TRIUMPH AND LAMENTS di William Kentridge

TRIUMPH AND LAMENTS di William Kentridge

Per troppo tempo le sponde del Tevere sono rimaste ai margini del cuore pulsante della città “capoccia” del mondo, sommerse da una noncurante trascuratezza capace di offuscare il fascino abbagliante di una delle più originali prospettive dalle quali inquadrare Roma.

Del tutto meritoria l’iniziativa della Onlus TEVERETERNO, che nasce da un’intuizione tanto semplice quanto geniale: ripulire il travertino del tratto di muraglioni di Piazza Tevere (da Ponte Sisto a Ponte Mazzini), ma lasciare che a occuparsene fosse William Kentridge e che l’arte contemporanea levasse via la patina del tempo per riportare alla luce gli antichi splendori.

550 metri di disegni dai quali traspare l’inconfondibile tratto di Kentridge. 54 fotogrammi che raffigurano un trionfo, un lamento o un momento in cui la vita e la morte si fondono fino a far perdere di vista i contorni reciproci. Dalla lupa capitolina (anche in versione scheletrica) all’arrivo di migranti a Lampedusa, da Apollo e Daphne alla deportazione degli ebrei, da San Pietro crocefisso a “La dolce vita” di Fellini, da Anita Garibaldi a “Roma città aperta” di Rossellini: sono solo alcuni dei fregi chiamati a raccontare una storia eterna, fatta di corsi e ricorsi, di cadute e di resurrezioni.

Uno spirito che sembra efficacemente sintetizzato dal cofano della Renault 4 da cui fa capolino il corpo di Aldo Moro e che si fonde in una composizione unica con l’estasi di Santa Teresa di Bernini e i Romani che uccidono i barbari.

Così come si resta ipnotizzati di fronte alla creatura dalla testa d’asino e dal corpo di donna, che sarebbe stato portato a riva dall’inondazione del Tevere del 1495 e che divenne ben presto l’emblema dell’Anticristo papale, ritratto mentre versa del caffè, rigorosamente con Moka Bialetti, a una vecchia e sofferente mendicante: si tratta di “Roma vedova”, spogliata ormai dei fasti che l’avevano resa gloriosa.

Ma Roma, si sa, è capace ogni tanto di uno scatto di orgoglio. Così l’opera di Kentridge è stata presentata al pubblico con un raffinato e visionario spettacolo di luci e ombre: performance ideata dallo stesso artista, con musiche originali del compositore Philip Miller e dal compositore aggiunto Thuthuka Sibisi.

Il 21 aprile, data certamente non casuale, e il giorno successivo centinaia di spettatori hanno affollato Ponte Sisto e le sponde del Tevere. Anche noi Accreditati ci siano seduti sulle banchine del nostro Fiume, lasciando che i rumori del traffico si dissolvessero in lontananza e godendo di una poesia capace di emozionare, con la speranza che l’effimera opera di Kentridge possa rendere duraturo questo meraviglioso spettacolo.

MI HANNO RIMASTO SOLO…10 ANNI DOPO di e con Michele La Ginestra

MI HANNO RIMASTO SOLO…10 ANNI DOPO di e con Michele La Ginestra

(Teatro della Cometa – Roma, 21 aprile/8 maggio 2016)

Un palcoscenico che diviene un tutt’uno con il suo “dietro alle quinte”, qualche scala, una manciata di sedie e un pianoforte ben accordato: non serve nient’altro per l’omaggio che Michele La Ginestra sceglie di donare al suo Teatro.

Il sogno dell’attore, che da “uno” si fa in “centomila” per evitare di restare “nessuno”, è quello di prestare l’anima e il corpo ogni sera a un personaggio diverso: non per la gratificazione dell’applauso del pubblico, ma come atto d’amore nei confronti di se stesso, godendo della linfa vitale che solo il Teatro è in rado di infondere nelle vene dell’artista.

Non resta allora che “fare il mestiere dell’attore”, regalando risate sincere e momenti di commozione a chi, almeno per una notte, è disposto a condividere quel sogno.

Dall’iniziale omaggio a Ettore Petrolini all’intimo monologo finale dedicato al padre scomparso, la carrellata di personaggi che si avvicendano sul palco è nutrita e variegata: il cinicamente realista Don Michele, conosciuto anche dal pubblico televisivo di Zelig; il tragicomico Menicacci, promessa non mantenuta del calcio italiano che ha “giocato” nel Bari di Mazinga (non il cartone animato, il giocatore nero); un esilarante e incompreso Leonardo da Vinci; Pollicino, Pinocchio e Cappuccetto Rosso, spogliati di ogni perbenismo della morale fiabesca.

I raccordi tra le singole tessere del mosaico che compongono lo spettacolo sono affidate all’accompagnamento musicale del Maestro Paolo Tagliapietra, supportato dalle voci di Alessia Lineri, Irene Morelli e Alessandra Fineo. La rassicurante tradizione degli stornelli romani o del celebre motivetto che faceva da in introduzione alla fiabe sonore, uniti alla familiare riconoscibilità di Un bacio a mezzanotte o Minuetto, restituiscono sul piano musicale l’eterogeneità dei frammenti di Mi hanno lasciato solo.

Il titolo dello spettacolo riporta direttamente alle sue origini: dieci anni fa un improvviso vuoto nel programma del Teatro Sette rappresenta l’occasione per assemblare quattro monologhi già scritti da Michele La Ginestra, che, pur rimasto solo, trova il modo di riempire quel vuoto.

I testi si sono progressivamente affinati e arricchiti, ma resta intatta l’indubbia capacità di Michele Le Ginestra di fondersi e confondersi con il palco, con irresistibili spunti di improvvisazione, tanto durante lo spettacolo quanto in occasione dei saluti finali, che mostrano l’istintiva maestria di chi nel Teatro è rimasto “imprigionato”.

data di pubblicazione: 23/04/2016


Il nostro voto:

SENZA LASCIARE TRACCIA di Gianclaudio Cappai, 2016

SENZA LASCIARE TRACCIA di Gianclaudio Cappai, 2016

Senza lasciare traccia, primo lungometraggio di Gianclaudio Cappai, presentato in anteprima all’ultima edizione del Bari International Film Festival, solleva con orgoglio il vessillo del cinema indipendente che, nonostante tutto, riesce ad approdare in sala.

Bruno (Michele Riondino) ed Elena (Valentina Cervi). Una coppia come tante: una casa, due cani, i problemi di lavoro, i problemi di salute. Bruno è malato: nel suo corpo alberga “un intruso” invadente e rumoroso, che non concede tregua né alla sue membra né alla sua anima.

Elena deve partire per restaurare un vecchio dipinto e quando Bruno viene a sapere che la meta è lo stesso posto dove lui ha vissuto da bambino decide di accompagnarla.

Mentre Elena leva via con delicatezza la patina del tempo dalle figure così cupe e sofferenti che rappresentano il mito di Deucalione e Pirra, Bruno prova a restaurare la sua vita, irrompendo fragorosamente in una tenuta che ospita un padre (Vitaliano Trevisan) e sua figlia (Elena Radonicich) alle prese con problemi finanziari, stanchi guardiani di una fornace ormai dismessa.

La storia, inizialmente frammentata, si ricompone gradualmente davanti agli occhi dello spettatore. La fornace, enfatizzata visivamente dalla fotografia satura, diviene il luogo metaforico dell’Infermo e del peccato, ma anche del fuoco in grado di distruggere e purificare il senso di una colpa più soffocante dei fumi del carbone.

Il viaggio verso il passato è l’unica via che si apre a Bruno per proiettare finalmente la sua vita verso il futuro. Azzerare tutto, senza lasciare traccia, si mostra al protagonista come l’unica possibilità di rinascita e (quindi) di salvezza: proprio come il diluvio universale con il quale Zeus distrugge il genere umano, mettendo in salvo solo Deucalione e Pirra e affidando loro il compito di “ripartire da zero”. La vendetta di Bruno non ha mai la pretesa di ergersi a giustizia, ma il solo obiettivo di curare una sofferenza male che nessuna medicina è in grado di alleviare. Difficile dire se la terapia sarà davvero efficace o si rivelerà solo un blando ed effimero palliativo.

Il film di Cappai sconta forse un avvio eccessivamente macchinoso, recuperando invece nella seconda parte il pathos, soprattutto interiore, che individua l’autentica cifra narrativa della storia. La valenza simbolica della malattia di Bruno e del suo viaggio risulta a tratti eccessivamente esibita, perdendo nel finale l’occasione del guizzo capace di andare la metafora.

Senza lasciare traccia resta però un esordio convincente, sostenuto da un cast artistico e tecnico che non delude le aspettative.

data di pubblicazione: 15/04/2016


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LEI È RICCA, LA SPOSO E L’AMMAZZO di Mario Scaletta, regia di Patrick Rossi Gastaldi

LEI È RICCA, LA SPOSO E L’AMMAZZO di Mario Scaletta, regia di Patrick Rossi Gastaldi

(Teatro Quirino – Roma, 12/24 aprile 2016)

Orazio (Gianfranco Jannuzzo) vive attingendo al ricco patrimonio di famiglia, ma le rendite di cui dispone non riescono più a sostenere il ritmo delle sue pretese. Il prestito di centomila euro che ottiene dal mafioso Lucky Bonanno (Cosimo Coltraro) è solo un provvisorio palliativo. L’unica soluzione, come suggerito dalla fedele governante Nunziatina (Antonella Piccolo), è quella di sposare in fretta una donna molto ricca: Orazio dovrà rinunciare alla sua libertà di convinto scapolo, ma potrà arginare la piena dei suoi sempre più numerosi creditori.

La sposa-vittima designata è Albertina (Debora Caprioglio), presentata a Orazio dalla comune amica Floriana (Claudia Bazzano). Albertina è un’entomologa ingenua e goffa, più a suo agio con gli insetti che con gli esseri umani, che dispone però di un patrimonio capace di restituire a Orazio l’agio perduto. Il matrimonio, del resto, potrebbe durare molto poco: basta un grammo di veleno per diventare un vedovo e ricco erede.

La storia, liberamente tratta dal film È ricca, la sposo e l’ammazzo (1971) di Elaine May, protagonista insieme a Walter Matthau, valorizza più la componente comica che quella romantica, senza indulgere al sentimentalismo proprio del genere. Le battute incalzanti, anche se non sempre travolgenti, possono contare sulla convincente maestria dei due attori protagonisti Gianfranco Jannuzzo e Debora Caprioglio: cinico lui, indifesa lei, ma entrambi accomunati da un’inesperienza nei confronti della vita che li rende più simili di quanto possa sembrare. La “morale della favola” è intuitiva: gli opposti possono non attrarsi immediatamente, ma finiscono per scoprirsi inevitabilmente complementari.

I cambi di scena sono essenziali e frequenti, sostenendo con apprezzabile solidità il ritmo narrativo. Meno convincenti le “inserzioni video” cui il regista ricorre per sottolineare alcuni snodi del racconto (a partire dal matrimonio), ma che non sempre si inseriscono in maniera armonica nel contesto scenico.

Frase cult: le battute sono il sale della vita, sempre che non si abbia la pressione alta.

data di pubblicazione: 15/04/2016


Il nostro voto:

LA CORTE di Christian Vincent, 2016

LA CORTE di Christian Vincent, 2016

Un raffinato gioiello francese, dopo aver illuminato di una luce tanto discreta quanto avvolgente la selezione della 72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, rischiara anche gli schermi italiani.

Xavier Racine (Fabrice Luchini, immancabilmente perfetto) è un intransigente Presidente di Corte d’Assise, che amministra la Giustizia in quel Nord della Francia divenuto ormai un autentico toposcinematografico. Durante il processo relativo alla morte di una bambina, all’interno del quale rischiano di insinuarsi il pregiudizio e/o la noncuranza relativi alla condizione di emarginazione sociale che fa da sfondo alla commissione del delitto, lo sguardo del “Presidente”, come ci tiene a essere chiamato Racine, incontra quello della giurata Birgit Lorensen-Coteret (un’impeccabile Sidse Babett Knudsen): non si tratta di uno degli anonimi nominativi estratti a sorte per la composizione della Giuria, ma degli occhi che in passato hanno acceso nel cuore di Racine il bagliore di un amore mai sopito.

La dimensione teatrale del processo, un po’ troppo didascalicamente enfatizzata nel corso del film, non è certo un mistero. Il processo, soprattutto quello penale, è al tempo stesso “rito” e spettacolo, con tanto di palcoscenico, scenografia, costumi, attori e copione.  Così come non è un mistero che il courtdrama sia un genere tipicamente targato USA, il quale, rafforzato dalla strutturale spettacolarità del processo di common law e dall’effetto trascinatore del botteghino americano, fatica a trovare corrispondenti altrettanto convincenti nella cinematografia del Vecchio continente: è significativo che ne La Corte uno dei personaggi si veda affidato il compito di “illustrare”, anzitutto allo spettatore, la composizione dell’aula e, quindi, l’allestimento dello spettacolo che sta per iniziare. Il lavoro di Vincent si caratterizza però per una scrittura consapevole e non approssimativa, con quei giurati seduti attorno a un tavolo in cui è pressoché inevitabile intravedere gli eredi dei 12 Angry Men (titolo originale di La parola ai giurati, sebbene il regista smentisca esplicitamente qualsiasi influenza delcult di Sidney Lumet). Rinunciando alla pomposa maestosità dello stereotipo del “processo da grande schermo”, il film riporta il tribunale e gli uomini di legge a una dimensione forse più prosaica, ma indubbiamente familiare a chi è abituato a frequentare i luoghi della Giustizia.

Il personaggio interpretato da Fabrice Luchini riproduce proprio il dualismo tra la dimensione solennemente pubblica e quella romanticamente privata attorno al quale si sviluppa l’intero racconto. L’Ermellino (non a caso sottolineato dal titolo originale “L’Hermine“) e la sciarpa rossa, il Giudice che conduce con sicurezza il dibattimento e l’uomo che non sostiene il pressante interrogatorio della figlia adolescente di Birgit: due anime efficacemente distinte dalla recitazione di Luchini, pronte a ricomporsi in armonica unità nel finale.

La commedia “romantico-giudiziaria” tratteggiata da La Corte è anche la nitida fotografia di uno spaccato sociale sul quale hanno richiamato a lungo l’attenzione, nella conferenza stampa veneziano, tanto il regista quanto il protagonista, nel corso di un irresistibile show di Luchini che ha spaziato dalla riflessione politica alla lezione sul mestiere dell’attore.

data di pubblicazione 22/03/2016


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