HO SPOSATO UN COMUNISTA di Philip Roth – Corriere della Sera, 2018

La riedizione di una delle opere tardive (e sicuramente non meglio riuscite) del grande artificiere della letteratura americana, defunto senza ricevere il meritato Nobel, rievoca il clima di terrore invalso negli Stati Uniti nel segno del maccartismo, della diffusa paura del comunismo. Una sorta di antropologia diabolica dell’oscurantismo in cui caddero scrittori, sceneggiatori, artisti, precipitati nell’imbuto del sospetto anche solo per vaghe simpatie di sinistra. In questo caso l’eclisse riguarda il più estroso rappresentante della famiglia Ringold, diventato famoso per una trasmissione radiofonica, la cui colpa esistenziale maggiore nello sviluppo narrativo è quello di aver sposato l’attrice Eva Frame, diva del muto che lo denuncia apertamente in un memoriale dichiaratamente diffamatorio, estortole da simpatizzanti del senatore repressore. Lo spaccato è quello di una società americana apparentemente aperta ma in realtà razzista e non solo dei suoi neri ma anche di chi è in possesso di una tessera del Partito Comunista. Nei fatti questo partito non riuscì mai a decollare stretto del bipartitismo imperfetto tra sponda democratica e sponda repubblicana. A distanza di sessant’anni dall’epoca dei fatti narrati da Roth come potrebbe essere visto se non in una luce distorta un comunista americano?

Nell’imperfezione del plot, spesso non a fuoco, alcuni pezzi del grande romanzo americano a cui di diritto di iscrivono Saul Bellow e Bernard Malamud. Come quello sulla doverosa distinzione tra letteratura e politica. La prima che rende conto solo a sé stessa, la seconda essenziale ma dipendente e deperibile. Il romanzo utilizza lo stratagemma del memoriale, della narrazione al passato remoto e quindi diventa una sorta di realistico diario delle disavventure del protagonista raccontate dai testimoni della sua vita. E ci rimanda alle diverse percezioni della realtà e all’assoluta mancanza di un’oggettività conclamata. In letteratura come nella vita. Fedele a Roth nella traduzione e nell’impossibile resa di alcuni termini spiccatamente yiddish il noto Vincenzo Mantovani.

data di pubblicazione:14/09/2018

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