da Daniele Poto | Dic 30, 2017
(Teatro della Cometa – Roma, 6/31 gennaio 2017)
Una commedia tradizionale, come se ne tentano raramente. Uno spaccato di una problematica famiglia romana di borgata, immersa nel reagente di un’Italia prossima al boom e che si gode, una dopo l’altra, come rutilanti novità, l’introduzione domestica della tivù a colori, del telefono, di un primo insperato benessere. E, attorno, fuori, il mondo che cambia.
La guerra fredda, Kruscev contro Kennedy, la morte di quest’ultimo, la tragedia tutta italiana di Longarone. È il contrasto vivido che piace a Gianni Clementi provvido dispensatore di storie. Quella raccontata in La spallata è una storia che viene da lontano: è stata editata nel lontano 2003, vincendo il premio Fondi La Pastora, trovando attualità in una compagnia affiatata, dominata dalle tre interpretazioni femminili, non facili perché ricche di sfumature e di policromi adattamenti tra primo e secondo tempo.
Citazioni di merito dunque per Elisabetta De Vito, abituale spalla di Pistoia & Triestino, Gabriella Silvestri e Claudia Ferri. La fissità disadorna della scena- un interno pasoliniano, un bagno di fortuna, un materasso che indica promiscuità e mancanza di privacy- è vivificata dal gioco delle luci che mostra e fa immaginare realtà e sviluppi diversificati.
Oltre 130 minuti in scena, un impegno non da poco per la compagnia, con un finale poetico-onirico. Se si ride si ride amaro in questa tragicommedia all’italiana che sa anche di Scola, di Nanni Loy, di proletariato inconsapevole e irredento. Tra i contrasti inter-familiari tra il primo consumismo e l’adesione al Pci, i fermenti di una società che cambia e una famiglia che cerca di sbarcare il lunario. La spallata è in gergo l’alzata di una cassa da morto, piccola industria alternativa per chi non ha i mezzi per progredire con lo stesso ritmo della classe media.
La regia della Gasbarri tiene saldi con buona proprietà i diversi registri, sfruttando un linguaggio colorito e sopra le righe.
data di pubblicazione: 30/12/2017
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Dic 16, 2017
(Teatro Eliseo – Roma, 28 novembre/17 dicembre 2017)
Gioele Dix al secolo alias Mister Ottolenghi sul palcoscenico dell’Eliseo ripresentando il Malato Immaginario (ultima versione precedente 2014) per la firmatissima regia di Andrèe Ruth Shammah non pensa minimamente di ricalcare la recitazione smorfie e sguardi storti di Alberto Sordi in una memorabile versione cinematografica.
All’Eliseo non si ruba e non si copia come ha già mostrato Dapporto “rischiando” ne Un Borghese Piccolo Piccolo dove Sordi ancora impera. Ma non è un one man show perché lo spettacolo presenta dieci attori (un lusso di questi tempi) debitamente affiatati con entrate in scena previste anche nel solo secondo tempo. Il primo in realtà è tutto suo, dell’automobilista fin troppo nervoso, con una tipizzazione efficace. Si può scrivere che Dix prenda in mano lo spettacolo e poi lo affidi ai comprimari che reggono bene la scena in una evocazione senza tempo ma dove l’uso di un’affabulazione moderna e di termini rimanda alla contemporaneità. Alla ripresa dello spettacolo c’è più Molière nell’autosfottò anche di se stesso dopo una lunga tirata (sfrondabile) sulla filosofia della medicina, la chiave di volta per il progressivo diverso parere di Argan sui propri malanni fin troppo immaginari. E’ un ipocondriaco irascibile del nostro tempo quello che viene rappresentato. Molto diverso da un italiano alle prese quotidianamente con gli ansiolitici? Diremo di no. Così in un profluvio di salassi, clisteri, medicine e piccole lezioni sanitarie prende il via e si dipana la farsa cara al teatrante francese che, ironia della sorte, morì in scena e di cui si sfrutta la pregiata traduzione di Cesare Garboli. Il sottofondo è una vicenda sentimentale fortunatamente e naturalmente risolta con un colpo di scena provocato ad arte. Particolarmente brava Anna La Rosa che spicca in un contesto affiatato e sensibilmente già rodato dalla lunga tournèe.
data di pubblicazione:16/12/2017
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Nov 30, 2017
(Teatro Vascello – Roma, 29 novembre/10 dicembre 2017)
Un’immersione nel sottoproletariato londinese, nella cupezza di vite desolate e desolanti, nell’assoluta assenza dei valori. Dove può maturare una tragedia insensata. Come un infanticidio.
La riscoperta e la valorizzazione di un testo di 52 anni fa non è un’operazione gratuita ma richiede rispetto, storicizzazione e adeguato metro valutativo. La colonna sonora dello spettacolo è gradevole e va a riempire i tempi morti dove sono gli stessi attori a comporre la mutevole scenografia. Che è un misto di vuoto e pieno. Il vuoto sono gli esterni che registrano i dialoghi tra i componenti del branco. Il pieno è la cornice solo un po’ più rassicurante di un ambito familiare oscuro ma non privo di qualche anelito e speranza. Il sottofondo è una società dove l’approdo alla middle class è solo un miraggio. Si delinea una Londra poco rassicurante, pregna di violenza, alimentata dalla disoccupazione e dall’incognita del futuro. Lo spettacolo realizzato con la collaborazione di Acea si regge su un cast ricco e quantitativamente numeroso, come raramente accade nel teatro contemporaneo, anche per una questione di costi. E l’assemblaggio inter-generazione degli attori funziona convenientemente. La chioccia è inevitabilmente Manuela Kustermann madrina del teatro, adusa al nuovo e alla sperimentazione che tiene a battesimo i ragazzi del branco e Lucia Lavia, un’attrice in continua crescita. Teatro, cinema, letteratura degli anni ’60 e ’70 ci hanno mostrato già questo vuoto pneumatico. Si respira nel testo e nei dialoghi quasi naturalistici la regola del possesso, della violenza e dell’insensatezza: un modello di vita. La cronaca nera scritta nella vicenda (la soppressione criminale di un giovane innocente) in fondo è quella che si legge oggi sui giornali di tutto il mondo. Con uxoricidi, abomini, sassi lanciati da un cavalcavia, figli che sopprimono i genitori. Una follia globalizzata che forse l’Inghilterra e la sua espressione teatrale hanno anticipato. L’atto della soppressione di un innocente è gratuito, alla Camus, con un sottofondo esistenziale che allude alla disperazione, alla disoccupazione, a un assoluto vuoto da riempire. E una raccomandazione ci fa capire che clima si respira: “Per alcune scene particolarmente crude si sconsiglia lo spettacolo a un pubblico adulto”. Non per niente la prima scena documenta un rapporto sessuale.
data di pubblicazione:30/11/2017
Il nostro voto:
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