da Daniele Poto | Mar 18, 2019
(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 7/17 marzo, poi in tournèe in Italia)
Una commedia inizialmente amabile poi infinitamente nera. Con ruoli che si ribaltano in un enigmatico gioco crudele gioco di famiglia.
Ha 35 anni di vita questa energica commedia drammatica, un ossimoro che riassume le sue varie tinte e corde. Grande ammirazione per la perfetta empatia degli interpreti. Nella prima parte prevale la madre ipocondriaca sul figlio stizzito ma in fondo remissivo. Ma poi i ruoli si ribaltano e cambiano rapporti di forza, di equilibrio e persino le voci. Quella stridula della madre riacquista vitalità e si svecchia del simulacro iniziale. Al divertente succede lo sgomento e la decifrazione di un perfetto gioco di ruolo intessuto grazie all’arma della parola. Scenografia spoglia con una serie infinita di bicchieri al piano di sotto, un bisogno di acqua, una simbolica soddisfazione della sete e congrua spazialità a disposizione. I due familiari duellano e più che il fioretto usano la spada mostrando la crudeltà degli intrecci. Erta piaciuta a Ionesco questa rappresentazione per i caratteri un po’ misteriosi e ambigui dell’assunto. In effetti la trama è irraccontabile e la sua interpretazione è totalmente affidata alla fantasia e allo spirito speculativo e indagatore dello spettatore. Violenza e schizofrenia, di un piccolo gruppo di famiglia in un interno. Si scoprirà quanto sia solo un pretesto la comparsa del figlio che va a coabitare con la madre per aiutarla a convivere con una malattia incurabile. C’è molto di più e di non detto dietro questo meritevole ausilio. Nel finale, quando si sciolgono in un abbraccio, i personaggi ma anche gli attori hanno praticamente la stessa età. Miracoli della mimesi, della tecnica e della parola che è la grande manovratrice di uno spettacolo che ha riscosso calorosi consensi. Imma Villa, già protagonista di Scannasurice, è indimenticabile in un ruolo in cui mostra grande talento.
data di pubblicazione:18/03/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Mar 12, 2019
Il giallo di Mirella Gregori è agganciato gioco forza a quello della ben più popolare Emanuela Orlandi. Scherzo dei cold case o fortuna? A tutt’oggi non c’è una sicura risposta per argomentare se ci sia un filo di connessione tra le due tragiche scomparse. L’Italia è il Paese dei Misteri (Ustica, Strage di Bologna,etc) e dunque non c’è troppo da meravigliarsi per la sparizione di quasi 36 anni fa di una semplice ragazza del Nomentano che risponde a una voce anonima dal citofono, lascia la propria casa per una piccola divagazione a Villa Torlonia e da quel giorno non fa più ritorno nella propria abitazione lasciando un vuoto immenso nei genitori. Sciacalli, false piste, l’irruzione sulla scena del crimine di Alì Agca, i sospetti sul Vaticano: una ridda inestricabile di congetture piove sulla vicenda abilmente riassunta da un giornalista che si interessa alla viva cronaca e che si è appoggiato alla collaborazione dell’Associazione Penelope e della sorella di Mirella per ricostruirci, a distanza di tanti anni, un complesso vivo di circostanze, di sospetti, lanciando più di un’ombra sugli approfondimenti dell’inchiesta e sulla noncuranza iniziale con cui il caso viene trattato. La prefazione di Pietro Orlandi che in queste settimane conduce un programma sugli “scomparsi” aggiunge forza ed emotività alla narrazione per queste storie il cui capolinea sembra lontano. Ogni tanto riaffiora una voce, una supposizione, una possibile sepoltura senza che ci sia mai una conferma, un avvaloramento della pista investigativa. A fronte dei possibili assassini fa la comparsa una società degradata fatta di depistatori, di approfittatori che non hanno fornito indicazioni utili nonostante il miraggio di un appetibile ricompensa messa in campo dalle famiglie Orlandi e Gregori, nonostante la differenza di possibilità economiche. I parenti superstiti non hanno neanche una tomba su cui pregare e coltivano una speranza che si fa più flebile con il passare degli anni anche se le vicende in questione sono vive nell’immaginario collettivo di tutti gli italiani.
data di pubblicazione:12/03/2019
da Daniele Poto | Mar 5, 2019
Autore maledetto = libro maledetto? Il maestro letterario del politicamente scorretto, atteso puntualmente al varco dalla critica, permea una storia discontinua con l’assunzione del captorix, un medicinale che sembra far cambiare direzione alla vita, riuscendo a tenere sotto controllo la depressione. La vicenda di un funzionario del Ministero dell’Agricoltura sembra il parto della biografia del contestatissimo autore francese. Non si risparmiano rapporti sessualmente scabrosi, incroci pedofili, robusti dosi di cinismo sparse sul sale e il pepe della vita. Il libro si apprezza abbandonandosi al flusso della prosa, senza troppo disquisire sulla credibilità del contesto della provincia francese. Le donne del romanzo forse sono troppe come gli eccessi. L’autore sembra indulgere nel mini-racconto che però non sfocia in una narrazione coerente. Il libro sembra nascere dal rispetto di un’esigenza contrattuale vista la meritata fama di altre opere. Eppure nella nota di copertina viene definito il capolavoro: serrato lirico, a tratti umoristico, crudele, chirurgico, profetico. Davvero troppo ricco soprattutto di pagine e di devianze, di piccoli trucchi del mestiere letterario. Su tutto si stampa un’aria di malinconia e di distacco dalla vita, di uno snobistico vivere di rendita. Che sembra farlo apposta ad auto-appiccicarsi l’etichetta di antipatico. A volte funziona, a volte no perché il ricadere nella parte precostituita appare a volte stucchevole. La vita mediata da un medicinale sembra un pretesto un po’ datato anche se una generazione di americani ha fatto i conti con un prozac che ha modificato profondamente la percezione e lo stile di vita. Sullo sfondo una società liquida, eppure vitale, che l’autore sembra a tratti amare, a tratti detestare. Il mondo che gira attorno a una compressa è la metafora dell’effimero e del transeunte. Per rendere sopportabile un’esistenza che non lo è. Fino all’ultimo capolinea, inevitabilmente la morte.
data di pubblicazione:05/03/2019
da Daniele Poto | Feb 25, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 19 febbraio/3 marzo 2019)
Incandescente dramma in un interno. Una festa mal riuscita per colpa del nazismo che svela le crepe dei rapporti interni di un gruppo di presunti amici.
Un improvviso cambio di registro è la valvola della drammaturgia di uno spettacolo riuscito. L’ambientazione nei fondali della seconda guerra mondiale potrebbe sembrare un po’ retrò ma in realtà si rivela perfettamente funzionale a una situazione che potrebbe avere validità odierna come dimostrano il plot cinematografico di Perfetti sconosciuti o le stridenti storie di Yasmine Reza. L’innesco ricorda la tragedia delle Fosse Ardeatine. Un’ilare festa tra amici viene funestata dall’attentato che toglie la vita a due ufficiali tedeschi. La vendetta è raccapricciante: venti italiani, due per condominio dovranno pagare con la vita questo gesto di ribellione. E l’ufficiale nazista chiede al gruppo di famiglia e di amici in un interno di scegliere autonomamente i due virtuali condannati a morte. Il pretesto scenico è un’eccellente accensione. Come si può immaginare questa beffarda richiesta mette di fronte il gruppo alle proprie paure, a slanci di coraggio più spesso alternati a lampi di egoistica vigliaccheria. Nel contenitore dei due tempi le contraddizioni e i disvelamenti si sprecano. La moglie del padrone di casa si scoprirà poco virtuosa, il medico assai poco efficiente, persino barlumi di omosessualità trapeleranno dall’intreccio. Rari splendori e abbacinanti miserie spaccano i dialoghi. Non sveliamo il finale che non sarà necessariamente drammatico se non per le conseguenze dei rapporti tra i sette protagonisti, dilacerati per come hanno rivelato un fondo di umanità non proprio edificante, a parte qualche rara eccezione. Da sottolineare l’eccezionale omogeneità del cast tra cui spiccano la dolente debolezza del medico interpretato da Gianluca Ramazzotti, il piglio professorale e gassmanniano con cui Emanuele Salce tratteggia il personaggio di Vincenzo e la straordinaria bravura di Maurizio Donadoni alias Andrea. Il titolo sembra quanto mai appropriato a quanto si sviluppa in scena. Amici che si trasformano in belve.
data di pubblicazione:25/02/2019
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Feb 18, 2019
Un libro può contenere una vita? Domanda retorica ma che si pone misurando la vitalità di un giovane 83enne innamorato della stessa e del basket. Racconto di 70 anni di esistenza completamente votata a una professione che è anche una vocazione. Tonino Zorzi è stato prima un ragazzino molto vivace, poi un promettente cestista, quindi un capocannoniere scudettato, infine un coach che ha avuto anche missioni speciali nel guidare la nazionale italiana di pallacanestro. Non si sarebbe mai ritirato se le condizioni di salute non lo avessero costretto. E dunque in questo volume-confessione, totalmente affidato a inesistente velleità letterarie si rivela appieno: esuberante, eccessivo, sopra le righe. Non è un libro specialistico perché contiene un pezzo di trasformazione dell’Italia sportiva e non solo. Dall’oratorio all’americanizzazione spinta. Dunque di qui la libera scelta di non affidarsi a un ghost writer per tradurre in bella calligrafia i racconti sparsi di questa errabonda esistenza. Il volume è spartano e non curato, trabocca di ripetizioni e di refusi. Ma la voglia di raccontare di Zorzi erompe e scardina gli schemi e si fa perdonare la mancata revisione che avrebbe giovato alla migliore confezione e accessibilità del testo. L’anziano che affabula ha il viso dolce di un bambino che distilla dolci ricordi ad aneddoti, affogati in un mare magnum di amicizie. Si tratteggia il basket dei pionieri, della pallonessa, di quando le trasferte nell’Urss venivano ripagate con l’importazione di caviale barattato con le calze di seta. Ricordi vintage dell’epoca che fu, anche sotto canestro. Si espande la generosità di Zorzi nel lanciare giocatori d’avvenire e nell’innamorarsi delle piazze cestistiche che ha frequentato, entrate nel midollo come una seconda pelle. Zorzi ha attraversato tutta la penisola, mai negandosi un ingaggio: da Gorizia a Reggio Calabria, vivendo anni ricchi e anni grami, ma con intatto il sorriso e la soddisfazione di chi è pagato per fare nella vita il mestiere che più gli piace. Altro non avrebbe saputo scegliere né fare.
data di pubblicazione:18/02/2019
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