THE LIGHT BETWEEN OCEANS di Derek Cianfrance, 2016

THE LIGHT BETWEEN OCEANS di Derek Cianfrance, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

Un’isola tra due oceani, un faro e il suo guardiano, un uomo e una donna chiamati al cospetto delle proprie responsabilità.

Responsabilità, senso di colpa, coraggio e perdono. Sono queste le parole chiave che potrebbero sintetizzare The light between oceans di Derek Cianfrance, in concorso alla 73. Mostra di Venezia.

Tom (Michael Fassbender, di recente candidato all’Oscar per Steve Jobs) diviene il guardiano del faro dell’isola Janus. È reduce dalla prima guerra mondiale e dopo gli orrori della trincea non teme l’assolutezza di una solitudine che ha messo a dura prova i precedenti guardiani. Desira anzi concedersi una pausa dalle proprie responsabilità, nascosto e protetto dalla magnificente sontuosità di una natura che diviene a tutti gli effetti una protagonista della suggestione visiva confezionata da Cianfrance. Izabel (Alicia Vikander, premio Oscar per The Danish girl) riaccende in Tom la scintilla di una vitalità che pareva irrimediabilmente soffocata e sceglie di condividere il magnifico isolamento di Janus, in una dimensione sospesa dallo spazio e dal tempo. Il passato, del resto, va superato e del futuro non si può parlare, trattandosi al più di speranze o desideri: non resta dunque che vivere il presente, cristallizzandolo in un fotogramma sospeso tra il “prima” e il “poi”. Come Giano bifronte e il mese di gennaio che da quella divinità deriva il suo nome, a metà strada tra la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo. Come l’isola di Janus e il suo faro, chiamati a fare da spartiacque e, al tempo stesso, da raccordo, tra due oceani. Ma il tempo e la vita sono refrattari a ogni tentativo di fermo immagine e continuano inesorabili la propria corsa verso l’eterno ritorno.

Dal mare arriva una prova: un uomo morto e una bimba viva a bordo di una barca alla deriva. Le coscienze dei due protagonisti si trovano di fronte alla necessità di una scelta, innescando una spirale di sentimenti contrastanti, una tempesta in grado di rendere invisibile quel faro che aveva restituito l’impressione di un rassicurante punto di riferimento. Ogni scelta però comporta delle responsabilità, dalle quali neppure la solitudine dell’isola può rendere esonerati. Non resta dunque che trovare la via per evadere da quella che, per usare le parole scelte da Alicia Vikander, si trasforma in una vera e propria “prigione emotiva”.

Tratto dall’omonimo romanzo di M.L. Steadman, The light between oceans riesce senza dubbio nell’intento di confrontarsi con interrogativi universali, capaci di andare ben oltre la contingenza della singola storia. Michael Fassebender e Alicia Vikander, approdati al Lido come coppia nella vita dopo l’intesa trovata proprio sul set del film, (sor)reggono una sceneggiatura dal peso indubbiamente non trascurabile, a tratti ridondante, con qualche concessione di troppo nel finale. La regia, la fotografia e il talento degli attori (molto convincente anche la prova di Rachel Weisz) riescono però a tenere insieme i pezzi di una storia dalle molteplici chiavi di lettura.

data di pubblicazione: 02/09/2016








 

MONEY MONSTER – L’ALTRA FACCIA DEL DENARO di Jodie Foster, 2016

MONEY MONSTER – L’ALTRA FACCIA DEL DENARO di Jodie Foster, 2016

George Clooney e Julia Roberts di nuovo insieme sul grande schermo. Jodie Foster dietro la macchina da presa. Lo spettatore di Money Monster – L’altra faccia del denaro si siede in sala pronto a lasciarsi sorprendere dal trio delle meraviglie. E le sue aspettative non restano deluse.

Lee Gates (George Clooney) conduce il programma televisivo “Money Monster”, con il quale rende accessibili i misteri dell’alta finanza al grande pubblico: con un stile spesso sopra le righe, ammantato di paillettes e lustrini, Lee commenta l’andamento del mercato, fa previsioni, consiglia investimenti. È una star, eccentrica ed egocentrica, capace di trasformare in intrattenimento il turbinio di denaro che si muove a livello globale e a velocità non umanamente controllabili.

In cabina di regia siede Patty Fenn (Julia Roberts), che riesce mirabilmente, ma con insofferenza crescente, a stare dietro alle continue improvvisazioni di Lee.

Durante una trasmissione in diretta irrompe nello studio il giovane Kyle Budwell (Jack O’Connell), con una pistola, una bomba e un detonatore. Ha investito tutti i suoi risparmi nelle azioni della società IBIS seguendo il consiglio di Lee Gates, ma un improvviso glitch, un errore di sistema nel funzionamento dell’algoritmo progettato per gestire in modo sicuro i risparmi degli investitori, ha determinato una perdita di 800 milioni di dollari.  Ora non chiede indietro il suo denaro, ma cerca delle risposte. E Lee Gates e Patty Fenn faranno di tutto per trovarle.

Il messaggio di Money Monster risuona chiaramente ed è lo stesso su cui il cinema americano si è interrogato spesso (per restare alle pellicole più recenti 99 Homes e La grande scommessa): dietro le complesse macchinazioni dell’èlite finanziaria c’è la massa di piccoli risparmiatori, che complessivamente sono necessari al funzionamento della macchina globale, ma singolarmente non sono indispensabili alla sua folle corsa. E dietro ciascun piccolo risparmiatore c’è una storia fatta di sacrifici e di sogni, capaci di essere spazzati via da un improvviso e imprevedibile glitch.

Il film di Jodie Foster riesce però a comunicare quel messaggio in maniera originale, fondendo magistralmente lo stile drammatico e le battute da commedia, l’andamento adrenalinico e il sentimento non smielato (emblematica la sequenza in cui Lee chiede aiuto al “suo” pubblico, invitandolo a investire in diretta su IBIS per assicurare un recupero del titolo). Il tutto tenuto insieme da svolte narrative sincronizzate con una perfezione magistrale, capaci in più di un’occasione di sorprendere lo spettatore.

A ciò si aggiunge la cura meticolosa riservata alle sfumature di ciascun personaggio, dai protagonisti a quelli secondari. Fenn, che non riesce a dirigere come vorrebbe il programma “finto” di Lee, recupera nell’emergenza della realtà il suo più autentico ruolo di regista. Lee mette da parte il cinismo in nome di un ideale di giustizia. Kyle resta inevitabilmente affascinato dal meraviglioso mondo della TV. E così via, fino all’ultimo dei cameramen e dei poliziotti, in un film che in fondo risulta corale e in cui la magnificenza dei protagonisti si amalgama armoniosamente nel contesto, seguendo l’andamento di un copione ben scritto e di una macchina da presa consapevole. La psichedelica regia delle sequenze inziali anticipa i fuochi di artificio della storia, tanto nella più corposa parte girata in studio quanto nelle “epiche” sequenze finali. Fino alla conclusione per cui, nonostante tutto, the show must go on, specie quando lo show è in tutti i sensi business.

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes e uscito contemporaneamente in Italia, come molte delle pellicole che stanno rischiarando la Croisette in questi giorni, Money Monster è un film da non perdere.

data di pubblicazione: 15/05/2016


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LO STATO CONTRO FRITZ BAUER di Lars Kraume, 2016

LO STATO CONTRO FRITZ BAUER di Lars Kraume, 2016

Lo Stato contro Fritz Bauer esce nelle sale solo pochi mesi dopo Il labirinto del silenzio. Se il film di Ricciarelli rendeva un omaggio discreto al procuratore generale Fritz Bauer, il quale infonde nel giovane Johann Radmann il coraggio di istruire il primo processo tedesco per i fatti di Auschwitz, il racconto di Lars Kraume tratteggia l’affresco eroico di Bauer, funzionando quasi da prequel del film di Ricciarelli.

Nell’immediato secondo dopoguerra il governo Adenauer persegue la politica della riconciliazione, con l’Europa e all’interno della Germania occidentale. In uno Stato in cui i vertici dell’amministrazione e delle istituzioni sono ancora intrise di infiltrazioni nazifasciste, “riconciliare” vuol dire però (anche) “cancellare” i crimini del Terzo Reich, a partire dalle deportazioni di massa e dagli stermini nei campi di concentramento.

Fritz Bauer assume l’incarico di procuratore generale a Francoforte. È ebreo, omosessuale ed ex socialista: una triade indubbiamente complessa da reggere per le spalle di un solo uomo. Dopo essersi salvato dalla persecuzione nazista non è disposto a lasciar cadere la cortina del silenzio sui crimini consumatisi in un Paese che è la patria di Beethoven e Goethe, ma anche quella di Hitler e di Eichmann. Proprio Eichmann, l’ideatore della “soluzione finale”, offre al procuratore l’occasione di avviare quel “processo” di revisione storica, di affermazione della giustizia e di consapevolezza socio-culturale che ha visto impegnata la Germania dopo la traumatica conclusione del Secolo breve.

Bauer è un uomo di legge, ma si rende conto ben presto che il rispetto delle regole non riuscirà ad avere la meglio sulla ragion di Stato. Quando viene a sapere che Eichmann si rifugia in Argentina, decide di rivolgersi al Mossad (i servizi segreti israeliani) per assicurare la sua cattura. Il rischio è quello di un’accusa per alto tradimento, ma il rischio ancor più elevato è di non giocare la sola mossa in grado di superare la condizione di stallo. Il giovane procuratore Karl Angermann (Ronald Zehrfeld), suo alter ego professionale e umano, decide di sedere dalla stessa parte del tavolo di Bauer in una partita tanto cruciale.

L’epilogo è una storia nota: Eichmann viene catturato e il processo non si terrà a Francoforte, come Bauer auspicava, ma in Israele. Quello stesso processo raccontato di recente nell’interessante The Eichmann show – Il processo del secolo, prodotto televisivo rimasto in sala pochi giorni in occasione della giornata della memoria.

Anche Lars Kraume, come Giulio Ricciarelli è italiano di nascita. E anche Kraume, come Ricciarelli, si confronta con un intreccio che va oltre il genere legal. Diritto e Giustizia, tradimento dello Stato nel disperato tentativo di salvare una Nazione: sono questi i temi che si trovano a comporre il mosaico di una storia ancora troppo recente per poter essere definitivamente archiviata.

Il racconto risente a volte del prevalere di schemi più televisivi che cinematografici (Kraume lavora molto anche per la televisione), ma riesce complessivamente a coniugare il racconto più strettamente investigativo con quello biografico, affidando al rapporto tra Bauer e Angermann il compito di lasciar emergere, fuor da ogni scontato idealismo, l’uomo che si cela dietro i fascicoli e la toga.

Lo Stato contro Frizt Bauer, Il Labirinto del silenzio, The Eichmann show: un’incisiva trilogia di riflessioni cinematografiche che, tra il 2015 e il 2016, hanno acceso i riflettori su una storia che, a quanto pare, ha ancora molto da raccontare.

data di pubblicazione: 8/5/2016


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TRIUMPH AND LAMENTS di William Kentridge

TRIUMPH AND LAMENTS di William Kentridge

Per troppo tempo le sponde del Tevere sono rimaste ai margini del cuore pulsante della città “capoccia” del mondo, sommerse da una noncurante trascuratezza capace di offuscare il fascino abbagliante di una delle più originali prospettive dalle quali inquadrare Roma.

Del tutto meritoria l’iniziativa della Onlus TEVERETERNO, che nasce da un’intuizione tanto semplice quanto geniale: ripulire il travertino del tratto di muraglioni di Piazza Tevere (da Ponte Sisto a Ponte Mazzini), ma lasciare che a occuparsene fosse William Kentridge e che l’arte contemporanea levasse via la patina del tempo per riportare alla luce gli antichi splendori.

550 metri di disegni dai quali traspare l’inconfondibile tratto di Kentridge. 54 fotogrammi che raffigurano un trionfo, un lamento o un momento in cui la vita e la morte si fondono fino a far perdere di vista i contorni reciproci. Dalla lupa capitolina (anche in versione scheletrica) all’arrivo di migranti a Lampedusa, da Apollo e Daphne alla deportazione degli ebrei, da San Pietro crocefisso a “La dolce vita” di Fellini, da Anita Garibaldi a “Roma città aperta” di Rossellini: sono solo alcuni dei fregi chiamati a raccontare una storia eterna, fatta di corsi e ricorsi, di cadute e di resurrezioni.

Uno spirito che sembra efficacemente sintetizzato dal cofano della Renault 4 da cui fa capolino il corpo di Aldo Moro e che si fonde in una composizione unica con l’estasi di Santa Teresa di Bernini e i Romani che uccidono i barbari.

Così come si resta ipnotizzati di fronte alla creatura dalla testa d’asino e dal corpo di donna, che sarebbe stato portato a riva dall’inondazione del Tevere del 1495 e che divenne ben presto l’emblema dell’Anticristo papale, ritratto mentre versa del caffè, rigorosamente con Moka Bialetti, a una vecchia e sofferente mendicante: si tratta di “Roma vedova”, spogliata ormai dei fasti che l’avevano resa gloriosa.

Ma Roma, si sa, è capace ogni tanto di uno scatto di orgoglio. Così l’opera di Kentridge è stata presentata al pubblico con un raffinato e visionario spettacolo di luci e ombre: performance ideata dallo stesso artista, con musiche originali del compositore Philip Miller e dal compositore aggiunto Thuthuka Sibisi.

Il 21 aprile, data certamente non casuale, e il giorno successivo centinaia di spettatori hanno affollato Ponte Sisto e le sponde del Tevere. Anche noi Accreditati ci siano seduti sulle banchine del nostro Fiume, lasciando che i rumori del traffico si dissolvessero in lontananza e godendo di una poesia capace di emozionare, con la speranza che l’effimera opera di Kentridge possa rendere duraturo questo meraviglioso spettacolo.

MI HANNO RIMASTO SOLO…10 ANNI DOPO di e con Michele La Ginestra

MI HANNO RIMASTO SOLO…10 ANNI DOPO di e con Michele La Ginestra

(Teatro della Cometa – Roma, 21 aprile/8 maggio 2016)

Un palcoscenico che diviene un tutt’uno con il suo “dietro alle quinte”, qualche scala, una manciata di sedie e un pianoforte ben accordato: non serve nient’altro per l’omaggio che Michele La Ginestra sceglie di donare al suo Teatro.

Il sogno dell’attore, che da “uno” si fa in “centomila” per evitare di restare “nessuno”, è quello di prestare l’anima e il corpo ogni sera a un personaggio diverso: non per la gratificazione dell’applauso del pubblico, ma come atto d’amore nei confronti di se stesso, godendo della linfa vitale che solo il Teatro è in rado di infondere nelle vene dell’artista.

Non resta allora che “fare il mestiere dell’attore”, regalando risate sincere e momenti di commozione a chi, almeno per una notte, è disposto a condividere quel sogno.

Dall’iniziale omaggio a Ettore Petrolini all’intimo monologo finale dedicato al padre scomparso, la carrellata di personaggi che si avvicendano sul palco è nutrita e variegata: il cinicamente realista Don Michele, conosciuto anche dal pubblico televisivo di Zelig; il tragicomico Menicacci, promessa non mantenuta del calcio italiano che ha “giocato” nel Bari di Mazinga (non il cartone animato, il giocatore nero); un esilarante e incompreso Leonardo da Vinci; Pollicino, Pinocchio e Cappuccetto Rosso, spogliati di ogni perbenismo della morale fiabesca.

I raccordi tra le singole tessere del mosaico che compongono lo spettacolo sono affidate all’accompagnamento musicale del Maestro Paolo Tagliapietra, supportato dalle voci di Alessia Lineri, Irene Morelli e Alessandra Fineo. La rassicurante tradizione degli stornelli romani o del celebre motivetto che faceva da in introduzione alla fiabe sonore, uniti alla familiare riconoscibilità di Un bacio a mezzanotte o Minuetto, restituiscono sul piano musicale l’eterogeneità dei frammenti di Mi hanno lasciato solo.

Il titolo dello spettacolo riporta direttamente alle sue origini: dieci anni fa un improvviso vuoto nel programma del Teatro Sette rappresenta l’occasione per assemblare quattro monologhi già scritti da Michele La Ginestra, che, pur rimasto solo, trova il modo di riempire quel vuoto.

I testi si sono progressivamente affinati e arricchiti, ma resta intatta l’indubbia capacità di Michele Le Ginestra di fondersi e confondersi con il palco, con irresistibili spunti di improvvisazione, tanto durante lo spettacolo quanto in occasione dei saluti finali, che mostrano l’istintiva maestria di chi nel Teatro è rimasto “imprigionato”.

data di pubblicazione: 23/04/2016


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