da Antonio Iraci | Ott 5, 2023
Harold Fry, insieme alla moglie Maureen, vive una tranquilla vita da pensionato in Kingsbridge, una piccola cittadina nel sud dell’Inghilterra. Un giorno gli viene recapitata una lettera in cui la sua ex collega Queenie comunica che ha un cancro e che è ricoverata a Berwick-upon-Tweed, in un ospizio per malati terminali. A questo punto crede che solo un atto di fede sincera potrà salvare l’amica e decide pertanto di raggiungerla attraversando a piedi l’intero paese…
Quando il talento di una ben collaudata regista come Hettie Macdonald incontra quello di un attore del calibro di Jim Broadbent, non può che generarsi qualcosa di buono, anzi di ottimo. Il film si basa sul romanzo di Rachel Joyce, che fortunatamente ne ha curato anche la sceneggiatura, evitando errate interpretazioni a tutto ciò che lei stessa aveva da comunicare. Un uomo qualunque nell’apparenza, ma che ha invece un travaglio interiore non da poco, un forte rimorso per non aver fatto tanto quanto bastava per salvare il suo unico figlio. C’è quindi un dramma da superare e un lutto forse non ancora del tutto elaborato, una moglie indifferente e una vecchiaia piatta e grigia da affrontare nel quotidiano. Una notizia improvvisa, certo non bella, ma che il protagonista sviluppa per riconvertirla in una prova di coraggio e di perseveranza verso la moglie e soprattutto verso se stesso. Un film quindi sui buoni sentimenti, sugli affetti perduti, e su quelli forse ritrovati, per scoprire che non è mai troppo tardi per darsi degli obiettivi e per impegnarsi in qualcosa che possa andare al di là delle proprie stesse aspettative. Sembra pleonastico affermare, ma il tutto si basa sull’egregia interpretazione del premio Oscar Jim Broadbent e, non da meno, su quella di Penelope Wilton, nella parte della moglie Maureen. I continui primi piani mettono in evidenza una espressività che lascia il pubblico incantato e emotivamente coinvolto nell’intera vicenda, mentre i frequenti scorci della piovosa campagna inglese, evidenziano una profondità di campo funzionale al racconto stesso, quasi a voler accompagnare il protagonista, con i suoi tempi, in un mondo reale e magico allo stesso tempo. Harold sente il bisogno di mettersi alla prova, affronta con determinazione questo lungo pellegrinaggio, un cammino forse di redenzione e di penitenza per non aver fatto abbastanza. La buona riuscita di questo film è anche dovuta a una dinamica narrativa spontanea, poco elaborata, ma non per questo priva di quella sensibilità che allo spettatore piace scoprire e apprezzare al tempo stesso.
data di pubblicazione:05/10/2023
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da Antonio Iraci | Ott 2, 2023
Tulgaa vive oramai da anni in città, dove è riuscito a occupare il posto di direttore in un importante albergo a cinque stelle. Un giorno gli viene comunicato che il padre adottivo è gravemente ammalato ed è pertanto necessario che lui ritorni al villaggio per curarlo. Tra le sterminate steppe della Mongolia raggiunge finalmente la casa paterna, giusto in tempo per assistere alla morte del genitore. La sua decisione di rimanere fino all’ultima luna piena di settembre gli permetterà di impegnarsi a portare a termine il lavoro rurale lasciato dal padre e di conoscere il giovane Tuntuulei, ribelle e impavido bambino che conquisterà il suo affetto…
Amarsaikhan Baljinnyam è uno scrittore, attore, regista e produttore mongolo che oramai da anni si è conquistato una posizione non soltanto nel suo paese d’origine ma anche in campo internazionale, soprattutto dopo la sua partecipazione, come attore, nella serie televisiva Netflix Marco Polo. L’ultima luna di settembre è il suo film d’esordio alla regia ed è stato presentato nell’ottobre dello scorso anno al Vancouver International Film Festival dove ha subito ottenuto il consenso della critica e persino un riconoscimento da parte del pubblico. In effetti il film, da poco distribuito nelle sale italiane, ha attirato anche da noi un’attenzione particolare per la delicatezza con cui il regista affronta il tema dell’affettività e, in particolare, quello della genitorialità. I due protagonisti Tulgaa (interpretato dallo stesso regista) e il piccolo Tuntuulei si incontrano nei campi e, dopo i primi attimi di reciproca avversione, tra di loro si verrà a instaurare un rapporto di sincero affetto. Entrambi non hanno avuto un vero padre di riferimento e sono alla ricerca di un sentimento concreto di cui nutrirsi. Le distanze enormi tra le varie iurte, le abitazioni mobili tipiche dei nomadi mongoli, certo non facilitano i contatti sociali e solo in determinate occasioni la comunità locale ha la possibilità di riunirsi per festeggiare qualche evento. Il regista ci rende partecipe delle bellezze sconfinate del suo paese e ci fa capire quanto sia ancora presente in quei luoghi l’attaccamento alle proprie origini e alla propria cultura. Ma c’è anche gente che lascia il villaggio per cercare in città un’agiatezza, difficile da trovare in quei luoghi sperduti. Il film induce a riflettere sui rapporti all’interno della famiglia, anche quando di fatto non c’è. Il bambino vive con i nonni, la madre è assente, anche lei andata in città a lavorare, ed è soprattutto anaffettiva nei suoi confronti. Ecco che Tulgaa diventerà per lui la figura di riferimento, quel padre tanto desiderato e mai conosciuto. È una storia semplice fatta di gente semplice che però riesce a dare quello che può. Terminato il lavoro per il quale si era impegnato, al calare dell’ultima luna di settembre, Tulgaa dovrà fare ritorno in città e staccarsi così dal bambino con il quale aveva instaurato anche un rapporto di complicità. Un distacco certo non facile che porterà in sé una riflessione profonda sull’importanza dei sentimenti e sugli affetti genitoriali. Un film ben costruito, ben interpretato e certamente da non passare inosservato.
data di pubblicazione:02/10/2023
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da Antonio Iraci | Set 24, 2023
Silva, di professione ranchero, dopo 25 anni va a incontrare l’amico Jake, ora sceriffo di Bitter Creek, un desolato villaggio ai margini del deserto. Dopo un primo momento di giustificato imbarazzo, i due si trovano a rivangare il passato quando, da giovani attraenti e promettenti malavitosi, si erano imbarcati in un’intensa, sia pur breve, love story. Ma questa inaspettata visita di Silva è un sincero ritorno a quella indimenticabile esperienza o nasconde un interesse personale ben preciso data la posizione ora ricoperta da Jake?
Almodòvar ci sorprende con un corto, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes, che già sin dai primi giorni della sua distribuzione nelle sale sta creando grande interesse e nello stesso tempo delusione. Da molti ci si aspettava una storia dai tratti più definiti e sicuramente con una durata che rispettasse i canoni tradizionali affidati a un western, sia pur Made in Spain, dove vengono usati i tempi giusti per affrontare un tema inusuale per un film di tal genere. Se qualcuno, più o meno volutamente, volesse paragonare il nuovo lavoro del regista con l’arcinoto I segreti di Brokeback Mountain, potremmo senz’altro avvertirlo che si troverebbe fuori rotta. Le situazioni e le tematiche affrontate sono completamente diverse e il fatto che entrambe si basino su una queer story non vuol dire assolutamente che le due pellicole siano in qualche modo da mettere a confronto. Almodòvar, con la maestrìa che contraddistingue il suo modus operandi, riesce a definire con brevi ma intensi affondi, una storia intrisa di esuberante passione, tra affetti sinceri, e forse rimpianti, per una antica avventura che avrebbe avuto le premesse per diventare una scelta di vita duratura. C’è un delitto da chiarire ed entrambi i protagonisti, sia pur in posizioni diametralmente opposte, si troveranno a fronteggiarsi lasciando lo spettatore nel dubbio su dove andrà a parare l’intera vicenda. Silva (Pedro Pascal) e Jake (Ethan Hawke) recitano la loro parte fino ad un certo punto ma il regista riesce a tracciare l’intero plot, con il poco tempo a disposizione, circoscrivendo l’azione con tratti profondi anche se lasciati volutamente in sospeso. Quello che c’era da dire viene detto, ed è giusto che il finale possa dare adito a conclusioni del tutto individuali. Del resto la storia del grande cinema ci insegna che la sceneggiatura non deve confezionare una ben definita soluzione, ma lasciare il tutto alla libera interpretazione da parte del pubblico e l’indimenticabile Buñuel, non a caso anche lui di sangue spagnolo, ne era la prova tangibile.
data di pubblicazione:24/09/2023
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da Antonio Iraci | Set 9, 2023
Seydou insieme al cugino Moussa, entrambi senegalesi, decidono di realizzare il loro sogno: raggiungere l’Europa e diventare cantanti famosi. Nonostante gli avvertimenti contrari, ma con il beneplacito di uno sciamano interpellato sul progetto, decidono di lasciare di nascosto la propria casa e di intraprendere il lungo e pericoloso viaggio. Gli ostacoli che dovranno affrontare saranno tanti e metteranno seriamente a rischio la loro stessa esistenza…
Come era più che prevedibile, sia da parte della critica che da parte del pubblico, la giuria di quest’anno, presieduta da Damien Chazelle, premia il film Poor Things di Lanthimos. Ma al nostro Matteo Garrone va il leone d’argento per la miglior regia che lascia più che soddisfatti i cinefili nazionali. Molti sanno che il regista, per la prima volta in concorso al festival del Cinema di Venezia, ama raccontare storie, riuscendo a creare una perfetta sintesi tra il mondo reale e quello onirico, con il risultato di inventarsi una favola che ha il sapore dell’amaro e del tenero nello stesso tempo. Con Io capitano il tema sviluppato è quello dell’immigrazione, uomini che dall’Africa affrontano dei rischi enormi pur di raggiungere in Europa una vita dignitosa e dare un futuro migliore ai propri figli. I pericoli sono tanti, e molti moriranno, come ben sappiamo, prima di vedere la terra ferma e realizzare il proprio progetto. Il film ha due protagonisti senegalesi, Seydou e Moussa, che vivono a Dakar, in un ambiente familiare dignitoso, e frequentano regolarmente una scuola. La loro aspirazione, arrivati in Europa, è però diversa da quella dei tanti migranti che affrontano il grande viaggio: i due non fuggono dalla povertà assoluta, ma vogliono solo raggiungere il successo con le loro canzoni e diventare famosi. Merito indiscusso di Garrone è quello di aver lasciato intatta la realtà in cui si muovono i giovani protagonisti, e di aver mantenuto persino la loro lingua originale, perché anche un doppiaggio in italiano avrebbe in qualche modo falsato lo spirito e il messaggio trasversale che si vuole dare al pubblico. Seydou Sarr (Premio Mastroianni come giovane attore emergente) e Moustapha Fall non ricoprono i ruoli di attori né seguono una recitazione da copione: i loro movimenti sulla scena sono la loro stessa vita, così come si svolge nel quotidiano, e le loro avventure sono proprio quelle raccontate da chi è sopravvissuto alla tremenda odissea, perché di questo si stratta. I soprusi, le torture e tutto quello che i giovani dovranno affrontare è pura realtà nonostante a noi, che stiamo da quest’altra parte del mare, venga raccontato qualcosa di diverso, sorvolando volutamente su dettagli di fondamentale importanza. Seydou non ha mai guidato una barca e non sa nemmeno nuotare, ma da obbligato “scafista” lui si prenderà la responsabilità di salvare tante vite perché lui, da improvvisato capitano, lo diventerà veramente. Garrone, ha realizzato un vero capolavoro di neorealismo e questo film, tenero e spietato nello stesso tempo, trasfonde una grande dose di umanità, quella che molti stanno perdendo o che forse non hanno mai avuto.
data di pubblicazione:09/09/2023
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da Antonio Iraci | Set 6, 2023
Robert Oppenheimer, fisico statunitense di origini ebree, sin dal periodo del suo dottorato presso l’Università di Gottinga concentra la sua ricerca sulla meccanica quantistica, basandosi sulle intuizioni del suo amico Albert Einstein. Diventato presto un famoso accademico, viene coinvolto nella sperimentazione della bomba atomica, progetto portato a termine con l’aiuto dei fisici più illustri del tempo. Siamo sul finire della seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti decidono di sganciare l’ordigno su Hiroshima e Nagasaki, costringendo così il Giappone alla resa finale…
Prometeo disobbedì a Zeus, avendo rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini, e accettò responsabilmente le conseguenze di questa ribellione: incatenato a una rupe ai confini del mondo fu poi sprofondato nell’inferno. Con questo incipit Christopher Nolan cura la regia e la sceneggiatura di questo attesissimo film che insieme a Barbie sta raggiungendo record di incassi inimmaginabili, due film diametralmente opposti nel genere ma che stanno segnando un fenomeno mediatico di grande impatto, scherzosamente definito come Barbenheimer. Forse in pochi erano a conoscenza dei retroscena che coinvolsero i fisici più illustri dell’epoca, a cavallo della seconda guerra mondiale, riuscendo a portare avanti un progetto ambizioso e nello stesso tempo quanto mai distruttivo per l’umanità. Nolan riesce a concentrare nell’espressione e nella fisicità di Cillian Murphy, che interpreta per l’appunto la figura di Oppenheimer, il tormento di un uomo che ama esibire la propria ambizione ma che poi si rende conto di quanto il suo giocattolo sarà latore di distruzione e di morte. Il plot è molto articolato e abbraccia praticamente l’intera vita del fisico, dal periodo di studio universitario alle varie fasi del progetto, che sotto la sua direzione, portò alla realizzazione della bomba atomica e continua con le varie fasi del processo intentato contro di lui per il fatto di essersi schierato contro la realizzazione della bomba all’idrogeno. Nonostante la lunga durata, alla quale oramai ci stiamo abituando, la storia si lascia seguire con attenzione non solo per le immagini curatissime, in alternanza tra il colore e il bianco e nero, ma anche per gli effetti visivi, accompagnati da un suono dirompente e non solo in senso metaforico. Con un montaggio perfetto, il film riesce a coniugare un linguaggio scientifico, forse a volte ostico per chi non è esperto della materia, con le vicende personali e familiari che riguardavano il protagonista. Ne viene fuori la figura di un uomo in contraddizione con se stesso, un concentrato di genio e sregolatezza, che lo porterà a ribellarsi verso quelle stesse istituzioni che lo avevano supportato e poi abbandonato, se non addirittura condannato. Un grande capolavoro non solo per la fotografia e gli effetti speciali ma soprattutto per l’interpretazione degli attori, un cast eccezionale che oltre a Murphy include Matt Damon, Robert Downey Jr., Kenneth Branagh, Emily Blunt, solo per citarne alcuni. Un film, forse il migliore del grande regista inglese, già in odore di Oscar prima ancora che venisse distribuito nelle sale. Si suggerisce di vedere i due film, Barbie e Oppenheimer, uno dopo l’altro per scoprirne l’effetto (esplosivo) finale!
data di pubblicazione:06/09/2023
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