da Daniele Poto | Mag 6, 2019
Quando uno scrittore ha raggiunto una fama internazionale può obbedire anche a una richiesta contrattuale. In questo caso da parte della indiscutibile regina editoriale della letteratura nordica. Dunque la narrativa consacrata di La vera storia del pirata Long John Silver o ne I poeti morti non scrivono gialli viene accantonata in favore di un racconto autobiografico in cui c’è anche molta Italia oltre alle molte curve e svolte della vita dell’autore. Che non aveva sicuramente nel Dna quello di diventare un autore di best seller nel procelloso mare della vita. Il libro ha molte possibili vie di comprensione per il lettore. Si può leggere come un manuale di scrittura, un prezioso zibaldone di aneddoti, un tesoretto di ispirazioni. Uno scrittore non può mancare di curiosità. Sembra essere questo l’elemento fondamentale estraibile dalle variegate esperienze dell’autore. Che destruttura anche l’ammirevole welfare del Paese che gli ha dato i natali per descriverci una realtà più complessa e contradditoria anche nel confronto esistenziale con le nazioni che ama e che gli hanno offerto adozione. C’è un po’ del pirata anche nei capitoli che raccontano gli alterni rapporti con le case editrici, i primi insuccessi, la gavetta, l’esercizio paziente della perseveranza per approdare poi a una professione abbracciata con entusiasmo. Il vero scrittore è quello che non si ripete. E dunque Larsson ha bordeggiato da romanzi di assoluta fiction, a trame di impostazione scientifica, sperimentando anche il giallo e il noir che sembravano temi fuori dai propri confini. Se alcune vite sono come un romanzo questo libro ha una sua indispensabilità. Gli aspiranti scrittori vi ritroveranno un po’ di stessi con dubbi e incertezze su un’attività che regala più delusioni che soddisfazioni. Perché, soprattutto in Italia, quasi tutti scrivono ma pochissimi leggono. E dunque si agisce in un contesto quasi desertificato che promette di godere di un modesto sviluppo futuro.
data di pubblicazione:06/05/2019
da Daniele Poto | Mag 6, 2019
(Teatro Petrolini – Ronciglione, 4 maggio 2019 fine tournée)
Un bilancio di carriera. Un po’ mesto e tristanzuolo, guardando a personaggi un po’ corrosi dal tempo ma con vette comiche indimenticabili, scolpite nella piccola storia televisiva…
Va di moda l’auto-fiction anche a teatro. Così Antonello Fassari culmina sette mesi in giro per l’Italia con un’ultima esibizione in Tuscia, nel Paese di Marco Mengoni, davanti a un pubblico ben disposto e attirato dal suo nome e dalle sue proposte comiche. Non c’è nulla che già non si sappia dei personaggi istruiti da Fassari in questi 70’ di spettacolo. Il tempo non lavora per l’attualità dei personaggi di Avanzi. Lo smemorato che non ritrova più il suo comunismo oggi suona come un ricordo d’antan, come il giornalista prono a ogni potere. Perché in questo campo la realtà ha nettamente superato la più spericolata fantasia teatrale. Apprezzabile la scenografia che mette a disposizione manichini, travestimenti e parrucche che, unitamente a una colonna sonora adeguata, contribuiscono ad alleggerire il fardello presenza scenica univoca del protagonista. Non è in discussione la capacità attoriale del comico quanto l’allestimento coerente del tutto. La voce fuori campo è quella del personaggio di maggior successo che lo incalza e in un certo modo lo perseguita. Per l’Italia tutta Fassari è Cesaroni, un personaggio da cui cercano invano di prendere le distanze. Il refrain distilla amarezza, il sostantivo simbolo, un tormentone che funziona. Nel viaggio personalissimo condito con molte tappe si passa dalla rievocazione del mito di Sisifo a Eduardo De Filippo con uno sguardo attoriale malinconico e pieno di nostalgia. E forse non tutti sanno che gli inizi di Fassari sono nel segno della canzone rap di cui offre un eloquente saggio. Emerge alla fine il ritratto di un uomo contemporaneo perennemente insoddisfatto che è un po’ lo specchio dei tempi in cui viviamo. Con poche vie di fuga e tra queste il teatro.
data di pubblicazione:06/05/2019
Il nostro voto: 
da Daniele Poto | Apr 23, 2019
Tutt’altro che distolto dal successo, anche televisivo, Antonio Manzini dal proprio eremo in Tuscia, continua a dispensare gialli all’altezza. Ma la definizione di genere ormai è limitativa per questo scrittore la cui più fortunata creazione, quel Rocco Schiavone che, filmicamente, sembra fondersi perfettamente con Marco Giallini, sembra evadere dal clichè del personaggio eternamente vincente per approdare alla perfetta sintesi tra vita di tutti i giorni e modello alternativo da adottare in caso di investigazioni.
La storia che si dipana attorno al Casino di Saint Vincent è estremamente complicata da seguire anche per un lettore attento, visto il gran numero di protagonisti, di omicidi, di vicende che si intrecciano ma la godibilità nel seguirne i flussi è ormai squisitamente letteraria. La popolarità acquisita con le prove precedenti permette a Manzini di osare anche linguisticamente e di dedicarsi all’abile e ironico tratteggio anche di figure minori, come i sottoposti di Schiavone, incompresi del suo mondo ma pronti a saccheggiarne il cassetto per assaggiare, forse per la prima volta, uno spinello. Trattasi di un mondo abbondantemente connesso alla figura femminile. Rocco, fuori di ogni metafora, è anche uno spregiudicato sciupafemmine, e, pur vivendo nel ricordo adorante della moglie, non trascura, secondo inveterate abitudini maschili, di goderne i piaceri, sia pure per una sola notte. La scena come al solito si svolge tra Roma e Aosta.
Il fascino del giallo valdostano ha una sua unicità che lo distingue dalle altre regionalità diffuse in editoria. Tutto ruota attorno ai soldi in un crescendo di colpi di scena che attizzano curiosità verso il finale. Ma il libro ha una sua validità che prescinde dalla verosimiglianza dello sviluppo. Il fascino ferino del personaggio-Rocco è un appeal che sovrasta i cerchi concentrici della storia, un piccolo classico anti-istituzionale che trascina e convince anche quando le sue maniere sono poco edificanti e il suo stile di vice-questore borderline rispetto alla pretta legalità.
data di pubblicazione: 23/4/2019
da Daniele Poto | Apr 17, 2019
Il giornalismo d’inchiesta è nelle corde del giornalista di Repubblica che, partito dalla Sicilia, ha raggiunto Roma per assistere allo scempio capitale. Dunque è quasi un ritorno a casa il focus professionale ma anche personale (è una storia anche di pedinamenti e di spionaggio) che circoscrive la parabola di Calogero Antonio Montante, mito dell’antimafia dell’isola, oscurato da una serie di reati che più che all’antimafia lo collocano in piena attività di servizio per la mafia. La finzione del politicamente corretto si riverbera in questa carriera all’ombra dei poteri forti, del riconoscimento pubblico di un padrinato illegale e/o criminale. Si documenta una storia molto siciliana, fatta di intrichi, di consorterie, di protezioni, all’ombra di uno Stato che fa della tua reputazione (falsa) un simbolo. Il reticolo era così stretto che Montante poteva vantarsi di tenere in pugno l’allora Governatore dell’isola Crocetta, detenendo un filmato sulle prodezze sessuali del politico, una bandiera anch’essa presto ammainata. La Sicilia è anche questo: contraddizioni, schizofrenia, ricatti nell’anomalia generale di usi e costumi regionali, Assemblea Regionale compresa, con i suoi privilegi e i suoi bizantinismi. Bolzoni documenta il tradimento di Montante nell’indifferenza del potere romano e di altri simboli dell’antimafia, pronti a solidarizzare con lui nel momento cruciale dell’invio dei primi avvisi di garanzia. Un potere pronto a inabissarsi pur di conservare un minimo di credibilità. La verità è che a fronte di migliaia di volontari in assoluta buonafede c’è chi ha costruito carriere, vendendo slogan e retorica, annacquando la motivazione originaria del contrasto alle mafie, scaldando poltrone, scalando incarichi e prebende, guadagnando riconoscimenti pubblici, premi compresi. Dilettanti impudicamente sovrastati dai professionisti della protesta a pagamento. Montante era la suprema copertura di un sistema marcio e corrotto. Dunque la Sicilia è la metafora del sistema-Paese e di schizofrenie non superate, nonostante un reticolo legislativo che sembrerebbe a prova di corruzione, illustrando il consueto divario tra teoria e pratica. Nella ricostruzione dell’escalation di Montante c’è un vistoso pezzo di storia d’Italia.
data di pubblicazione:16/04/2019
da Daniele Poto | Apr 15, 2019
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 4/18 aprile 2019)
Un mito che ritorna. Condensazione di stereotipi funzionali alla descrizione del personaggio: lotta al razzismo, rifiuto della guerra, egocentrismo. Un’ora per ricostruire chi odia l’originario nome di Cassius Clay.
Cui prodest la riesumazione del mito? Non si può dire che galleggi nella più pretta attualità il medaglione su Muhammad Alì, prodotto dall’Ente Teatro Cronaca e Vesuvio Teatro. Un’ora smilza che è piaciuta alla spettatrice, anch’essa napoletana, Iaia Forte. Vorrebbe essere spettacolo di pancia, di un corpo esibito (prima in tenuta sportiva, poi in elegante nero, quindi di nuovo a nudo) perché l’attore protagonista one man show ovviamente si smarca dal personaggio, bianco anziché nero, medio anziché massimo, con trenta chili in meno almeno sulla bilancia rispetto al protagonista. Però le luci soffuse minimizzano la differenza e la bravura indiscutibile dell’attore, che spesso interpella il pubblico cavandone apprezzabili risultati, fa il resto. Per uno spettacolo così essenziale la scenografia non risparmia sugli oggetti, quelli cari al pugile in una sorta di testamento spirituale che vola verso il cielo e che ricorda soprattutto il senso di esclusione dei “black” all’altezza cronologico del boom di Cassius Clay, la vittoria olimpica ai Giochi di Roma 1960, appena diciottenne. Il mito del più grande si ricolora con una grande autostima e un’indomita volontà di affermazione. Tanto da ergersi a una sorta di riconsacrazione del pugilato tout court, al di là degli specifici meriti del suo principale protagonista. Di Leva è circondato da una serie di assistenti che servono come portaoggetti e suggeritori, un po’ come nel teatro storico che fu, stampelle di un monologo filante. I pugni di Alì come la metafora del riscatto dell’umanità rispetto a una vita immaginata perdente. Lo spettacolo parla a chi non s’intende di box con il linguaggio della vita di tutti i giorni e senza alcuna pretesa didattica, semmai riassuntiva, ma non liquidatoria. Come se il dossier Alì fosse ancora aperto.
data di pubblicazione:15/04/2019
Il nostro voto: 
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