da Paolo Talone | Feb 1, 2020
(Teatro Vascello – Roma, 28 gennaio/2 febbraio 2020)
Nella locanda di Mirandolina accade spesso che si innamorino di lei gli avventori che vi sostano. È così per il Marchese di Forlipopoli che sfida il Conte di Albafiorita nel conquistare i favori della donna. Ma le mire della Locandiera sono tutte rivolte al Cavaliere di Ripafratta che, misogino e riottoso, la respinge.
Manifesto della commedia di carattere, che lascia le maschere e i canovacci della Commedia dell’Arte per uno studio più attento alla psicologia dei personaggi e al racconto di trame originali, La Locandiera di Carlo Goldoni, dopo 270 anni dalla prima rappresentazione, offre ancora spunti alla regia per nuovi adattamenti. Il lavoro di Andrea Chiodi e della Compagnia Proxima Res di Tindaro Granata, pur mantenendosi fedele all’originale se non per il taglio di alcune scene, non manca di innovazione e creatività. Un merito non scontato quando si tratta di rappresentare un classico come questo. Il sipario si apre su un grande tavolo attorno al quale si svolge l’azione: luogo del convivio, dell’incontro e della chiacchiera, ma anche del gioco e della macchinazione, quella che Mirandolina opera con pragmatico calcolo e sistematico successo. Si recita sopra e intorno al tavolo, ma cose accadono anche sotto di esso: occhi che guardano, orecchie che ascoltano. Gli stand disposti tutti intorno alla scena ci suggeriscono che siamo in una specie di laboratorio sartoriale, i manichini sono gli attori che pescano parrucche e staccano costumi dalle grucce per dare forma al loro personaggio. I colori sono tenui e neutri, come su un foglio di carta ruvida dove sono state accennate veloci pennellate di acquerello. È un gioco e un divertimento il teatro e così il regista fa interagire gli attori con delle bambole che ricordano nel numero e nei tratti i personaggi della commedia. Una bambina sembra appunto Mirandolina, anche se cresciuta in fretta per le responsabilità sulla locanda che il padre alla morte le ha lasciato. L’interpretazione di Mariangela Granelli restituisce un carattere capriccioso e prepotente, è la padrona assoluta dei giochi intenta ad accattivarsi l’amicizia di tutti, soprattutto del Cavaliere di Ripafratta (Fabio Marchisio). Nel gruppo è l’unico che respinge la locandiera, che pure si vanta di aver una lista lunga di conquiste, come quella più famosa di Don Giovanni di cui ne canticchia il mozartiano motivetto. A Caterina Carpio e a Caterina Filograno sono affidate le parti degli altri personaggi (il Conte di Albafiorita, i servi, Fabrizio e le due commedianti Ortensia e Dejanira), ma è Tindaro Granata a rendere protagonista un personaggio secondario, il Marchese di Forlipopoli. Ne risalta il lato divertente fino a esacerbarlo e a renderlo la caricatura di sè stesso, forse anche troppo evidente in una regia che nell’insieme da un giusto equilibrio a tutti e cinque gli attori in scena.
data di pubblicazione:01/02/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Gen 23, 2020
(Teatro Quirino – Roma, 21 gennaio/2 febbraio 2020)
Silvio abita solo nella casa di campagna. In occasione del suo compleanno e della ricorrenza dei dieci anni dalla morte della moglie vanno a trovarlo i tre figli Marialaura, Alice e Vincenzo che non lo vedono da tempo. Si unisce a loro anche Roberto, fratello di Silvio. La solitudine alla quale si è da tempo abituato viene interrotta e sconquassata da questa visita.
Per descrivere quella che a tutti gli effetti è una commedia, dai risvolti divertenti nei tempi nelle battute e nei personaggi, bisognerebbe usare parole che ne rispecchino la delicatezza dei colori tenui e delle trasparenze di cui la scena si colora. Dove abita Silvio c’è ben poco di una casa di campagna dove l’azione è ambientata. Le pareti di garza lasciano intravedere chi si aggira per le stanze o nel giardino: tutti ascoltano, tutti intervengono nelle discussioni. Come recita il sottotitolo – Solitudine da paese spopolato – la cittadina dove Silvio ha deciso di trascorrere la sua vecchiaia è abitata da poche persone, isolata: un chiaro indizio che ci troviamo in uno stato mentale, più che in posto reale. Ma l’azione è dinamica e coinvolgente e i toni tenui passano in secondo piano, sono un sottofondo quasi musicale. Il forte realismo della vicenda inizia dai nomi dei personaggi, che sono quelli degli attori che li interpretano. È una scelta già applicata nella drammaturgia di Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo, che cuce addosso agli attori la parte, raggiungendo un risultato di forte verità e descrizione. Il gesto creativo si lega così all’attore e all’interprete, si nutre della sua presenza. La vita ribolle come un vulcano sulla scena, la si percepisce viva nella parola drammaturgica. Eppure, ciò che è in scena appartiene di diritto alla sfera del pensiero: le scene si collegano tra loro a volte per una semplice parola, per digressione su un ragionamento, senza un ordine apparente. Sembra di cogliere nelle battute quel momento in cui ciò che si muove nella testa sta per essere detto, quell’indecisione del se è lecito o utile dire o trattenere dentro. La squadra di attori è ben coesa e adatta, dove Silvio Orlando spicca tra tutti per intelligenza scenica e carattere. Sarebbe davvero difficile vedere un altro attore in questo personaggio. Perfetta incarnazione di quella solitudine sociale – così è chiamata la malattia da cui è affetto – che isola chi ne è colpito, per abbandono degli altri o scelta propria, patologia del presente che può colpire chiunque in ogni momento.
data di pubblicazione:23/01/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Gen 20, 2020
(Teatro Brancaccio – Roma, 15/19 gennaio 2020)
Giorgio Gallione racconta il gioco del calcio e le implicazioni che può avere con il mondo della politica. La dittatura di Jorge Rafael Videla in Argentina e la finale dei mondiali di calcio del 1978 a Buenos Aires. Il coinvolgente ritmo del tango a fare da colonna sonora al massacro dei desaparecidos. Calcio come magia e favola, ma anche strumento per guadagnare il favore del popolo.
Non sembra far riferimento in maniera esplicita a nessuno dei fatti che animano la scena politica attuale, sia nazionale che internazionale, eppure Tango del calcio di rigore evoca nelle immagini scenari possibili non così distanti, nella sostanza, dagli effetti che l’agitazione populista potrebbe risvegliare nella nostra epoca. Ma vaticinare o fare confronti con il nostro oggi non è lo scopo di questo spettacolo. Il testo è un reportage piuttosto dettagliato, a tratti mitizzato, di una fase storica abbastanza recente e difficile che vede protagonista la dittatura militare che investì l’America Latina, in particolare l’Argentina, negli anni Settanta del secolo scorso e la relazione di questa con il gioco del calcio, occasione di svago per il popolo ma anche campo di battaglia e affermazione di potere. È necessario allora che il linguaggio usato dall’autore debba mantenersi a metà tra quello giornalistico e la telecronaca calcistica, scelta che però rimane poco teatrale a nostro avviso. Al personaggio di Neri Marcorè è affidata la parte narrativa: l’uomo adulto che vediamo era poco più che un bambino quando l’Argentina vinse il titolo mondiale. La voce baritonale che racconta i fatti e il tono malinconico, che usa anche nel canto, ci danno la misura del dramma. Invece, Ugo Dighero fa le parti di commedia. È il leggendario Cassidy, l’arbitro chiamato ad arbitrare una grottesca partita tra tedeschi nazisti e indiani mapuches con una pistola in mano per gestire gli umori del campo; è il gaucho messicano che canta tra cactus animati; è ancora il portiere Gato Diaz nella storia del rigore più lungo del mondo, nella disputa tra l’imbattuto Deportivo Belgrano e l’Estrella Polar al club di Cipolletti. E così via a ricoprire ruoli che danno movimento a uno spettacolo altrimenti rallentato nel linguaggio d’inchiesta. Brava anche Rosanna Naddeo, qui a ricoprire i ruoli femminili: commovente e tragica la sua interpretazione del brano Gracias a la vida, in ricordo delle madri di Plaza de Mayo a cui il regime dittatoriale ha rapito, torturato e ucciso i propri figli. Tre grandi interpreti, aiutati sul palco dai giovani attori Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, che affrontano uno spettacolo per nulla facile, ricco di racconti e di eventi che ogni tanto è bene ricordare. Un grande affresco che regala tante e contrastanti emozioni a chi vi assiste.
data di pubblicazione:20/01/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Gen 14, 2020
(Teatro Vascello – Roma, 10/19 gennaio 2020)
La tragicommedia più famosa del bardo inglese, che riassume in sé le tematiche più care a Shakespeare – dal tradimento ai danni di un governante all’amore tra due giovani, fino all’uso della magia e alla battaglia tra la natura selvaggia e la forza della cultura – vista secondo un’ottica intima e riflessiva, nell’originale ambientazione “al chiuso” di Roberto Andò.
L’isola di Prospero è un panorama dalla luce crepuscolare che si nota appena da dietro una finestra. Il resto è un interno borghese di una casa che si affaccia sul mare, a metà fra un ospedale per ricovero psichiatrico, con tanto di letti e pazzi, e uno studio riempito di libri di svariato genere e grandezza. Di libri ce ne sono in ogni angolo, quelli che il nobile e anziano Gonzalo (Gianni Salvo) consegnò al suo signore il giorno che fu costretto a lasciare il ducato di Milano con la figlia Miranda (Giulia Andò), ancora bambina, esiliato dopo che il fratello, per perfido disegno, ne usurpò il potere. Ma è l’acqua l’elemento dominante nella messa in scena di Andò/Fusini. Il pavimento della stanza, che arriva a brandire la prima fila della platea, ne è interamente sommerso. C’è acqua dappertutto: piove dall’alto appena si alza il sipario, è a terra a formare una pozza gigante, bagna i costumi degli attori, si riflette sui muri che circondano la scena in un riverbero di luce che rende l’atmosfera fluida e inconsistente, come quella della materia di cui sono costruiti i sogni appunto. È lì a delimitare lo spazio che corre tra la terra ferma e l’isola, come a dire la distanza che esiste tra realtà e immaginazione. Acqua di tempesta inarrestabile, che si prolunga nel bagliore e nel suono dei tuoni. Prospero, nella magistrale e intima interpretazione di Renato Carpentieri, è il padrone incontrastato di questo regno, che egli stesso domina con la potente arte della magia e della scienza. Per questo mal sopporta l’insurrezione meschina del difforme schiavo Calibano (Vincenzo Pirrotta) che, complici i due naufraghi marinai Stefano e Trinculo (rispettivamente Francesco Villano e Paride Benassi), tenta di accoppare il mago per riprendere il dominio sull’isola. Compagnia di guitti ubriaconi a cui è dato il compito di portare la risata, attraverso l’uso del dialetto dall’effetto grottesco. Ma nell’isola insieme alla tempesta, ordita da Prospero e orchestrata dallo spiritello Ariel – qui nei panni di un maggiordomo in livrea, interpretato da uno straordinario Filippo Luna – approdano anche Antonio, il perfido usurpatore, Gonzalo, il nobile servitore di cui prima, e Alonso, re di Napoli, insieme a suo figlio Ferdinando (Paolo Briguglia), della cui persona si innamorerà a prima vista Miranda. La vicenda va avanti tra fantasmi che appaiono e visioni che prendono forma nello spazio buio del fondale, palcoscenico sul palcoscenico, arsenale delle apparizioni di pirandelliana memoria. È così che tra piccole vendette e perdono concesso si arriva finalmente alla soluzione del dramma: Prospero può smettere quindi i panni del mago e rivestire quelli del duca, accendersi una sigaretta e contemplare alla penombra di un lume, con appagata soddisfazione, il bene ricostituito delle cose un tempo perdute.
data di pubblicazione:14/01/2020
Il nostro voto:
da Paolo Talone | Gen 10, 2020
(Teatro Quirino – Roma, 7/19 gennaio 2020)
Due straordinarie attrici, Giulia Lazzarini e Anna Maria Guarnieri, che per talento – anche comico – e decennale esperienza sulle scene sono le protagoniste assolute della brillante commedia di Kesserling, resa celebre da Frank Capra.
Nel cocktail a base di rosolio – fatto rigorosamente in casa da mani amorevoli – Abby e Marta, le due anziane sorelle di casa Brewster, aggiungono piccole dosi di cianuro, stricnina e ovviamente arsenico. La bevanda micidiale viene servita agli ospiti a cui affittano le camere di casa loro, generalmente signori senza famiglia, che vengono così aiutati a morire con un sorriso sulle labbra. Un gesto di immensa cortesia e generosità secondo la pazza visione delle due donne. Lo confessano senza alcun problema al loro caro nipote Mortimer, appena giunto per comunicare alle zie la bella notizia dell’imminente matrimonio con Giulia, figlia del Reverendo Stone. In barba alla moda dei nostri giorni che condanna anche la più banale intenzione di fare spoiler, sappiamo fin da subito che a uccidere il povero Clinton Brown – il cui cadavere giace nella cassapanca in attesa di sepoltura – sono state proprio le candide, innocenti e dolcissime sorelle Abby e Marta Brewster. La vicenda si spoglia così della tinta del giallo, che svela solo all’ultima pagina il nome dell’assassino, per vestire i panni di un’esilarante commedia. Rimane però il contorto intrico dei fatti, tipico del genere, che crea una serie di divertenti equivoci di cui unico testimone è il pubblico. Gli oggetti di scena servono al racconto e sono parte fondamentale del gioco drammatico di questo tipo di commedia: la scarpa del morto, la borsa degli attrezzi del dottor Einstein, la tromba e i soldatini di Teddy, la bottiglia di rosolio. Personaggi tra i personaggi, potremmo dire, in una scena – l’interno di casa Brewster con affaccio romantico sul cimitero – ricostruita in stile neogotico, in perfetta armonia con le atmosfere del testo. Una specie di casa degli orrori dove mistero e tensione sono parte integrante del divertimento. La macchina è complessa e difficile da seguire (due ore e quindici minuti di spettacolo senza intervallo), ma la precisione della regia e l’eccezionale bravura di Giulia Lazzarini (Abby) e Anna Maria Guarnieri (Marta) mantengono viva l’attenzione sui fatti, che si sbrogliano con gradevole fluidità, come se fossimo davanti alla proiezione di un film. Merito certamente anche della professionalità degli altri attori della compagnia, tra cui spicca per particolare espressività e carattere Paolo Romano nel ruolo di Mortimer.
data di pubblicazione:10/01/2020
Il nostro voto:
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