IV, prima per vera pazzia, poi per simulazione ed infine per difesa. Ciò che va in scena è la follia di un teatro che guarda al reale svelando il suo gioco e gli inganni interiori.
Durante una cavalcata in costume un nobile impersona l’imperatore Enrico IV di Germania (vissuto nell’XI secolo), ed è in compagnia di Matilde Spina, donna della quale è innamorato e del suo rivale in amore Belcredi. L’uomo nella caduta batte la testa e si convince di essere realmente il personaggio storico che stava impersonando. Dopo 12 anni Enrico guarisce e comprende che Belcredi lo aveva fatto cadere intenzionalmente per rubargli l’amore di Matilde. Decide così di fingersi ancora pazzo e di immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la dolorosa realtà. A 20 anni dalla caduta, Matilde, Belcredi, Frida, la figlia di Matilde e uno psichiatra vanno a trovare Enrico IV. Lo psichiatra, interessato al caso, per farlo guarire decide di ricostruire la stessa scena di 20 anni prima e far ripetere la caduta da cavallo. La scena viene così allestita, ma al posto di Matilde recita la figlia, che è esattamente uguale alla madre Matilde da giovane, la donna che Enrico aveva amato. L’uomo prova ad abbracciare la ragazza, Belcredi si oppone ma Enrico IV sguaina la spada e uccide Belcredi. Per sfuggire definitivamente alla realtà (e alle conseguenze del suo gesto), decide di fingersi pazzo per sempre.
Attorno alla nota vicenda il regista Antonio Calenda focalizza il dramma su quell’uomo che decide di portare avanti la messinscena prima per dolore e poi per sopravvivenza. Per anni vive una vita surreale e fiabesca con l’aiuto di quattro uomini pagati per fingersi suoi servitori, ma a un certo punto riconquista la ragione e si rende conto che tutti lo prendono per pazzo. Allora capisce che esserlo gli conviene, permettendogli successivamente di osservare, da fuori, la grande sceneggiata predisposta per lui, che coinvolge anche la donna che amava, l’amante di lei, il medico che vuole provocargli uno choc per farlo rinsavire. Dopo l’omicidio del rivale decide di azzerare la propria esistenza per scegliere la finzione e tramite il teatro continuare a vivere.
In contesto asciutto ed essenziale emergono ancora di più i principi del teatro pirandelliano: l’intreccio di normalità e follia, la perdita d’identità, il rapporto tra reale e maschere che indossiamo o che gli altri ci costringono a indossare, il fallimento della scienza, la rinuncia alla vita per non affrontare la sofferenza, la follia come fuga e rifugio. A sostenere la struttura performativa alcuni bravi attori: Daniela Giovannetti, Armando De Ceccon, Sergio Mancinelli, Giorgia Battistoni, Lorenzo Guadalupi, Alessio Esposito, Stefano Bramini, Lorenzo Garufo, Dino Lopardo.
Straordinaria la capacità di Roberto Herlizka di raccontare la follia di un mondo deragliato, un labirinto che moltiplica e inverte continuamente i propri dispositivi di visione e rappresentazione e soprattutto l’ossessione del protagonista, la convulsione di sentimenti, proiezioni e sdoppiamenti; una tragedia contemporanea, dove basta operare un piccolo gesto di dissenso per sentirsi esclusi e soli.
data di pubblicazione:28/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 20, 2020
(Teatro Vascello – Roma,18/23 febbraio 2020)
Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro veniva ritrovato nel portabagagli di una Renault 4 in via Caetani, a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e da quella del Partito Comunista Italiano. La fine più amara di un rapimento e di una prigionia durata 55 giorni durante i quali lo statista decise di comunicare con il mondo, avviando un dialogo con familiari, amici, colleghi di partito, rappresentanti delle istituzioni. Lettere e memoriali redatti con passione e lucidità, di denuncia e di affetto che, a distanza di quarant’anni, Fabrizio Gifuni evoca con una lettura intima e forte, riconducendoci in quello spazio denso e doloroso, in quella storia che tutti conoscono e che molti hanno provato a cancellare.
Con il vostro irridente silenzio è una delle espressioni che Moro usa in una sua lettera per distaccarsi, in punto di morte annunciata, da quelli che sono stati i suoi colleghi di partito, quella classe politica a cui aveva dedicato la propria esistenza.
Il 16 marzo 1978, giorno in cui le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, si votava la fiducia al quarto Governo presieduto da Giulio Andreotti. Per la prima volta il Partito Comunista partecipava alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto l’esecutivo. Ed era stato Moro a gestire l’accordo. In quei lunghi giorni di prigionia il presidente della Democrazia Cristiana ha il tempo ma anche la necessità di redigere un memoriale che lo accompagnerà inesorabilmente, assieme agli interrogatori da parte del brigatista Mario Moretti. Documenti scritti di suo pugno e resi noti alcuni durante il sequestro, altri ritrovati in via successiva in un covo delle Brigate Rosse, mentre la stampa metteva in discussione e cercava di screditare quelle stesse parole. Pensieri e minuziose descrizioni che rappresentano un testamento politico e spirituale dello statista e dell’uomo, i suoi principi e le sue angosce, i suoi affetti e le sue condanne. Un fiume in piena che si cercò subito di arginare, ridimensionare, irridere. Ferendo ancora di più il suo credo. A distanza di quarant’anni ancora tanto oblio e superficialità intorno a quegli scritti.
La voce ed il minuzioso lavoro drammaturgico di Gifuni va nella direzione di chi ha scelto di non dimenticare.
Straordinaria la sua capacità di proiettarci in quell’atmosfera sospesa, tra quelle mura, a stretto contatto con l’uomo, con i suoi gesti, il suo incedere, la sua voce, il suo dolore. Fabrizio Gifuni riporta in maniera delicata e decisa il bisogno di quell’uomo di mettere a posto tutti i tasselli, di rispondere a chi è al di là di quella prigione, di confessare e accusare, di definire le sue volontà, sia nel versante politico che in quello familiare. Un dramma diffuso senza gradi di separazione, grazie alla forza di un teatro essenziale che scuote e racconta, insegnando a riflettere e a ricordare.
data di pubblicazione:20/02/2020
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Feb 8, 2020
(Teatro Eliseo – Roma, 4 -16 febbraio 2020)
In scena al Teatro Eliseo di Roma dal 4 al 16 febbraio 2020 Vetri rotti di Arthur Miller, per la regia di Armando Pugliese e interpretato da Elena Sofia Ricci, vincitrice del Premio Flaiano 2018 per la sua interpretazione. Con lei sul palco anche Maurizio Donadoni e David Coco, oltre a Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona e Serena Amalia Mazzone.
Psicanalisi, drammi storici sociali e personali attraverso gli occhi e le reazioni di una donna ebrea americana sconvolta, nel novembre del 1938, dalle notizie della Notte dei Cristalli che arrivano da Berlino, dove la esaltazione antisemita aveva portato squadre di nazisti a distruggere le vetrine dei negozi di proprietà di ebrei.
Sylvia Gellburg viene improvvisamente colpita da un’inspiegabile paralisi agli arti inferiori. Il medico, Herry Hyman, suo coetaneo e conoscente, è convinto della natura psicosomatica del male e, al tempo stesso, è sentimentalmente attratto dalla donna, mentre il marito di Sylvia, Phillip, non riesce ad accettare quanto sta accadendo. Ben presto emerge quanto Sylvia sia ossessionata dalle notizie delle persecuzioni contro gli ebrei in Germania.
Ad andare in frantumi, contemporaneamente, è anche la sua salute, il suo corpo, la sua mente che somatizza l’evento provocandole la paralisi delle gambe. I due uomini tentano due cure opposte: il primo minimizza le notizie sempre più preoccupanti che arrivano dalla Germania, il secondo le trasmette forza ed energia per reagire. Sylvia non sa darsi pace: continua a leggere la notizia sui giornali, continua a guardare l’immagine di due ebrei anziani costretti a pulire un marciapiedi con uno spazzolino da denti, mentre la folla intorno, guarda e ride.
Philip e Harry sono due uomini completamente diversi l’uno dall’altro. Philip è un agente immobiliare irascibile e irruento, un uomo dall’io spiccato e dominante che nel corso della vita matrimoniale ha ottenuto sempre da Sylvia ciò che desiderava. È riuscito a far sì che lei smettesse di lavorare nonostante stesse percorrendo una brillante carriera nel campo finanziario, e a convincerlo a mettersi a fare la casalinga e a dargli un figlio. Scheletri nell’armadio enormi, incomprensioni sepolte. Il dottor Hyman, sa come prendere i due coniugi per ottenere da loro ciò che intende ascoltare ma Sylvia non riesce più a condurre in casa le normali faccende perché non è in grado di stare in piedi. È costretta su una sedia a rotelle o a letto, e di conseguenza si sente nel morale fiaccare completamente, si sente sepolta e incapace di guarire. È fiaccata nell’animo, stanca, demoralizzata. L’angoscia per quanto accade oltreoceano si somma ad altre fonti di frustrazione e inquietudine. L’infarto e l’agonia del marito, uniti alla richiesta di perdono di lui, porteranno la donna alla improvvisa guarigione.
Vetri rotti è un testo intenso e spietato, una coinvolgente analisi delle crepe nascoste o inaspettate che possono sconvolgere le vite degli uomini. Lo spettacolo è sostenuto dalle capacità degli attori e da una straordinaria Elena Sofia Ricci, mentre appare piatta la regia e poco incisivo l’allestimento.
data di pubblicazione:08/02/2020
Il nostro voto:
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