da Rossano Giuppa | Gen 5, 2022
(Teatro Argentina – Roma, 27 dicembre 2021/6 gennaio 2022)
In scena al Teatro Argentina di Roma La vita davanti a se’, versione teatrale tratta dal romanzo omonimo di Romain Gary, già sullo schermo con protagonista Sophia Loren, con Silvio Orlando nelle vesti di protagonista, regista e sceneggiatore. Il bravissimo e coraggioso Orlando ci conduce dentro le pagine dello straordinario romanzo , diventando Momò, un bimbo arabo di 10 anni, abbandonato e segnato da un’infanzia triste e difficile (foto di Salvatore Pastore).
La vita davanti a sé è la storia di Mohammed, soprannominato Momò, ragazzino arabo allevato e cresciuto in un appartamento al sesto piano di una palazzina fatiscente nel quartiere di Belleville a Parigi da Madame Rosa, una vecchia signora ebrea scampata ai campi di concentramento, che per vivere si occupa di crescere i figli delle prostitute che per legge non possono tenerli con sé ricevendo mensilmente un mandato di pagamento per il loro mantenimento.
Momò è intelligente, intraprendente ed assetato di affetto in mezzo ad altri bambini abbandonati come il piccolo Moise, tra il gestore di prostitute Monsieur N’Da Amèdèe, il dottor Katz che cura Madame Rosa e minaccia di portarla in ospedale, Madame Lola ex boxeur senegalese divenuto prostituta richiestissima nelle banlieux parigine.
Un giorno bussa alla porta un omino che è appena uscito dal manicomio criminale dove è stato rinchiuso per molti anni con l’accusa di omicidio: si tratta del padre di Momò che vuole riaverlo con sé. Madame Rosa si oppone e l’uomo muore per una crisi cardiaca. Ma la salute della donna peggiora e di lì a poco morirà tra le braccia di Momò che la veglierà per giorni interi dopo averla cosparsa di profumo e truccata un’ultima volta.
Il romanzo è stato più volte adattato per il cinema e il teatro. Nel 1977 è stato infatti trasposto nell’omonimo film per la regia di Moshè Mizrahi con una immensa Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa, Oscar come miglior film straniero nel 1978. Su Netflix ne è stata proposta un’altra versione sceneggiata da Ugo Chiti e Edoardo Ponti che ne cura anche la regia proprio con Sophia Loren nei panni di Madame Rosa.
La vita davanti a sé ha la potenza dei grandi romanzi che hanno la capacità di prestarsi a diverse interpretazioni e Silvio Orlando riesce a coglierne tutte le sfumature e l’attualità. La convivenza tra diverse culture, il dolore e la precarietà di una vita che non trova equilibri facili e scontati, le controversie dei ceti sociali più poveri, l’emigrazione, la prostituzione, l’istinto di sopravvivenza.
Il racconto diviene un io narrante attraverso lo straordinario lavoro di adattamento e regia condotto, in grado di immergere lo spettatore nel racconto con leggerezza ed ironia, restituendo tutti i sentimenti di un bambino adulto a dispetto dell’età e del dramma che vive, consapevole si delle difficoltà della vita e bisognoso di affetto, ma già grande nei pensieri e nelle azioni.
Una scelta efficace proprio perché il romanzo diventa quasi magico attraverso la carrellata di tutti personaggi interpretati o evocati in scena ed attraverso un uso magistrale della parola e della musica, grazie alla scelta intelligente di avvalersi di grandi musicisti dell’Orchestra Terra Madre che con le loro armonie etniche hanno enfatizzato i momenti salienti della rappresentazione che si è conclusa con un fuoriprogramma che ha visto un ensemble con lo stesso Silvio Orlando al flauto.
data di pubblicazione:05/01/2022
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Nov 23, 2021
(Teatro India – Roma, 19/21 novembre 2021)
In scena per soli tre giorni al Teatro India di Roma Tiresias, spettacolo di Giorgina Pi e Bluemotions con Gabriele Portoghese (Foto di Claudia Pajewski). Le parole del poeta, rapper e performer Kate Tempest racchiuse in Hold your own / Resta te stessa prendono vita nella performance del mito dell’indovino Tiresia: la storia si rifà ad una delle tre versioni di Apollodoro che raccontano il mito della cecità di Tiresia, reso cieco dall’ira di Era e fatto dono della veggenza da Zeus.
Il dramma che diventa forza, a metà tra l’umano ed il divino. Tiresia ha vissuto più vite in una: è stato prima uomo, poi donna, poi di nuovo uomo ed è l’unica persona capace di rispondere all’interrogativo di Giove ed Era, ovvero chi provi più piacere tra uomo e donna. Proprio la sua risposta a favore dell’uomo genera l’ira della dea e darà origine alla sua cecità che però diventa anche un potere grazie a quanto donatagli a parziale compenso da Giove. Pagando con la cecità il privilegio di conoscere e dire il vero, l’indovino vive da sempre fino in fondo forme e situazioni diverse, con la capacità di guardare dentro alle cose della vita senza sfuggire alla loro verità, anche se sa che il suo destino è quello di non essere ascoltato e creduto. Gli fanno eco e compagnia, suoni e voci di un tempo lontano e prossimo, provenienti da un dj set che mixa misteriosi e simbolici vinili le cui copertine recano impresse solo le grandi iniziali del nome di Tiresia.
Questo Tiresia postmoderno e apocalittico, la cui vicenda attraversa il femminile e maschile ricomprendendole entrambe, vuole rappresentare l’umanità che chiede di essere ascoltata e accolta. La voce della rivendicazione dell’identità, basata su specificità e differenze, siano esse di genere, di età, o di altre vite trascorse.
Un lungo ed intenso racconto che alterna momenti di parlato ad attimi musicali durante i quali il bravissimo Gabriele Portoghese incarna il Tiresia ragazzino, il Tiresia donna, il musicista, il cantante, l’affabulatore che ripercorre tutta la storia dell’indovino, fino alla sua terribile condanna/salvezza.
E Kate Tempest lo osserva e lo racconta nel suo eterno vagare: sia stato maschio e femmina, giovane e vecchio, che conosce la vergogna di un’adolescenza dolorosa, ma anche la passione della maturità.
Ancora una volta il collettivo Bluemotion ci conquista con uno spettacolo che va oltre: una regia, quella di Giorgina Pi, che premia molto gli elementi scenici, pochi, essenziali, simbolici ma funzionali alla storia, tre nomination agli imminenti premi Ubu, pubblico entusiasta; il racconto della metamorfosi che è anche il racconto delle nuove generazioni.
Nonostante la storia millenaria del mito, quello di Tiresia è ancora oggi attuale, stante la necessità di qualcuno che ci indichi la via, la strada da percorrere, ciò che si dovrebbe fare e ciò che dovrebbe essere vissuto.
data di pubblicazione:23/11/2021
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Nov 20, 2021
(Teatro Vascello – Roma, 16/21 novembre 2021)
È in scena al Teatro Vascello di Roma dal 16 al 21 novembre Una Cosa Enorme, spettacolo di Fabiana Iacozzilli con Marta Meneghetti, Roberto Montosi. Produzione CrAnPi, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Fondazione Sipario Toscana in corealizzazione con Romaeuropa Festival.
In scena una donna con una pancia enorme. È incinta probabilmente da un tempo indefinito e fa di tutto per ritardare e rimandare l’evento. Tutto è sospeso ma nello stesso il tempo è trascorso, la casa è trascurata, il frigo è vuoto, la pianta è secca, le acque tentano di aprirsi. Quella condizione la turba e la affatica ma non vuole uscirne, preferendo uccidere a colpi di fucile le cicogne che sorvolano il suo tetto piuttosto che lasciare che le stesse portino fortuna e prosperità nella sua casa. E’ affaticata e trasandata, con le sole sigarette in suo soccorso. Perché trattiene quel feto in se stessa e ritarda l’evento? Perché ho così tanta paura di mettere al mondo un figlio? Vuole essere madre o può non esserlo?
Parte da questi interrogativi e dallo studio dei testi della ricercatrice israeliana Orna Donath Regretting Motherhood e del diario Maternità di Sheila Heti il processo performativo messo in atto da Fabiana Iacozzilli, che la porta ad esplorare le zone più recondite dell’identità femminile tra cultura, natura e istintività personale dando vita a uno spettacolo esasperato e naturale al tempo stesso, dando voce a paure e desideri di donna in bilico tra il desiderio e il rifiuto di essere madre. La maternità è però ben oltre le paure, le insicurezze ed i dolori della gravidanza, ma va ad affrontare l’identità simbolica della donna ed il suo ruolo di madre e di figlia che genera ed accompagna il ciclo naturale della vita. Eccola così improvvisamente madre ad accudire la sua creatura, il bambino, ragazzo, uomo e padre, sempre al suo fianco dalla nascita alla morte, secondo una circolarità che la vede protagonista e testimone. Può decidere di esimersi da tutto questo? Può scegliere di non dedicarsi alla cura dell’altro?
L’interessantissimo e coraggioso spettacolo, presentato nel 2020 alla Biennale Teatro di Venezia, racconta il tema intimo e personale della maternità, aprendo nel contempo a una riflessione sulla condizione di donne e uomini perennemente in bilico tra il volere e dovere essere genitori. Una performance forte e delicata al tempo stesso, dedicata alla condizione esistenziale declinata al femminile, tra ruoli attribuiti e scelte da porre in essere, fatto di accenni e tensioni, di rumori e respiri, di pensieri e azioni.
Un plauso ai due straordinari attori, all’allestimento ed al disegno luci ed audio. Tutto è enormemente dilatato ma anche enormemente vero. E’ questa la forza di uno spettacolo che va assolutamente visto, che abbisogna di essere decantato per entrarci maggiormente in empatia.
data di pubblicazione:20/11/2021
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Nov 9, 2021
(Teatro India – Roma, 2/7 novembre 2021)
Daria Deflorian e Antonio Tagliarini firmano la regia di Chi ha ucciso mio padre, tratto dall’omonimo testo letterario del giovanissimo scrittore Edouard Louis, andato in scena al Teatro India di Roma dal 2 al 7 novembre. Una lettera al padre in cui il figlio, interpretato Francesco Alberici, si mette di fronte a quell’uomo che per anni gli ha negato ogni confronto, eludendo in tal modo il confronto con sé stesso, un confronto scontro fra un figlio omosessuale e un padre ossessionato dal maschile, terrorizzato dalla consapevolezza di essere un perdente.
Il giovane scrittore torna al cospetto del padre che non vede da quando, quindicenne, aveva abbandonato il piccolo paese nel nord della Francia alla volta di Parigi, per fuggire da un’adolescenza di discriminazione e violenza e da piccola provincia omofoba e xenofoba quanto lo stesso padre. Ora i due sono lì, a qualche metro di distanza uno dall’altro in un grande spazio asettico e vuoto. Nel genitore, abbandonato anche dalla moglie, nel suo corpo di operaio invecchiato e vittima di un grave infortunio in fabbrica, si fanno largo stima e interesse per il figlio. Qualcosa è cambiato, perché? Una inattesa vicinanza che per Louis è e diviene anche un momento di riflessione sull’identità politica di un Paese sempre più a destra.
Il tornare da lui genera inizialmente nel ragazzo una rabbia sorda e profonda che cerca sfogo nei violenti calci dati a sacchi di spazzatura neri. Ma quei sacchi picchiati, calpestati e lacerati racchiudono i ricordi, raccontano il passato, l’infanzia, la spensieratezza e l’incomprensione, il baratro di una felicità non ottenuta. Louis si racconta, secondo un dialogo, per voce sola, tra l’esponente di classe operaia ormai condannata al declino ed il figlio omosessuale desideroso di far accettare la propria identità ad un padre ossessionato dal maschile e dalla consapevolezza di essere a sua volta un emarginato, un dominato, un perdente, proprio come le persone che più odia e a cui più teme di rassomigliare, gli arabi, le donne, gli effeminati. Ma è uno sguardo non più rabbioso, ma conciliante ed anche malinconico verso l’incapacità del padre a capire ed ad accettare, ma di certo non ad odiare. Si materializza così il VHS del film Titanic, regalo di compleanno chiesto da Eddy bambino al padre, che seccamente aveva risposto quanto fosse quello un film per femminucce, che non potevano essere dei regali da maschio e che se le cose stavano così, allora non avrebbe ricevuto alcun regalo. Tanta sofferenza ma anche la sorpresa di trovare poi la mattina del compleanno ai piedi del letto un bel cofanetto bianco, con su scritto “Titanic” in lettere dorate.
Il vero dramma non è pertanto la mancanza d’amore ma il dolore di non poter essere capiti da chi si ama per una sorta di buco culturale che non si colmerà mai. Il padre dello scrittore può soffrire per la sofferenza inferta al figlio e può soffrire perché ha fallito come marito, padre e lavoratore, perché non si è arricchito, non ha svoltato, non ha saputo dare un futuro sicuro alla sua famiglia, ma forse non capirà fino in fondo, con precisione, che il dolore di Edouard da grande, da figlio, da scrittore, sta soprattutto in questo dialogo mancante, nel suo sapere più di lui, che pure le ha subite sulla propria pelle, delle ingiustizie della vita.
Per la prima volta Deflorian/Tagliarini portano in scena un testo non scritto da loro, ma da un autore certamente affine alle tematiche trattate dai due registi ed interpreti, quali la relazione tra realtà e finzione o il rapporto tra individuo e società. Una drammaturgia performativa che guarda sempre di più alla letteratura. Tuttavia, è proprio la fedeltà al testo che permette di cogliere al meglio la qualità della drammaturgia scenica, fatta di sostanziali dettagli, di luci e respiri, di liason perfette ed efficaci tra scrittura ed interpretazione che permettono al bravissimo Francesco Alberici di raccontare il disagio familiare e generazionale in uno spazio sospeso e denso in cui riflettere.
data di pubblicazione:09/11/2021
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Ott 30, 2021
(Teatro India – Roma, 26/31 ottobre 2021)
In un’atmosfera post atomica una figura femminile a metà tra il punk e il metal d’annata, armata di lance di ferro, contempla una struttura piatta e suggestiva di cartone che si rivela essere un cartamodello enorme che rappresenta una casa. La donna gli gira intorno. Lo osserva ed inizia una relazione con la struttura, dapprima eliminando furiosamente il superfluo e poi iniziando la costruzione e l’assemblaggio. Si apre così Maison Mère l’ennesimo interessantissimo lavoro della performer Phia Ménard che ne cura drammaturgia e regia, in scena al Teatro India di Roma dal 26 al 31 ottobre.
Armata di forza e intelligenza oltre che di semplice nastro adesivo, la donna prosegue l’opera di edificazione, con grande caparbietà, perché gli equilibri sono instabili. E’ uno sviluppo sorprendente, perché nell’immediato non si immagina quale possa essere la forma definitiva che la casa andrà a prendere; e pian piano cresce e si stabilizza al suolo trasformandosi in un tempio, proprio il Partenone, grazie ad una sega elettrica che le permette di trasformare le pareti in colonne. Ma una nuvola si addensa sulla scena, diventando sempre più oscura e minacciosa, generando una pioggia dapprima leggera e poi sempre più fitta ed insistente. La casa non ha capacità di resistere a lungo, cede inesorabilmente e si liquefa al pavimento.
Dopo una formazione in giocoleria con Jérôme Thomas, nel 1998 la performer Phia Ménard ha fondato la compagnia Non Nova mettendo sempre al centro dei propri lavori le questioni sociali quali l’identità, il genere, la difesa dei diritti dell’uomo. La Ménard ricostruisce un villaggio Marshall di cartone a dimensioni reali in memoria del nonno materno vittima a Nantes dei bombardamenti degli alleati nel 1943, facendo i conti anche con l’assurdità di quel famoso piano Marshall che gestiva la ricostruzione seguendo modelli di case prefabbricate. Ancora una volta sorprende con il suo linguaggio fatto di virtuosismi e di ripetitività, dal forte impatto e dalla diretta comprensione, trasformando gli elementi di scena in struttura. L’artista effettua una riflessione su distruzione e ricostruzione attraverso l’esperienza, la fisicità, tenendosi a debita distanza da qualunque altro significato. E quel Partenone gabbia, casa, edificio primordiale, che implode sotto il peso letale dell’acqua apre a riflessioni che si accavallano una sull’altra, vera forza di questo lavoro, così come la nuvola carica di pioggia e distruzione che è un monito per le persone che non devono perdere di vista i valori fondamentali di un’umanità che si va sgretolando giorno dopo giorno a favore di cinismo, interessi personali esterni alla polis e culto del denaro.
Crolla il Partenone simbolo di una Unione Europea che si frantuma giorno dopo giorno tra sovranismi e Brexit. Crolla la casa, archetipo di protezione e sicurezza, solidità e riparo, così come tutto crolla sotto il peso del tempo che ogni cosa ricopre, tutto cancella, crollo al quale si può solo assistere in disparte, con dolore e rassegnazione come fa la Ménard. Unica interprete in scena, l’artista costruisce la gigantesca casa di cartone senza esitazione, come una guerriera che affronta la battaglia. Niente sangue, solo sudore, quello della tensione tra un’architettura titanica e la sua costruttrice. Rimane il dubbio di chi sia. Una mortale o una figura mitologica? Una rifugiata dei nostri giorni o l’artefice della ricostruzione?
data di pubblicazione:30/10/2021
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…