da Antonella Massaro | Gen 24, 2016
La “ vera storia” di Steve Jobs, rivoluzionario dell’informatica e del marketing, sembrerebbe un invito a nozze per ogni sceneggiatore. Steve Jobs e la Apple, con il futuristico disegno di rendere democratico il computer dotandolo di mouse e di icone, ma mantenendolo elitario attraverso la tecnologia end to end. Steve Jobs dell’ormai leggendario Stay hungry, stay foolish. Steve Jobs che arriva persino al sogno del cinema attraverso la Pixar.
Si correva forse il rischio di dire troppo o di dimenticare qualcosa scegliendo di raccontare tutta la “vera storia” dell’eroe della Apple. Aaron Sorkin (The social network) e la sua sceneggiatura si assumono allora la responsabilità di una scelta definita e, in qualche modo, radicale. Steve Jobs, diretto dalla sapiente macchina da presa di Danny Boyle, assume le sembianze di un’opera in tre atti. Tre presentazioni di altrettanti prodotti, che hanno segnato, nel male e nel bene, la parabola professionale e umana del genio ribelle Jobs, portato sul grande schermo dal talentuoso Michael Fassbender (nelle sale anche con Macbeth).
Nel 1984 viene svelato agli addetti ai lavori il Macintosh 128K: una passo in avanti forse troppo precoce per lo stato di avanzamento della tecnologia dei primi anni Ottanta, che si rivela un insuccesso commerciale e che condurrà alla rottura dei rapporti tra Jobs, la Apple e il suo amministratore delegato John Sculley (Jeff Daniels). Il 1988 è l’anno in cui Jobs si presenta da solo sul palcoscenico con NeXT Computer, il “cubo imperfetto”: è una fase di voluta transizione, che prepara il ritorno del figliol prodigo nella casa della “mela con il morso”. Nel 1998 è la volta dell’iMac: è chiaro a tutti che il momento della svolta è arrivato e che da quella svolta sarà molto difficile tornare indietro.
Lo spettatore assiste alle convulse prove dei tre discorsi di presentazione, in cui le strategie di mercato e le aspettative del visionario Jobs sono sempre legate a filo doppio alle sue controverse vicende personali: l’adozione che ha segnato la sua infanzia, il complicato rapporto con la figlia Lisa, l’incapacità di instaurare con gli amici/collaboratori un rapporto fatto di fiducia e rispetto e la riluttanza ad andare oltre il mito del genio solitario e incompreso. Perché forse un genio è strutturalmente incomprensibile. Ma si può essere geniali anche senza essere scorretti, come fa notare Steve Wozniak (Seth Rogen), compagno di avventura di Jobs fin da quel garage della Silicon Valley in cui tutto ha avuto inizio.
La sceneggiatura, caratterizzata da dialoghi intensi, incisivi e mai fuori tempo e fuori luogo, rappresenta indubbiamente il tratto più caratteristico del film. Pienamente convincenti anche le interpretazioni del protagonista Michael Fassbender e di Kate Winslet, nel ruolo di Joanna Hoffman, capo marketing che si carica anche del difficile ruolo di paziente e fedele “moglie da ufficio”.
La scelta di enfatizzare il ruolo dello Jobs padre, compagno e amico era indubbiamente rischiosa e forse non risulta del tutto convincente rispetto alla vicenda di un uomo che ha immaginato, coltivato e realizzato un sogno tecnologico e una sfida commerciale senza precedenti. Anche un uomo straordinario resta in fondo un uomo comune, ma il mondo è pieno di uomini straordinariamente comuni che il cinema può e deve raccontare. Un film che si intitola Steve Jobs crea delle aspettative indubbiamente elevate, proprio come quelle che l’uomo evocato dal titolo era in grado di plasmare. Aspettative che i 122 minuti di fuoco di dialoghi pressoché ininterrotti e la marcata vena “intimista” non sempre sembrano in grado di soddisfare, restituendo un ritratto già chiaramente tratteggiato dalle pagine di Wikipedia.
data di pubblicazione 24/01/2016
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da Antonella Massaro | Gen 23, 2016
Saul Ausländer (interpretato dal superbo Géza Röhrig). Il nome di un condottiero biblico e il cognome che in tedesco significa “straniero”.
Saul, ebreo ungherese deportato in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale, è affidato al Sonderkommando, il gruppo composto dai prigionieri più forti e resistenti, periodicamente “rinnovati”, impiegati dai tedeschi come “manovali della soluzione finale”. Spetta (anche) a loro, infatti, il compito di assicurare l’efficiente funzionamento dell’implacabile catena di montaggio che parte dalle camere a gas, passa per i forni crematori e arriva alla dispersione dei cadaveri polverizzati. Prigionieri che si trasformano in Geheimnisträger, custodi di segreti, ingranaggi di un meccanismo oliato da quel sangue che devono con cura lavare via dal pavimento.
Proprio durante le operazioni di pulizia di una camera della morte, l’attenzione di Saul viene irresistibilmente attratta da un ragazzo: non si tratta di uno dei tanti stücke (pezzi) senza vita e senza forma, ma di quel figlio evocato (invocato?) dal titolo del film. Lo scopo di Saul diviene allora trovare all’interno del campo un rabbino che possa prestargli assistenza per recitare il kaddish e offrire al giovane corpo uno degna sepoltura.
Il figlio di Saul è il racconto di un viaggio attraverso l’Inferno. È il racconto dell’instancabile ricerca di uno scopo. È il racconto della sana follia in grado di traghettare al di là del bene e del male. È il racconto del coraggio, non importa quanto consapevole, di preservare un barlume di umanità anche nella notte in cui tutto sembra diventare disumano e anche quando la maggioranza non riesce a percepire la consistenza di una priorità necessariamente assoluta: proprio come un condottiero straniero, che può sembrare blasfemo agli occhi di chi non ha gli strumenti per comprendere il suo linguaggio.
Se, per restare ai film attualmente in sala, Il labirinto del silenzio racconta l’Olocausto ponendosi dalla “distante” prospettiva della ricostruzione processuale che interviene nel momento della quiete, Il figlio di Saul sprofonda nel ventre del lager e si fa largo tra le viscere dell’orrore proprio quando la tempesta raggiunge l’apice della sua forza distruttiva. L’esordiente László Nemes, tuttavia, non indulge ad alcuna enfasi eccessiva e non sfiora neppure da lontano il rischio di inciampare nella retorica ammiccante. I dialoghi lasciano il posto tanto alla Babele di urla e rumori che da fuori campo invadono la scena quanto alla regia, sempre chiaramente visibile ma mai stucchevolmente esibita. Gli stücke ammassati e vilipesi restano spesso fuori dalla messa a fuoco, mentre la macchina da presa segue con meticolosa precisione il volto di Saul, la sua nuca, le sua mani, i suoi sguardi, incorniciati (ingabbiati?) dal formato 4.3 e impreziositi dalla pellicola 35mm.
Già vincitore del Grand Prix speciale della Giuria al Festival di Cannes e del Golden Globe come miglior film straniero, Il figlio di Saul è in corsa per l’Oscar. Un film da vedere. Un film che si lascia ricordare.
data di pubblicazione 23/01/2016
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da Antonella Massaro | Gen 17, 2016
Malgrado le numerose pellicole che, sia pur in maniera molto diversa tra loro, hanno portato sul grande schermo il misto di attonito orrore e incredulo imbarazzo suscitato dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti, Il labirinto del silenzio dimostra come il binomio “cinema e Olocausto” non abbia ancora esaurito le sue potenzialità.
Il film, di produzione tedesca e primo lungometraggio dell’italiano Giulio Ricciarelli, muove da una prospettiva indubbiamente originale, raccontando il processo tenutosi a Francoforte dal 1963 al 1965 per i fatti commessi nel campo di concentramento di Auschwitz.
Non si tratta dei processi di Norimberga. Non si tratta neppure del processo ad Eichmann tenutosi in Israele. Non si tratta, insomma, dei processi dei vincitori che pretendono di imporre ai vinti la Giustizia amministrata da Tribunali istituiti ex post e ad hoc, ma del primo processo svoltosi in Germania, davanti a giudici tedeschi e secondo le leggi scritte da un Parlamento faticosamente divenuto democratico. Senza contare che gli imputati non sono i vertici della gerarchia nazista, ma la base del partito, costituita da persone “normali”, tornate dopo la guerra dalle loro mogli, nelle botteghe da fornaio, o, perché no, a insegnare nelle scuole.
Una svolta al tempo stesso giuridica e culturale, una tappa decisiva nella lenta e faticosa presa di coscienza della giovane democrazia tedesca, che pretendeva o, semplicemente, sperava, di seppellire sotto una coltre di indifferente silenzio la proporzione dei crimini nazisti. Una pagina cruciale della storia recente, che il lavoro di Ricciarelli ha l’indubbio merito di aver tirato fuori dagli scaffali polverosi degli “addetti ai lavori”.
Johann Radmann (Alexander Fehling) è un giovane pubblico ministero che muove i suoi primi passi nel Tribunale di Francoforte, sostenuto dalla forza esercitata, a suo parere, dall’intransigenza della Legge: il codice non ammette eccezioni, neppure quando si tratti di comuni violazioni del codice della strada. Alcune provocazioni del giornalista Thomas Gnielka (André Szymanski) dirottano la sua attenzione sul personale in servizio ad Auschwitz durante la guerra. Il nome della cittadina polacca è ancora lontana dal divenire l’icastica metonimia del genocidio che contribuì a realizzare: molti sanno, tanti preferiscono non sapere, troppi scelgono di tacere. Il codice penale, però, consente di qualificare come “omicidio” i fatti commessi nel lager. E se l’omicidio è un reato non ancora prescritto, si può procedere con le indagini. E se ad Auschwitz prestavano servizio ottomila uomini delle SS, quegli uomini tutti potenziali indagati.
Il labirinto del silenzio non mostra le uniformi, le baracche del campo stracolme, i corpi straziati, le camere a gas, gli abominevoli esperimenti sui bambini condotti dal dottor Mengele. Le immagini che si mostrano agli occhi dello spettatore attraverso i racconti degli innumerevoli testimoni ascoltati da Radmann e le carte che faticosamente compongono la gigantesca mole dei fascicoli processuali sono dotate però di una carica espressiva altrettanto straordinaria.
Il personaggio di Radmann viene fuori dalla penna degli sceneggiatori Elisabeth Bartel e Giulio Ricciarelli, ma è reale la storia che la sua toga contribuisce a scrivere, così come reale è la figura del Procuratore generale Fritz Bauer (interpretato da Gert Voss), autentico artefice dell’opera di disvelamento della storia messa in moto dalle apparentemente temerarie indagini del suo giovane procuratore.
Il film è indubbiamente scritto in maniera magistrale, diretto in modo efficace e interpretato in maniera convincente. Qualche ingenuità e imprecisione di troppo, sembrerebbe, nella traduzione italiana del lessico giuridico.
data di pubblicazione 17/01/2016
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da Antonella Massaro | Gen 10, 2016
99 Homes aveva raccontato la crisi dei mutui subprime descrivendo gli effetti disastrosi derivanti dall’esplosione/implosione della bolla immobiliare e collocandosi dalla prospettiva delle vittime “ignare”, sorprese e travolte dallo tsunami finanziario. La grande scommessa descrive invece il momento immediatamente precedente alla deflagrazione del sisma, inquadrando la catastrofe dall’ottica degli addetti ai lavori: operatori finanziari outsider che, spacchettando la complessa architettura delle obbligazioni immobiliari e prevedendo l’incombere del default su molte banche americane, decidono di “vendere allo scoperto”, di scommettere contro titoli di cui si ipotizza il futuro ribasso. Il vaso di Pandora scoperchiato dalle analisi di chi si troverà suo malgrado a svolgere il ruolo di inascoltata Cassandra, rivela una trama fraudolenta che tiene insieme il sistema bancario, la FED (Banca centrale americana) e le agenzie di rating, mostrando una diffusività epidemica capace di contagiare l’economia mondiale.
Adam McKay, noto per il suo registro leggero, si confronta con il libro di Michael Lewis The Big Short – Il grande scoperto e riesce nella non scontata impresa di individuare il giusto equilibrio tra i toni della commedia amara e quelli più propriamente drammatici, restituendo un film in effetti refrattario all’inquadramento di genere.
Il cast è quello delle grandi occasioni. Il superbo Christian Bale nel ruolo di Michael Burry, incompreso gestore di fondi di investimento che cammina a piedi nudi in ufficio ascoltando heavy metal; Ryan Gosling-Jared Vennett, cinica voce narrante del film; Steve Carell, cui è affidato il personaggio di Mark Baum, perennemente sospeso tra le ragioni del profitto e quelle della morale. E infine c’è Brad Pitt, anche produttore del film, protagonista indiscusso del lancio pubblicitario: Ben Rickert, “lupo di Wall Street” in pensione, sia pur centellinato nelle sue apparizioni, restituisce forse il senso autentico della storia.
La sceneggiatura è necessariamente intrisa di tecnicismi economico-finanziari, tanto evidenti da suggerire al regista curiose (e riuscite) parentesi didascaliche, affidate per esempio a Selena Gomez e Margot Robbie, che, immerse in vasca da bagno sorseggiando champagne o sedute al tavolo da gioco, “traducono” per lo spettatore medio e sprovvisto di conoscenze specialistiche il linguaggio (volutamente) oscuro della finanza.
Proprio la scelta di strumenti di narrazione non convenzionali si rivela il tratto davvero vincente di un film corale complessivamente riuscito. La grande scommessa sconta tuttavia dei tempi eccessivamente dilatati, durante i quali il racconto filmico non mantiene sempre la dovuta incisività e che, quando i siparietti didascalici sono conclusi, lasciano un senso di smarrimento, anche nel più volenteroso “spettatore medio”, probabilmente eccessivo.
data di pubblicazione 10/01/2016
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da Antonella Massaro | Gen 3, 2016
Il nuovo film di Checco Zalone e Gennaro Nunziante arriva in sala dopo l’imponente lancio pubblicitario messo a punto dal produttore Taodue e dal distributore Medusa. Il primo giorno di programmazione fa già registrare il record di incassi per una commedia che, evidentemente, intercetta con impeccabile precisione la domanda di cinema vacanziero degli spettatori italiani.
Checco cresce coltivando il sogno di entrare a far parte della casta del “posto fisso”, invidiata cerchia di impiegati pubblici cui sono concessi i più desiderabili privilegi: telefonate intercontinentali “gratis”, orari di lavori a dir poco flessibili, regalie in grado di rifornire una dispensa degna dello chef più intransigente. Perché rendere omaggio a un pubblico ufficiale non è né corruzione né concussione, ma solo educazione.
L’ennesima riforma governativa, volta a gettare fumo negli occhi con una pretesa semplificazione della macchina burocratica, sconvolge però il solido equilibrio di Checco. Il senatore Nicola Binetto (Lino Banfi), orgoglioso sopravvissuto della Prima Repubblica, guiderà il “nostro eroe” nella strenua ed epica difesa del posto fisso contro gli insidiosi attacchi della Dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco), cinica e spietata emissaria del Ministro (Ninni Bruschetta). Checco assume le vesti di un novello e surreale Ulisse: costretto a un’imprevedibile e rocambolesca Odissea e ammaliato dal sorriso ipnotico della ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi), è disposto a mettere in discussione gli ideali più consolidati della propria identità di gretto italiano medio, intraprendendo un autentico e profondo processo di civiltà e civilizzazione. Il richiamo di Itaca diviene a un certo punto irresistibile, ma il concetto di “casa”, si sa, non è necessariamente imbrigliato dalla staticità delle radici e il desiderio di spingersi oltre le colonne d’Ercole è connaturato all’essenza stessa dell’Uomo, specie nella variante dell’Uomo innamorato.
Quo vado? ruota attorno alla dissacrante ironia degli stereotipi italiani più tristemente noti, restituendo, attraverso i toni della commedia, il tentativo di una satira socio-politica che rievoca i tempi del glorioso ragionier Fantozzi. I riferimenti alla Commedia all’italiana, pure spesso chiamata in causa nei primi commenti al film, appaiono forse fuori luogo: da una parte l’invalsa abitudine di tessere le lodi del cinema italiano tirando fuori dal cassetto in cui erano riposte le preziose trame del Neorealismo e della Commedia all’italiana suona più come l’incapacità di “stare in piedi da soli” che come un effettivo confronto critico; dall’altra parte le citazioni dell’ispirata penna di Age e Scarpelli, del versatile istrionismo di Alberto Sordi e della lungimirante (a tratti profetica) macchina da presa di Dino Risi e Mario Monicelli suonano più dissacranti di qualsiasi battuta che Checco Zalone abbia l’ardire di pronunciare.
I colpi di comico genio non mancano di certo: dalla selezione dei migranti approdati a Lampedusa affidata alle doti calcistiche degli stessi alla citazione de La Grande Bellezza di fronte al “Fontanone del Gianicolo”, passando per la decisiva svolta narrativa affidata alla riunione di Al Bano e Romina sul palcoscenico del Festival di Sanremo. Nel complesso, però, l’impressione resta quella di una sequela di sketch più adatti alla risata da piccolo schermo che alla sceneggiatura cinematografica, con un finale prevedibilmente romantico-buonista nel quale si dissolve ogni barlume dello scanzonato ma perdente eroe piccolo borghese del “fu Cinema Italiano”.
Il fascino delle ambientazioni offerte dal (milionario) set internazionale, unito alle preziose interpretazioni di Sonia Bergamasco, Maurizio Mattioli, Lino Banfi, Ninni Bruschetta, ma anche alla convincente prova della protagonista femminile Eleonora Giovanardi, rendono Quo vado? un gradevole digestivo natalizio, sia pur non sostenuto da un banchetto davvero in grado di esaltarne la degustazione.
data di pubblicazione 03/01/2016
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