da Antonella Massaro | Gen 3, 2023
Un miliardario egocentrico e megalomane, un gruppo di “amici-nemici”, un’assolata isola greca: il teatro perfetto per una “cena con delitto” che, da gioco di ruolo, diviene autentica scena del crimine, con l’immancabile e infallibile detective pronto a dipanare la trama del giallo.
Dopo Cena con delitto, Rian Johnson torna a dirigere le indagini del detective Benoit Blanc, interpretato da Daniel Craig, con un film che, fin da subito, appare non tanto come un sequel del precedente quanto piuttosto come una sua (tentata) evoluzione.
Maggio 2020. La pandemia da Covid-19 ha già catapultato il mondo nell’universo parallelo del lavoro a distanza, delle mascherine e degli abbracci pericolosi. Il miliardario Miles Bron (un magistrale Edward Norton) invita su un’isola greca il suo gruppo di amici storici: “i disgregatori”, una compagnia assortita di uomini e donne disposti a mettersi in gioco pur di sfidare le convenzioni. La ragione dell’invito è all’apparenza banale e innocua. Miles ha organizzato una “cena con delitto”, una messa in scena del suo omicidio, un gigantesco Cluedo da risolvere secondo le regole tradizionali del gioco di ruolo. Un omicidio, però, si consuma davvero nel teatro luccicante e megalomane del Glass Onion, la sontuosa residenza volta da Miles che prende il nome dalla celebre canzone dei Beatles. Spetterà a Benoit Blanc, il glaciale e implacabile detective annoiato dalla pandemia, risolvere l’enigma, a fronte di una platea di potenziali assassini che sono tutti forniti di “movente” e “opportunità”.
Il registro, almeno in superficie, sembra quello canonico del genere giallo à la Agatha Christie. Unità di tempo, spazio e luogo, un gruppo ristretto di persone tutte sospettate e sospettabili, l’acume dell’investigatore che riesce a rendere ovvie le cose complicate. Scavando più in profondità, tuttavia, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a una parodia, tanto del giallo quanto, più in generale, dello spaccato socio-culturale portato sullo schermo da Glass Onion. Miles, da regista di sontuose messe in scene, rivela ben presto la sua pochezza, circondato da caricature grottesche di figuranti egocentrici: i disgregatori, in realtà, sono biechi conformisti, attaccati più alle “tette d’oro” di Miles che a un ideale da realizzare. Anche il registro del racconto è dichiaratamente “pop”, senza alcuna solennità legata alla complessità di un’indagine, che, in fondo, così complessa non è. Lo spettatore intuisce subito di trovarsi immerso in una cipolla di vetro: tanti strati sovrapposti, ma trasparenti, in cui tutto è in bella vista per chi decida di “vederci chiaro”.
Il cast, oltre a Daniel Craig e Edward Norton, può contare su Dave Bautista, Janelle Monáe, Jessica Henwick, Kate Hudson, Kathryn Hahn, Leslie Odom Jr. e Madelyn Cline, tutti adeguati al ruolo.
Il film è nel complesso gradevole, anche se forse l’intento di desacralizzazione è portato troppo oltre e finisce per diventare inutilmente strabordante.
data di pubblicazione: 3/12/2023
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da Antonella Massaro | Giu 14, 2021
La serie “Veleno”, targata Amazon Prime, racconta in cinque episodi una vicenda giudiziaria discussa e controversa, passata agli annali come la storia dei “diavoli della bassa modenese”.
Tra il 1997 e 1998 il fazzoletto di terra delimitato dai comuni di Mirandola, Finale Emilia e Massa Finalese si macchia di orrore. Alcuni genitori sono accusati di abusi sessuali nei confronti dei figli minori: le indagini, proseguendo sul filo di un incontrollabile effetto domino, conducono a episodi di pedofilia e satanismo, che dal buio delle case e dei casolari giunge fino al teatro lugubre dei cimiteri.
I bambini parlano, raccontano, si liberano di un peso opprimente.
Gli assistenti sociali ascoltano, domandano, seguono le fila di un racconto che diviene sempre più sconvolgente.
I genitori negano, si disperano, cercano di sfuggire alla morsa di processi in cui la condanna sembra scritta fin dalle battute iniziali.
Una madre accusata si lascia cadere dal balcone. Don Giorgio Govoni, il parroco “alternativo” di San Biagio, indicato da alcuni bambini come il sacerdote delle messe nere durante le quali gli stessi venivano abusati sessualmente e uccisi, muore di infarto. Tutti i genitori coinvolti sono allontanati dai propri figli. Le piccole vittime cercano, a fatica, di tornare a galla dopo l’abisso di tenebre e sofferenza nel quale sono sprofondate.
Proprio quando queste storie sembravano sommerse dalla polvere e dal buio di un passato dimenticato, il giornalista Pablo Trincia si imbatte in una trama che gli sembra contradditoria e lacunosa. Studia il caso, incontra alcuni dei suoi protagonisti e nel 2017 pubblica il poadcast “Veleno”, da cui sarà tratto nel 2019 l’omonimo libro e che rappresenta anche la base su cui è costruita la serie Amazon. Sempre nel 2019, poi, i giornali iniziano a parlare del “caso Bibbiano” e degli affidi irregolari che, di nuovo, tornano a scuotere la tranquillità della provincia di Reggio Emilia.
Il merito di “Veleno” è quello di restituire la complessità di una storia che non si presta né ad essere banalizzata né a trovarsi costretta nelle pastoie binarie del “vero-falso” o del “giusto-sbagliato”. Lo spettatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’atmosfera pirandelliana, degna de “La signora Frola e il signor Ponza, suo genero”: ognuno con la sua verità e le sue ragioni, tante versioni tutte a loro modo convincenti. Cambiando prospettiva, cambia anche la “verità”.
La psicologa Valeria Donati si trova messa impietosamente sotto accusa, ma “Veleno” le dà la possibilità di replicare. Alcuni dei bambini, a partire da Davide, il “paziente zero” che con le sue dichiarazioni ha avviato il contagio dei diavoli della bassa modenese, avanza dei dubbi sulla genuinità delle proprie dichiarazioni, ma altre bambine, ormai donne, confermano gli abusi e rivendicano con forza il proprio ruolo di vittime (non di carnefici).
Allo spettatore, allora, non resta che dubitare. Dubitare di una macchina giudiziaria che è in grado di stritolare chi si trovi nel mezzo dei suoi implacabili ingranaggi, ma dubitare anche di letture che, è il caso di dirlo, potrebbero correre il rischio di “gettare via il bambino con tutta l’acqua sporca”.
data di pubblicazione: 14/06/2021
da Antonella Massaro | Mag 21, 2020
Tampa, Florida, 2018. Un centro di accoglienza e riabilitazione di giovani soldati di ritorno dalla guerra. Una terapista entusiasta del suo lavoro e un capo ossessivo e ossessionato. Una calma e una perfezione pronti a rompersi e ad esplodere al primo segnale di cedimento.
L’Homecoming Transitional Support Centre è una struttura che a Tampa, in Florida, accoglie veterani di guerra, allo scopo di riabilitarli fisicamente e psicologicamente, preparandoli così a un rientro indolore nella normalità della vita civile.
Il percorso terapeutico è diretto e monitorato da Heidi Bergman (Julia Roberts), i cui slanci entusiastici nella “missione” della quale si sente investita sono spesso frenati da Colin Belfast (Bobby Cannavale), un capo oppressivo, che comunica solo telefonicamente e che pare orientato da scopi non propriamente altruistici.
L’edificio che ospita il centro è all’apparenza impeccabile: le geometrie simmetriche degli ambienti (e delle inquadrature) e gli arredi “moderni, ma virili” restituiscono l’impressione di una perfezione esteriore che, come tutti gli ordini troppo esibiti, nasconde meccanismi non del tutto trasparenti. Proprio come avviene nell’acquario di pesci rossi che compare nella prima inquadratura del primo episodio: niente è come sembra o, forse, tutto è come vogliono farci sembrare.
Un reduce in particolare, Walter Cruz (Stephan James), emerge dal resto del gruppo: sembra reagire bene al trattamento e, soprattutto, instaura un rapporto di complice fiducia con Heidi Bergman. Proprio il percorso intrapreso insieme da Walter e Heidi porterà alla rottura di uno degli ingranaggi su cui si regge il meccanismo di Homecoming, innescando una catena di progressivi disvelamenti che, anche grazie all’apporto decisivo di Thomas Carrasco (Shea Whigham), “antieroe” impiegato del Dipartimento della Difesa, accompagnano lo spettatore lungo il crescendo adrenalinico che scandisce le tappe della storia.
Le cadenze di Homecoming sono quelle del thriller psicologico fondato su una trama forse non proprio originale, ma sorretto da una messa in scena certamente di prim’ordine. La regia è di Sam Esmail (Mr. Robot), la sceneggiatura è firmata da Eli Horowitz e Micah Bloomberg (autori dell’omonimo podcast da cui è tratta la serie), mentre al centro del palcoscenico campeggia Julia Roberts, che assume anche il ruolo di produttrice esecutiva. Si trattava del debutto di Julia Roberts sul piccolo schermo e la scommessa può certamente considerarsi vinta: in molte scene torna a brillare quella luce che, ormai da qualche tempo, risulta leggermente appannata nei suoi lavori cinematografici.
La durata degli episodi è contenuta, attestandosi su una media di 30 minuti. Ogni episodio dei dieci che compongono la prima serie è armonicamente e solidamente legato agli altri, con un tempo della narrazione che, alternando il passato e il presente, contribuisce a consolidare il pathos del racconto.
A partire dal 22 maggio 2020 sarà distribuita su Amazon prime Video la seconda serie che, speriamo, sia all’altezza della prima.
data di pubblicazione: 20/05/2020
da Antonella Massaro | Mag 9, 2020
In questi primi del 2020, segnati da una pandemia che ha costretto all’inerte immobilismo persino l’industria cinematografica, anche David di Donatello si sono visti costretti a cambiare veste.
Originariamente programmata per il 3 aprile, la cerimonia di premiazione della 65ª edizione dei David si è svolta ieri sera.
The show must go on, ma senza pubblico e con pochissimi applausi.
Carlo Conti da solo sul palco, raggiunto a fine serata da Piera Detassis, annuncia i premi con solenne sobrietà, cercando (e trovando) nella sua conduzione un equilibrio certamente adeguato alla particolarità di uno spettacolo forzosamente dimidiato.
Collegati dalle loro case, ci sono alcuni dei candidati: solo quelli, ovviamente, i cui nomi e i cui volti sono più riconoscibili al grande pubblico, anche se ciascuno di loro si preoccupa di ricordare il lavoro di chi “c’è, ma non si vede” e che, in questo momento, sente stretta attorno al collo la morsa di una crisi economica che sta iniziando a mostrare i suoi denti più affilati.
Colpisce e stupisce, anzitutto, la difficoltà ad apparire in video, dalla normalità delle proprie case, da parte di quelli che pure sono professionisti dell’immagine: non tutti hanno una connessione e/o una telecamera adeguata, qualcuno fatica (incredibile a dirsi!) a trovare un’inquadratura e uno sfondo decenti, proprio come, almeno una volta, sarà capitato a molti di noi in questi mesi di “lavoro da casa”.
L’irruzione di fronte alla web cam delle famiglie dei premiati (Anna Ferzetti per festeggiare Pierfrancesco Favino, i parenti di Marco Bellocchio, i figli di Luigi Lo Cascio e di Jasmine Trinca) restituisce almeno un briciolo di quell’emozione, sia pur in versione casalinga, che si addice alle grandi occasioni.
Il trionfatore di questa edizione dei David di Donatello è certamente Il Traditore di Marco Bellocchio, con quella storia di Tommaso Buscetta che, evidentemente, non ha ancora finito di raccontare gli snodi di una vicenda che ha segnato per sempre la storia dell’antimafia.
Il Traditore è il miglior film, Marco Bellocchio è incoronato miglior regista e Pierfrancesco Favino, alla sua prima nomination per questa categoria, si aggiudica la palma di miglior attore protagonista e Luigi Lo Cascio porta a casa la statuetta per come miglior attore non protagonista. Il Traditore vince anche il premio per la miglior sceneggiatura originale e quello di Francesca Calvelli è il miglior montaggio. Insomma, un successo trasversale ed evidente per il film di Bellocchio, che esulta “rivendicando” i suoi 80 anni e l’imperituro desiderio di continuare a girare film in cui crede.
La miglior attrice protagonista è un’emozionatissima Jasmine Trinca per La Dea Fortuna, mentre il premio per la miglior attrice non protagonista se lo aggiudica una onnipresente Valeria Golino per 5 è il numero perfetto.
Il primo re, nominato in molte categoria, conquista i premi per la miglior produzione e per la miglior fotografia (quella di Daniele Ciprì).
Pinocchio si porta a casa i principali premi legati all’ “immagine del film” (scenografia, costumi, truccatore, acconciatore).
Il miglior film straniero è Parasite, mentre il miglior regista esordiente è Phaim Bhuiyan per Bangla.
Tra i momenti più significativi della serata, c’è sicuramente il riconoscimento alla carriera per Franca Valeri, che compie anche i suoi primi 100 anni.
Qui di seguito si riporta l’elenco completo dei vincitori, con la speranza che la stagione cinematografica, in un modo o nell’altro, riesca a ripartire e a riaccendere gli schermi (non solo quelli dei computer o delle televisioni).
Miglior Film: Il Traditore
Miglior Regista: Marco Bellocchio
Miglior Regista Esordiente – Premio Gian Luigi Rondi: Phaim Bhuiyan
Migliore Sceneggiatura Originale: Il Traditore
Miglior Sceneggiatura Non Originale: Martin Eden
Migliore Produttore: Il primo Re
Miglior Attore Protagonista: Pierfrancesco Favino
Migliore Attrice Protagonista: Jasmine Trinca
Migliore Attrice Non Protagonista: Valeria Golino
Miglior Attore Non Protagonista: Luigi Lo Cascio
Miglior Fotografia: Daniele Ciprì
Migliore Musicista: Il Flauto Magico di Piazza Vittorio
Miglior Canzone Originale: La dea fortuna
Migliore Scenografo: Dimitri Capuani
Migliori Costumi: Massimo Cantini Parrini
Miglior Truccatore: Dalia Colli e Mark Coulier
Miglior Acconciatore: Francesco Pegoretti
Migliore Montatore: Francesca Calvelli
Miglior Suono: Il primo re
Migliori Effetti Visivi: Theo Demeris e Rodolfo Migliari
Miglior Documentario: Selfie
Miglior Film Straniero: Parasite
Miglior Cortometraggio: Inverno
David Giovani: Mio fratello insegue i dinosauri
data di pubblicazione: 9/5/2020
da Antonella Massaro | Mag 9, 2020
L’emergenza Coronavirus, si è detto e scritto in questi mesi, ha plasmato la realtà secondo un copione che credevamo possibile mettere in scena solo nell’universo immaginifico del grande schermo.
Proprio del cinema, caledoiscopico produttore di storie, si inizia a sentire l’insopportabile mancanza, in un mondo regolato dal distanziamento sociale e in cui il respiro di ciascuno di noi, lungi dall’incarnare il proverbiale alito di vita, diviene potenziale veicolo di morte.
Si tratta, pare opportuno precisarlo, di una questione che riguarda chi il cinema lo guarda, ma anche e soprattutto chi il cinema lo fa. Ogni emozione di cui lo spettatore viene privato equivale a un danno economico per artisti, maestranze, produttori e distributori che risulta ancora difficile quantificare, soprattutto nel medio e lungo periodo.
Ieri sera, durante la cerimonia per l’attribuzione dei David di Donatello consegnati virtualmente e silenziosamente (quasi sommessamente), il ministro Dario Franceschini non è andato molto al di là di quel “stiamo facendo tutto il possibile” che ormai suona come un impotente palliativo di chi fatica a intravedere e a (ri)costruire il futuro.
Cerchiamo, allora, di fare un po’ di chiarezza.
Dal 18 maggio riprenderanno le proiezioni telematiche. Riapriranno, insomma, solo le porte virtuali, riservate, vale la pena precisarlo, a chi disponga di una connessione internet quanto meno decente.
Il progetto, capitanato da LuckyRed, si avvale del supporto digitale di MyMovies e consiste, essenzialmente, nell’apertura di un canale streaming dove saranno disponibili in anteprima alcuni dei film la cui uscita in sala era prevista in questo periodo.
Si paga un biglietto e, all’orario stabilito, inizia la “proiezione”. Tra i primi film disponibili ci sono I Miserabili, Il matrimonio, Il meglio deve ancora venire e Matthias &Maxime.
Solo le produzioni più “strutturate” potranno ambire a una proiezione anche in sala, mentre per gli altri il passaggio in streaming sarà la sola realistica prospettiva.
Il progetto è indubbiamente interessante, specie per evitare che l’emergenza di questo periodo si traduca in un definitivo consolidamento dello strapotere di Netflix&Co, dal quale certamente derivano effetti virtuosi, ma che corre il rischio di staccare la spina alla magia della proiezione in sala, già da tempo in evidente sofferenza.
La speranza, allora, diviene quella di veder scendere in campo anche il Governo, con progetti concreti e non solo evanescenti rassicurazioni, capaci di tornare a somministrare agli spettatori quella medicina del sogno che ai professionisti del cinema garantisce la prospettiva di una vita dignitosa.
data di pubblicazione: 9/05/2020
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