da Rossano Giuppa | Ott 6, 2022
(Teatro Vascello –Roma, 4/9 ottobre 2022)
Finalmente a Roma, al teatro Vascello, Resurrexit Cassandra, il testo di Ruggero Cappuccio messo in scena dal geniale artista belga Jan Fabre, con una immensa Sonia Bergamasco. La sacerdotessa inascoltata, risorge dalla mitologia greca e rinasce nel passato e nel presente per ben cinque volte, cercando di parlare agli uomini ancora una volta per avvertirli del disastro a cui stanno andando incontro; ma le parole cadono nel vuoto, nel completo disinteresse, nessuno mostra complicità e fiducia. Un viaggio attorno e dentro l’umanità, tra sicurezze e dubbi, illusioni e rischi di una consapevolezza che continuamente rischia di sfuggire (foto di Marco Ghidelli).
Cassandra, condannata da Apollo ad essere infelice e inascoltata, come narra la mitologia, per aver rifiutato il suo amore, appare sulla scena vestita di nero, muovendosi tra figure di serpenti cobra di diverse dimensioni, simbolo del male diffuso tra gli uomini. E’ rinata da quella terra che l’aveva inghiottita e preannuncia imminenti disgrazie, ancora una volta ignorate. In realtà non è affatto morta nell’Agamennone di Eschilo sgozzata dalla furia di Clitennestra, ma continua a vivere e riprodursi nei secoli, voce della coscienza di generazioni successive, con il suo carattere, la sua sapienza ed il suo bisogno di conoscenza e giustizia.
Come i serpenti cambia pelle e contesto. Si toglie una pelle-vestito e sotto ce n’è un’altra. Come scatole cinesi, gli abiti emergono via via uno dentro l’altro: nero ed austero il primo come il suo monito, rosso luccicante il secondo come il sangue dei giovani troiani morti, ingannati ed uccisi dai Greci, come lei stessa aveva profetizzato invano; blu il terzo, il colore della modernità decadente e del nichilismo del XX secolo.
Cinque i movimenti della protagonista come gli abiti (realizzati da Nika Campisi per Farani) e cinque elementi con cui dialogare ed immedesimarsi. E’ nebbia, vento, è fuoco e fumo, vapore, pioggia. Movimenti politici e ideologici radicali, cambiamenti climatici, enormi isole di plastica negli oceani, inquinamento. Lei si adagia accanto al cobra e la metamorfosi si avvia; così risorge nuovamente, spinta da un’altra profezia, sibilata nell’orecchio dal serpente. Ogni colore rispecchia una condizione. Ora il suo vestito è verde, il futuro assurdo in cui vede la volontaria distruzione della natura. Cassandra partecipa alle vicende di una natura disprezzata e umiliata, la catastrofe ecologia diventa visibile attraverso la fusione di immagini, suoni, luci. La voce esprime rabbia, denuncia sociale. E poi l’ultima rinascita, il suo vestito è bianco, colore della purezza originale, l’appello accorato di Cassandra, una preghiera per agire tutti insieme, per salvare il pianeta e liberare finalmente la sua anima dalla terra, permettendole di congiungersi all’amore puro del cielo.
Lo spettacolo è un’accusa contro l’incomprensibile talento dell’essere umano per l’auto-inganno. Un tour de force che passa anche per la variazione cromatica degli abiti da cui progressivamente liberarsi, involucri di dolore ma al tempo stesso patrimoni di sapienza e coscienza. La guerra, la violenza, il sangue, la contaminazione del pianeta, il clima, le risorse.
Sulla scena appoggiata a uno schermo, un’ascia che rende più concrete e reali le immagini offuscate di una donna che proprio con un’ascia si difende e si protegge. Così come gli echi di musica e canto che talvolta la protagonista intona, creando un paesaggio sospeso e concreto al tempo stesso, carico di suggestioni.
Sonia Bergamasco miglior attrice 2022 a Le Maschere del Teatro Italiano, incarna una indimenticabile Cassandra che vede e prevede, una profetessa ma anche una donna, densa di vitalità nel passato, nel presente e nel futuro. Cassandra avrebbe potuto salvare il mondo già diverse volte. Avrebbe potuto prevenire e mettere l’umanità al riparo dai disastri che essa stessa sta provocando. La sua voce è monito ma è anche ricchezza. Le parole vibrano di vero, ognuno se la porterà dentro. Forse quando smetterà di essere eterna, noi avremo finalmente capito.
data di pubblicazione:06/10/2022
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Lug 7, 2022
(Teatro India – Roma, 4/5 luglio 2022)
L’Africa e l’Europa. Due mondi e due comunità a confronto. Due lingue e due culture che divergono e convergono. Una interessantissima performance pensata e realizzata dal regista e visual artist Luca Brinchi, insieme alla danzatrice e coreografa Irene Russolillo ed alla cantante e beatmaker Karima 2G. Nell’ambito degli appuntamenti del festival dedicato alla danza contemporanea Fuori Programma diretto da Valentina Marini, il 4 e 5 luglio nella Sala Oceano Indiano del Teatro India è andato in scena in prima nazionale lo spettacolo IF THERE IS NO SUN (foto di Monia Pavoni).
Un viaggio da affrontare e confini da superare. Sul palcoscenico i danzatori senegalesi Antoine Danfa e Mapathe Sakho e il performer tunisino Ilyes Triki, insieme a Karima DueG e Irene Russolillo, per provare a condividere sogni e desideri legati ai luoghi e alle persone che fanno parte della propria essenza. Un viaggio lungo il quale si aprono crepe comunicative per le differenti lingue, per le differenti caratteristiche fisiche, per le diverse storie che ci sono dietro. Rimane forte il desiderio di superare limiti e convenzioni interiori. C’è un mare agitato da attraversare se si vuole andare oltre. Le figure si muovono in mezzo alle altre creature, ci sono funi da cui forse liberarsi ma sono corde che aiutano ad emergere, che diventano dread che guidano il rito tribale. E’ il momento in cui la nuova comunità emerge dal suo stato di invisibilità. Il problema è il dialogo, la babele di lingue non aiuta, e la parola diventa discorso ma anche urlo, a testimonianza della lotta di sopravvivenza e dell’affermazione dell’identità.
Luca Brinchi insieme alla cantante e beatmaker Karima 2G e alla performer Irene Russolillo si sforzano di raccontare, ognuno col proprio linguaggio, la complessità della comunicazione e dei gradi di separazione che coesistono tra Africa ed Europa, fra viaggi e confini sfocati.
Ne deriva un lavoro di ricerca intelligente, mai scontato, basato su individualità e fisicità ma anche sulla ricerca di una nuova declinazione del concetto di comunità in cui anche la luce e i suoni assumono connotazioni innovative.
“Si vorrebbero vedere i propri diritti riconosciuti e i propri fantasmi scomparire – affermano i tre artisti –. E intraprendere una lotta che è un discorso e un viaggio, in cui l’ambiente muta per consunzione e sfocatura. Il dialogo tra visione, movimento e suono si adatta e riassesta a ogni passaggio, come dopo un terremoto, quando bisogna ricostruire certezze andate in frantumi. Con le parole if – there – is – no – sun si evocano coloro che ci hanno preceduto e che hanno acceso altri soli, immaginando nuove possibili umanità”.
data di pubblicazione:07/07/2022
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Mag 29, 2022
(Teatro Argentina 26 maggio/5 giugno 2022)
In scena al Teatro Argentina di Roma Il filo di mezzogiorno, romanzo autobiografico di Goliarda Sapienza nel riadattamento teatrale di Ippolita di Majo per la regia di Mario Martone, con Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco.
Un lavoro intenso e delicato al tempo stesso, che ci permette di entrare nel mondo di Goliarda Sapienza, raccontando l’esperienza psicoanalitica vissuta dall’autrice dopo il periodo di depressione, sfociato nel tentativo di suicidio. Un dialogo terapeutico, dilatato nel tempo, che si tramuta presto in uno scontro, quasi un corpo a corpo, in una riflessione acuta e sensibile sulla condizione femminile (foto di Mario Spada).
Goliarda Sapienza, donna fuori da tutti gli schemi e dalle ideologie politiche del suo tempo, ha combattuto le sue battaglie prima da partigiana, poi da femminista, sempre controcorrente, sempre contro il conformismo e con tutti i mezzi che aveva a disposizione, primo fra tutti la scrittura. Passionale e autentica, è stata ignorata in vita quanto celebrata oggi come una delle più interessanti autrici italiane. Gli elettroshock le hanno strappato via i ricordi. Uno psicanalista voluto dal compagno Cetto, crede che la memoria si possa recuperare parlando, raccontando, abbandonandosi. E così Goliarda si affida a lui quasi innamorandosene.
Attraverso le parole che la protagonista rivolge al suo medico, con cui instaurerà questo intimo rapporto coinvolgente e appassionato, si rivive tutto il suo doloroso percorso di vita: la partenza da casa, i corsi d’arte drammatica, la persecuzione fascista, la follia della madre, la difficoltà nei rapporti con l’altro sesso, l’amore devastante per Citto.
Seduta dopo seduta, tra memorie, sensazioni e libere associazioni, Goliarda esplora il suo buio, i ripetuti elettroshock, per poi riemergere, provando a ritrovarsi.
Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco, ci guidano nel labirinto della mente, nell’unico luogo in cui è possibile accarezzare le ferite dei sogni. La scena è doppia, come riflessa in uno specchio aperto. Identici i divani, le poltrone, gli scrittoi, le librerie a muro, le fotografie. Potrebbe trattarsi del salotto di uno psicanalista o di un interno borghese o di entrambi.
Goliarda insegue la sua memoria, insegue i ricordi, le sensazioni, le libere associazioni, lo psicoanalista la guida, la accompagna, la segue, e riuscirà a condurre la scrittrice dalle tenebre alla luce della coscienza e al recupero della propria identità.
Una rappresentazione molto coinvolgente basata sulla relazione e dipendenza che lega i due personaggi, enfatizzata dall’alchimia generata dai due bravissimi interpreti, indispensabili l’uno all’altro nel sofisticato adattamento di Ippolita di Majo, che riesce in maniera intelligente a legare il racconto autobiografico, le vicende sociali, la componente terapeutica e scientifica, attraverso passaggi continui e fluidi grazie alla impeccabile regia di Mario Martone, in grado di miscelare il linguaggio filmico e quello teatrale, la vicenda e le intimità, i respiri e le emozioni.
data di pubblicazione:29/05/2022
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Mag 8, 2022
(Teatro Argentina – Roma, 28 aprile/15 maggio 2022)
La Tempesta, dramma che segnò l’addio alle scene di William Shakespeare e universalmente riconosciuto quale potente riflessione sulla libertà di scegliere se vendicarsi o perdonare, è il nuovo atteso spettacolo di Alessandro Serra in scena al Teatro Argentina di Roma (foto di Alessandro Serra).
La Tempesta di Shakespeare è uno dei grandi classici del teatro, un viaggio burrascoso nei sentimenti e nel sovrannaturale, nei territori del potere e dell’odio, ma anche nei lidi del perdono e della rinascita. Il dramma, ambientato su di un’isola imprecisata del Mediterraneo, racconta le vicende di Prospero, il vero duca di Milano, che vive in esilio e che trama per riportare sua figlia Miranda al posto che le spetta, utilizzando illusioni e manipolazioni magiche. Mentre suo fratello Antonio e il suo complice, il re di Napoli Alonso, stanno navigando sul mare di ritorno da Cartagine, il mago invoca una tempesta che rovescia gli incolumi passeggeri sull’isola. Attraverso la magia e con l’aiuto del suo servo Ariel, uno spirito dell’aria, Prospero riesce a rivelare la vera natura di Antonio, a riscattare il re e a far innamorare e sposare sua figlia con il principe di Napoli, Ferdinando.
La vicenda complessa e articolata è tutta incentrata sulla figura di Prospero, il quale, con la sua arte, tesse trame con cui costringe gli altri personaggi a muoversi secondo il proprio volere.
Alessandro Serra realizza una perfetta macchina teatrale, che esalta le scelte registiche, la gestione dello spazio scenico, le relazioni attori ambienti. Un quadrato di legno definisce l’essenza di tutta la vicenda e gestisce e coordina tutte le azioni e tutti i personaggi.
Serra poi riesce a creare con i giochi di luce, una serie di spazi fisici e concettuali con l’ausilio anche di enormi pannelli scorrevoli sul fondale che evocano retropensieri paralleli e sovrapposti un po’ come tutte le figure della tragedia shakespeariana che ruotano attorno alla figura ed alle arti magiche di Prospero, affidato alla solida interpretazione di Marco Sgrosso.
Gioca un ruolo decisivo anche la danza, che scandisce i passaggi della trama, attraverso la figura – forse la più forte dell’intero spettacolo – dello spirito Ariel, interpretato da Chiara Michelini. Tutte interessanti le altre interpretazioni dei naufraghi, alle prese con brame di potere e paure e pentimenti, la figura di Calibano e dei suoi compari.
A tratti lo spettacolo sembra quasi non prendere troppo sul serio l’evoluzione degli eventi, esaltando il lato leggero delle cose. La sensazione è che ciò che conta e che lascia il segno in questa Tempesta stia oltre il teatro, oltre il dialogo in una dimensione più grande, quella, per citare ancora Ariel, dello spirito del teatro.
Alla fine resta, naturalmente, anche il messaggio morale dello spettacolo, ovvero la rinuncia di Prospero alla vendetta. Con la vita che va avanti e l’amore di Miranda e Ferdinando che rigenera e promana fiducia al nuovo corso delle cose.
data di pubblicazione:08/05/2022
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Apr 29, 2022
(Teatro India –Roma, 26/30 aprile 2022)
Biancofango presenta al Teatro India di Roma ABOUT LOLITA, diretto da Francesca Macrì e prodotto dal Metastasio di Prato e da Fattore K. Una drammaturgia originale che riscrive il mito di Lolita e l’immagine della ragazzina in costume da bagno che guarda senza pudore la macchina da presa, ricercando quel che è rimasto nell’immaginario collettivo del personaggio nato dalla penna di Vladimir Nabokov e reso immortale da Stanley Kubrick. In un campo da tennis, fisico e metaforico, va in scena il drammatico scambio di colpi tra sensi di colpa, fallimenti, l’attrazione della giovinezza in età adulta (foto di Piero Tauro).
ABOUT LOLITA è stato presentato in prima assoluta alla Biennale di Venezia 2020 e rappresenta il primo passo di un dittico dedicato al tema di Lolita.
Il romanzo scandalo di Nabokov e la trasposizione cinematografica di Stanley Kubrick, entrata nella cultura di massa per dare una forma e senso all’ossessione di un uomo maturo per una ragazza pre-adolescente e nel contempo descrivere una persona giovanissima sessualmente precoce che appare comportarsi in maniera seduttiva nei confronti di uomini più grandi, individuano la densa e drammatica eredità da cui parte la rielaborazione di Biancofango. Totalmente ambientata in un campo da tennis, riprende solo alcuni momenti del testo nabokoviano ed alcuni fotogrammi del film cult riattraversandoli entrambi e abbandonandoli per viaggiare dentro il mito di Lolita, per esplorare la triangolazione pericolosa di una ragazzina troppo curiosa e due uomini, per inoltrarsi nei territori proibiti del piacere e del desiderio, in un equilibrio precario l’immaginato e l’agito.
Uno spettacolo che è esasperazione della nostalgia della giovinezza e della sua sconvolgente sessualità, il proibito ed il peccato. Accanto a Lolita impersonata da Gaia Masciale, si ritrovano i personaggi di Humbert e Quilty – rispettivamente Francesco Villano e Andrea Trapani. Giocare a tennis con Lolita diventa giocare con il fuoco, è sudare e fraintendere, desiderare fino a sentirsi male ed in colpa, è provare insieme, dolore e piacere, beatitudine e tortura. Il tutto si consuma sulla terra battuta di un rettangolo di gioco, tra una partita, spasmodici allenamenti alla battuta e chiacchiere tra un cambio di campo e l’altro. C’è il patrigno maturo, paranoicamente geloso, possessivamente legato alla ragazza, che agli occhi degli altri fa passare per sua figlia ed un amico di vecchia data, attore spaesato anch’egli soggiogato dalla ragazzina che rilegge la propria vita e carriera attraverso i protagonisti de Il Gabbiano di Cechov e che poi rinuncia a qualsiasi approccio quando si accorge di non riuscire a tenerne il passo ad una decisa Lolita che prova a giocare con i due uomini, ma che non è in grado di fare i conti con se stessa, tra chewing gum, caramelle e canzoni di Tiziano Ferro.
I dialoghi che si intrecciano tra i protagonisti hanno il sapore di un’affannosa ricerca: dell’amore, del sesso, della consapevolezza, della crescita, della maturità arrivata troppo presto, delle occasioni perdute. Il tutto scandito da frasi e citazioni.
La drammaturgia di Francesca Macrì (che firma anche la regia) e Andrea Trapani non è un adattamento ma un’indagine su cosa sia rimasto di Lolita nel nostro immaginario. Lolita è proprio il frutto proibito, e soprattutto sono i mille stimoli al piacere che tentiamo ripetutamente, in nome di un supposto costrutto sociale, di soffocare e di censurare.
Punti cruciali dello spettacolo rimangono certamente gli scambi di sguardi, ritmi e movimenti esasperazioni del quotidiano, lo sfibrante allenamento-amplesso, la fatica della partita fatta di urla e gemiti, espedienti interessanti per dare suono e immagine al desiderio e alla disperazione. I riferimenti di partenza appaiono però talmente distanti e perfetti da vanificare lo sforzo di riscrittura drammaturgica che appare talvolta un po’ banale e poco coinvolgente.
data di pubblicazione:29/04/2022
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…