da Daniele Poto | Mar 2, 2022
Un mockmuntary italiano in piena regola con la descrizione della vita immaginaria di un’attrice che però percorre passi e stralci di una vita reale. Con realtà e finzione continuamente alternatesi su un piano di interessante sintesi per lo spettatore. Il capolinea con un suicidio che avviene in una squallida stanza d’albergo nello stesso giorno in cui muore Enrico Berlinguer. 38 anni fa.
Affascinante nel giorno dell’anteprima constatare la passione con cui la coppia Angeli-Bonifazi ha perseguito il completamento e la definitiva uscita di una pellicola che, tra vari intervalli, ha portato via un bel pezzo dei tredici anni di vita della coppia. Anzi, il plot ha una genesi ancora più antica dato che segue, con un grosso taglio di scrittura, un omologo spettacolo teatrale che debuttò nel 2001 con musiche originali abbondantemente utilizzate nel movie odierno. C’è tanta storia d’Italia nelle immagini di repertorio. Tra terrorismo, complottismo, gavetta e prime esperienze di un’attrice immaginaria che parte dal Mandrione pasoliniano con tante speranze di carriera che si perdono tra particine, provini umilianti e l’ingresso nel cinema porno, mallevadore di tante scene di sesso. Così con continui salti cronologici il presente è un meditato suicidio in una stanza di un albergo equivoco dove vengono sparse sul letto tutti i memorabilia di un’esistenza. Luisa Bonfanti ci ha fatto vivere la propria storia e esce di scena a 36 anni con tante vite vissute e tante storie inespresse non vissute. La vicenda circoscrive la propria forbice temporale tra il 1980 e il 1984 e gioca sulla continua schizofrenia dei piani aristotelici predisponendo a varie letture e a un gioco assortito di fruizioni. Livia Bonifazi asseconda l’ambizioso progetto artistico del marito-regista con assoluta credibilità e un notevole coraggio anche per la scabrosità di molte scene. Grazie anche a un volto e a un corpo oggi senza età.
data di pubblicazione:02/03/2022
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da Daniele Poto | Feb 24, 2022
Una caduta nell’abisso della depravazione in una storia italiana di ordinaria dissipazione. Più che un’immersione sociologica nel mondo deraciné dei barboni borderline l’autrice si sofferma su un personaggio femminile che è l’onnivoro e patologico centro del racconto. Legata al personaggio che racconta da un misto di attrazione e repulsione che si sviluppa per tutta la durata del romanzo o racconto breve. Un’ossessione che nasce dal tentativo frustrato di riscatto, di un possibile aiuto per sottrarla a una condizione a cui sembra inevitabilmente destinata. I legami con la vendita sessuale, con la droga, con la mancanza di cibo, con l’abdicazione a qualunque forma di dignità rimandano al presente in chiaroscuro di tanti abitanti di San Lorenzo e dintorni. Non c’è il tentativo di disegnare una mappa corale della sofferenza perché il focus è esclusivamente puntato su Urbana, in una serie di incontri, sparizioni, abdicazioni che danno all’incerta cronologia degli avvenimenti un carattere vago e sfrangiato. Il rischio è quello del bozzettismo di genere ma crediamo che il più grosso inciampo della prova sia un certo compiacimento nella ripetizione, nel ritorno concentrico alla speranza disillusa. Urbana non è convertibile ad alcuna forma di cambiamento, destinata a inabissarsi in questo inferno che lei stessa ha creato. Storia vera di una donna irrimediabile, storia presa dalla realtà. Il fragile corpo di Urbana non resisterà a un’overdose. Se ne andrà, non rimpianta, se non dal protagonista, a soli 45 anni di età disegnando un percorso di solitudine che è proprio a molti sans papier dell’Urbe. Un linguaggio semplice e accessibile rende il libro di facile comprensione anche se una sottile inquietante linea di angoscia lo percorre per il centinaio di pagine di svolgimento. Non è un caso che l’autrice sia impegnata nel sociale e nel volontariato da tempo e che abbia affrontato vis a vis le tematiche su cui si diffonde.
data di pubblicazione:24/02/2022
da Daniele Poto | Feb 17, 2022
(Teatro Parioli – Roma, 16/27 febbraio 2022)
Un vivace ritorno in scena con un augurio che è già insito nel titolo. Ale e Franz osano lo sketch lungo e la prima è un gran successo (tutto esaurito) in una sala a loro cara per gli antichi ricordi del Costanzo show.
Non più solo comici, non più solo attori caratteristi al cinema ma interpreti in senso globale. Entertainer capaci di tenere la scena con disinvoltura per più di due ore. Con un gradito omaggio musicale a Enzo Jannacci (ma anche a Gaber) trapiantando un angolo di Milano a Roma che gradisce anche se in un’occasione si giova di una quasi traduzione simultanea dal meneghino. Non c’è da dubitare della sinergia e dell’affiatamento di una copia presa nel momento di massimo maturità (il tema dei cinquantenni ricorre spesso nello spettacolo) che annunciano una rinnovata voglia di leggerezza, giocando con le idiosincrasie del nostro tempo (l’uso sistematico dello smartphone, la gelosia patologica di un padre). Danno vita a una perfetta oleata macchia scenica assistiti da un contesto rock che è una sorta di ponte levatoio tra una situazione e l’altra. I pezzi unici sono degli assolo prolungati con un’estenuata ricerca del colpo di scena ulteriore. Il cabaret “zelighiano” di una volta si è arricchito di spaziature e coloriture che ci fanno rivedere il duo in una luce nuova, più incisiva e corrosiva. E c’è un finale che non ha fine per la voglia di rimanere sul ritrovato palcoscenico. Per lasciare tutti ancorati al felice passato lo sketch del dialogo tra i due vecchietti è il più agile e spassoso anche se tra le battute si insinua una dilagante malinconia. La durata della permanenza a Roma è foriera di un’efficace passaparola di un pubblico abbondantemente soddisfatto.
data di pubblicazione:17/02/2022
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da Daniele Poto | Feb 2, 2022
(Teatro India – Roma, 1/6 febbraio 2022)
Monologo di una scrittrice dai pensieri devianti, quasi una confessione a cuore aperto con perfetta immedesimazione tra regia, drammaturgia e voce recitante.
La sinergia teatrale tra le due Lucie (Calamaro e Mascino) fa pensare che il monologo sia stato scritto a misura della brava interprete che per un’ora nella prima davanti a una platea giovane e sinceramente entusiasta doma gli astratti fuori di una scrittrice in crisi, orfana di un successo che le arrise e che ora vede sfumare gli incipit in vicende di scarso respiro. La monologante si esprime con ruolo maschile e con l’affabulazione attoriale che le è propria interrogando a volte retoricamente il pubblico. Evocando i fantasmi dei parenti oppure scrittori masticati con difficoltà come Derrida o Deleuze. Una patina di snobismo che la fa partire ma arrivare mai. Lacerti di frasi impressioniste, brandelli di storie ma la narrazione completa le sfugge dal basso di una crisi che la tocca nella sua sfera intima, magicamente rivelata al pubblico. La drammaturgia della Calamaro è ficcante anche se a volte il testo e il senso perde di tensione e coesione (comprensibilmente non facile da mantenere dopo lo scoppiettante inizio). L’abbattimento simbolico e quasi finale della biblioteca è la metafora di un’insuperabile impotenza creativa. E il finale è come sospeso su due parole che rimandano al flusso incomprensibile dell’esistenza, del suo senso e della sua conclusione. “Ma perché? La Mascino è insieme divertente e commovente in questa recitazione rotta, vagamente dissociata e schizoide rappresentandoci onde del disagio contemporaneo. Particolarmente rilevante in una professione creativa non incasellabile in schemi rigidi. Chissà quanti scrittori mainstream possono riconoscersi in questo corrosivo quadretto. La scenografia essenziale va in tinta (bianca omogenea all’abbigliamento della magrissima protagonista. Spettacolo di vuoto più che di pieni, di un’angoscia, se si può dire, allegramente rappresentabile.
data di pubblicazione:02/02/2022
Il nostro voto: 
da Daniele Poto | Feb 1, 2022
Un nitido cronologico omaggio al Maestro delle musiche da film attraversando gloriosamente cinquanta anni di cinema, dal trash alle pellicole d’arte con una cifra stilistica inconfondibile.
Raramente si esce appagati da una sala come dopo questi 150 minuti di emozionante viaggio dentro il mondo di una persona che non riesce difficile definire artista. Film documentario (e non sembri una contraddizione) che è una sorta di intarsio di scatole concentriche. Dentro c’è la storia di mezzo secolo di cinema ma anche altrettanti anni di sviluppo musicale di un’arte artigianale. E, quello che più, conta l’evoluzione di un mito italiano. E che sorpresa trovare l’eco di Morricone (un cognome che gli americani proprio non riescono a pronunciare correttamente) nei concerti dei Clash, nei Metallica, nell’entusiastica considerazione di un Bruce Springsteen. Gruppi e cantanti apparentemente su galassie diverse. Morricone appare in tutte le sue sfaccettature. Nella sua contrastata gavetta, proveniente da famiglia umile, con padre trombettista, alle prime collaborazioni in compartecipazione. Collaborazioni tutt’altro che schifiltose anche con il cinema di serie B, prima di fare il salto di qualità con Sergio Leone. Con il rimpianto, per il divieto di quest’ultimo, di non aver potuto lavorare fianco a fianco di Kubrick per Arancia Meccanica (vincoli contrattuali). È costata sette anni di lavoro in giro per il mondo questa creazione che trasmette energia. Ma c’è anche lo sfaccettato Morricone di Nuova Consonanza, con le scorribande nella musica sperimentale, il Morricone direttore d’orchestra, l’umile ma indipendente discepolo di Petrassi. Sempre alle prese con un cronico e mai vinto complesso d’inferiorità per non aver abbracciato in toto la carriera di compositore, inventando una strada con un metodo personale e, per certi versi, irripetibile. Tornatore ha avuto l’umiltà di dedicarsi a un mito italiano, ricco di nomination, con la conquista assoluta dell’Oscar raggiunta con Tarantino, un tardivo omaggio a quanto aveva seminato con un ricco curriculum.
data di pubblicazione: 01/02/2022
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