da Paolo Talone | Feb 28, 2020
(Teatro Argentina – Roma, 25 febbraio/8 marzo 2020)
Ljubov’ è di ritorno in Russia dalla Francia, dove ha vissuto cinque anni con la figlia Anja. Insieme al fratello Gaev è costretta a vendere la proprietà di famiglia, il giardino dei ciliegi. A comprarla sarà il ricco Lopachin che, con insensibile cinismo, abbatterà gli alberi e con essi i ricordi e il passato della famiglia.
Alessandro Serra torna sul palcoscenico del Teatro Argentina, dopo il successo ottenuto la scorsa stagione con Macbettu, con un adattamento originale del lavoro in quattro atti dell’ultimo Čechov, Il giardino dei ciliegi. Un vociare indistinto e caotico da inizio a quella che dal regista è stata vista come una partitura corale. Le voci si mischiano e dispiegano in un interminabile e lento valzer, in cui ognuno tiene il suo posto, danzando sulla scena seguendo precisi schemi geometrici. Il passato riemerge come da una nebbiosa palude come per brevi attimi, ma suoni, rumori, pianti, apparizioni impediscono al ricordo di palesarsi pienamente. La mente ha bisogno di distogliersi dal dolore di quello che non è più o che è in procinto di morire. Così tutto rimane come sfocato e opaco in un’apparente allegria. I contorni stessi delle immagini non sono mai definiti, resi ancora più evanescenti dai punti luce, spesso unici e deboli, che illuminano la scena. Ombre impalpabili si disegnano su uno spazio semi vuoto e sugli alti muri grigi che sovrastano la scena – le pareti della stanza dei bambini –, schiacciando inesorabilmente i personaggi sotto il peso di qualcosa di più grande di essi: le loro esistenze. Le pause nella recitazione scandiscono il ritmo dell’esecuzione. Sono momenti di vuoto dove è possibile mettersi in posa, come davanti a una macchina fotografica, per fissare inutilmente ciò che il tempo farà sparire per sempre. Come gli alberi di ciliegio, che ancora prima di essere abbattuti già non si vedono più. La posa dei personaggi è quella che si vede in un dagherrotipo d’epoca. La consapevolezza che l’unica copia di questa immagine è destinata a scomparire, fissa il pensiero in una pesante idea di morte e dimenticanza. Gli espedienti simbolici che stanno a significare questo lento e inesorabile sfaldamento si moltiplicano, confondendo talvolta la comprensione lineare del racconto, ma tutto si risolve comunque in una lettura unitaria e coerente. Il passato diventa un groviglio incomprensibile di cose accatastate, di mobili che si librano verso un altrove che non è definito, a mezz’aria tra quello che era e quello che non sarà mai. Tutto assume così la leggerezza insostanziale di un pensiero che muore con chi lo ha prodotto.
data di pubblicazione.28/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Feb 27, 2020
(Teatro Porta Portese – Roma, 24/25 febbraio 2020)
Patrocinato dall’Associazione Libera contro le mafie, la compagnia Archipelagos Teatro mette in scena uno spettacolo di denuncia, ricostruendo la vicenda che ha visto vittime della società finanziaria Aspide srl circa 130 imprenditori nel Nordest dell’Italia tra il 2009 e il 2011.
Terminato lo spettacolo, appena ci si alza dalla poltrona, si ha ancora addosso una strana tensione, una specie di dolore addominale e una domanda che interroga la coscienza: che parte potrei avere in tutto questo?
Partiamo dai fatti a cui si ispira il racconto drammaturgico di Tommaso Fermariello. Circa nove anni fa venivano condannati a processo alcuni esponenti di una società finanziaria, la Aspide srl che, con lo scopo di andare incontro con prestiti di denaro a imprenditori in difficoltà, in realtà estorceva denaro da questi, imponendo tassi di interesse insolvibili per le vittime. Più tardi si scoprirà che i membri della società, al cui vertice c’è un certo Mario Crisci, sono affiliati al clan dei Casalesi di Casal di Principe. Lo stile della banda è semplice: un avviso sui giornali attira il cliente con il quale successivamente si stipula l’accordo; si aspetta che questi diventi insolvente – passaggio obbligato per tutti vista la percentuale di interesse richiesta – e quindi si passa all’intimidazione. Pestaggi a sangue, minacce, pistole puntate alla testa. Per molti la soluzione per uscire da questa gabbia è il suicidio, Aspide è un cancro. Solamente tre imprenditori trovano il coraggio di rivolgersi allo Stato. Tra questi c’è Rocco Ruotolo, al quale la morsa distruttiva e omicida di Aspide sta togliendo tutto. Ma la collaborazione non è semplice e necessita di tempo: dopo tutto il codice penale la parola paura non la comprende, questo è il mantra.
Una giornalista (Gioia D’Angelo), che finora si è occupata di calcio, viene invitata a scrivere un pezzo su questo fatto di cronaca locale. Sarà lei a informarci dei fatti in modo dettagliato, anche attraverso la lettura di estratti degli atti del processo. Rosalina (Martina Testa) è la moglie del testimone di giustizia Rocco Ruotolo. Il racconto in prima persona della donna fa da contrappunto alla narrazione dei fatti della giornalista. In perfetta sinergia le due attrici ricostruiscono una storia complessa, giocando di rimpallo pur senza mai dialogare. È la sottile architettura di questa drammaturgia: raccontare con emozione e trasporto fatti crudi e difficili, senza omissioni o allusioni di artistica maniera, rimanendo teatrali ovvero rappresentando con estremo realismo quanto di assurdo e incredibile può accadere nel mondo che ci sta intorno denunciandolo a un pubblico attento e sensibile. Lo spettacolo, semplice nella scena – bastano un tavolo dove accatastare documenti, una lavagna dove appuntare i nomi degli imputati e una sedia per i testimoni – racconta con precisione e chiarezza questa triste e dolorosa storia. Un atto da premiare con attenzione e divulgare quanto possibile, merito di un fare teatro che non si ferma davanti alla paura, che fa da contrasto con la sola denuncia ai tratti malati di una società come la nostra.
data di pubblicazione:27/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Feb 24, 2020
(OFF/OFF Theatre – Roma, 21/23 febbraio 2020)
Tre anni di convivenza, due personaggi in una relazione tossica che gira intorno a sé stessa e un regalo a sancirne la malsana dipendenza. Una storia dal finale felice, almeno per uno dei due protagonisti.
Che sia una relazione tre due donne, un uomo e una donna o due uomini, l’assunto che sta alla base dei dinamismi pericolosi che intercorrono nella coppia portata in scena dal duo artistico De Carvalho/Ciccone, non cambia. È per questo che ogni sera si danno il cambio sulla scena i quattro giovani attori – due donne e due uomini – protagonisti di questo esperimento. La pièce però prevede solo due personaggi, per cui sarà impossibile vederli recitare tutti insieme in un unico spettacolo. Se da un lato questa rimane un’idea originale, dall’altro partecipare a una sola replica ci fa perdere il senso dello spettacolo intero. La teoria che si vuole assumere, infatti, prevede che la verità espressa, solida come una formula matematica, sia dimostrabile per tutte le coppie di amanti, aldilà del loro assortimento e del genere di appartenenza. I due amanti che vediamo sul palco non a caso sono chiamati Uno e Due, proprio a sottolineare questa universalità. L’equilibrio della relazione è dato fin da subito: Due è la parte debole della coppia, totalmente asservito a Uno, che comanda e determina ogni cosa all’interno di un appartamento claustrofobico dove vivono insieme. Uno è la classica persona affetta da un narcisismo patologico e tende a fagocitare tutto ciò che le sta intorno. Due è la vittima di Uno. È lei a regalare, o meglio a relegare Uno in una teca trasparente, simbolo di totale devozione e asservimento all’amante, che va così protetto e venerato. I due roteano intorno a questa situazione per tutta il tempo della loro relazione. Il centro gravitazionale intorno al quale roteano come due pianeti si sposta ora su un divano, ora sul letto, ma nulla sembra muoversi poi così tanto. Non c’è progressione o sviluppo psicologico per i personaggi, se non alla fine quando Due decide di riscattarsi dalla situazione fagocitante nella quale Uno l’aveva stretta. Ma sembra solo un passaggio per giustificare il genere a cui questo pezzo di teatro appartiene: la commedia.
Buona invece la prova delle due attrici, Giorgia Spinelli (Uno) e Maria Vittoria Casarotti Todeschini (Due), alle prese con un testo e una scrittura per nulla facili da portare avanti per 90 minuti, tanto è la durata dello spettacolo. In particolare la Casarotti Todeschini si è distinta per un particolare realismo che ha saputo dare al suo personaggio, sapientemente modellato nel suo lento eclissarsi rispetto alla tortura inferta a lei da Uno.
Siamo un po’ lontani dal successo ottenuto dalla coppia artistica la precedente stagione con La pacchia è finita, ma il teatro è a volte anche un rischio che bisogna fronteggiare con volontà e determinazione e, perché no, con un pizzico di fortuna.
data di pubblicazione:24/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Feb 14, 2020
(Sala Umberto – Roma, 11/16 febbraio 2020)
Meg Page e Alice Ford, le comari-amiche protagoniste della divertente commedia, ricevono dal Cavaliere Falstaff una lettera di corteggiamento che riporta con sfrontatezza lo stesso testo. È quindi obbligo fargliela pagare e burlarsi di lui pubblicamente. La pianificazione della vendetta diventa il diversivo per rallegrare un noioso pomeriggio a Windsor.
Geniale invenzione quella operata da Edoardo Erba per riportare in scena, cucita insieme alla versione operistica del Falstaff verdiano, la commedia scespiriana de Le allegre comari di Windsor. Più che un lavoro sartoriale di cucitura delle due opere, in realtà il lavoro appare come passato per le mani di forzute lavandaie. Come un cencio sporco, le due scritture sembrano essere state sciacquate in acqua, strofinate per bene sul piano di un lavatoio, strizzate sbattute e infine stese per essere ammirate. Il risultato è esilarante, nuovo e divertente. Il rimescolo si depura degli orpelli linguistici cinque e ottocenteschi – che tanto rallentano l’azione – e si arricchisce di originali sfumature e divertenti soluzioni. Una riscrittura tutta al femminile, per una compagnia indipendente (ci teniamo a sottolinearlo) di attrici fantasiose e complete: Mila Boeri, Annagaia Marchioro, Chiara Stoppa e Virginia Zini.
La scena sembra svolgersi su un tavolinetto addobbato per il tè delle cinque. Pizzi centrini e merletti disposti a gorgiera incorniciano lo spazio di recitazione. Tra chiacchiere e pettegolezzi, screzi e invenzioni, le donne si divertono a fantasticare, un po’ per noia meno per vendetta, sul modo di veder deriso il lussurioso, laido e mellifluo Sir John Falstaff, pretendente delle due amiche, che pur si beccano e punzecchiano, Madama Page e Madama Ford. L’immaginazione le porta a creare scenari, a progettare gli scherzi a danno del Cavaliere, servendosi delle capacità imitative e fisiche della serva Quickly qui chiamata a fare il verso di lui. Ma tutto resta un gioco, un passatempo: lo scherzo non va a segno perché Falstaff in realtà – per motivi che non vogliamo anticipare – non sarà in condizione di infastidire più le due donne. In fumo finiranno allora le lettere che furono la causa delle loro divertenti invenzioni. L’unica nota di verità che si potrà suonare sarà quella dell’amore dei due amanti Anne, figlia di Madama Page, e Fenton, suo silenzioso spasimante. In particolare Fenton, personaggio interpretato anche questo da una donna (Giulia Bertasi), darà all’azione quei momenti di godibile felicità con il suono della sua fisarmonica, l’unico strumento capace di ripetere, attraverso il soffio del mantice, il respiro di un’intera orchestra e le note delle arie di Verdi.
data di pubblicazione:14/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Feb 7, 2020
(Teatro Quirino – Roma, 4/16 febbraio 2020)
La commedia a carattere popolare di Liolà, il contadino che tra intrighi e pettegolezzi, arrivismo e gelosie, fa valere la sua bontà e la sua morale spensierata.
Il sole è una palla infuocata in un cielo blu terso che splende appena sopra la barriera di scogli oltre la quale si vede il mare. Il frinire assordante delle cicale, come le onde che battono sulla battigia si mischiano ai canti popolari trasportandoci nei colori e nei suoni in Sicilia. Il gruppo di case bianche – con l’uscio sempre aperto a dire fiducia e comunicazione tra le persone – si affaccia su uno spazio comune, una piazzola alla fine di ripide scalinate, bianche anche loro, centro gravitazionale della scena. È il luogo di aggregazione della piccola società contadina del borgo marinaro di Porto Empedocle, dove il regista ha scelto di ambientare la pièce trasportandola nei primi anni ’40. È qui che la commedia campestre, tra le prime scritte da Pirandello, prende vita. Luogo di solidarietà, pettegolezzi e condivisione del lavoro per una società tutta al femminile, strutturalmente organizzata in una complicata e rigida gerarchia, ma al cui vertice ci sono sempre e solo uomini.
Liolà è un contadino allegro e spensierato che ama tutte le donne ma non ne vuole sposare nessuna, un dongiovanni dai buoni sentimenti. Ha già tre figli, frutto di fuggevoli amori, che sua madre si dà la briga di crescere. Ne aspetta un altro da Tuzza, che vorrebbe per questo motivo chiedere in sposa, ma la proposta è rifiutata nonostante il peso della vergogna di una gravidanza illecita. Liolà si inserisce nella società in cui vive come una voce fuori dal coro. La sua filosofia del vivere senza morale ma con virtù – perché chi non ha virtù non sa regnare – è contagiosa e abbindolatrice. L’interpretazione di Giulio Corso, con le sue capacità vocali e mimiche da bravo cuntatore di storie, aggiungono al personaggio una notevole dose di simpatia e vitalità.
La roba appartiene invece tutta a Zio Simone, comico e goffo nella versione di Enrico Guarneri. È il ricco del villaggio ossessionato dal problema di non avere figli e quindi eredi a cui lasciare i suoi beni. La sua sterilità darà occasione a Zia Croce e a sua nipote Tuzza di ordire un intrigo per accaparrarsi una posizione economicamente più favorevole, nascondendo insieme il disonore della ragazza. Ma l’intervento di Liolà cambierà i piani. Metterà incinta anche Mita, la giovane sposa legittima di Zio Simone – umiliata e derisa da Tuzza in faccia a tutto il paese – dando così alla ragazza la possibilità di riscattarsi. Il figlio che nascerà da Tuzza si unirà al numero di quelli che Liolà già ha sulle spalle – “tre più uno fa quattro” dirà– a sottolineare la bontà della sua onestà di eroe positivo.
L’uso marcato del dialetto siciliano rende difficile la comprensione all’inizio, ma l’orecchio fa presto ad abituarsi. Allora ecco che emergono sfumature di senso che vanno ad arricchire la drammaturgia, aggiungendo al testo una sorta di leggerezza e realtà che altrimenti non sarebbe godibile. Anche il punto più tragico, il momento del capovolgimento del dramma operato da Liolà, diventa leggero. Merito anche di una recitazione che in più punti si avvale della soluzione comica di scimmiottare e gesticolare per mettere in ridicolo alcuni personaggi, sottolineandone l’esagerazione. Ma è la notevole partecipazione di Anna Malvica ad aumentare il valore di questo adattamento. La sua Zia Croce si distingue per verità e forza e perché porta sulla scena una conoscenza e una saggezza popolare che di questa storia ne sono l’anima.
data di pubblicazione:07/02/2020
Il nostro voto:
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