VENEZIA 73: EPILOGO E NUOVO INIZIO

VENEZIA 73: EPILOGO E NUOVO INIZIO

La 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016, pur partita in tono dimesso e con qualche scelta di programma non del tutto convincente, si conclude con un bilancio ampiamente positivo.

L’edizione 2016 della Mostra è riuscita nell’intento di accostare generi molto diversi tra loro (dalla fantascienza al western, passando per il melò), ha strizzato l’occhio al grande pubblico con film “più facili” (come li ha definiti il Direttore Barbera) ma non ha rinunciato al cinema d’autore, ha ospitato cineasti presi a prestito dallo star system più luccicante senza però che il glamour abbia mai rubato la scena al Cinema.

Quanto alle novità più attese, sembra che l’apertura di Barbera alle nuove forme di sperimentazione dell’audiovisivo di qualità, a partire dalle prime due puntante della serie The Young Pope di Paolo Sorrentino, abbia superato ogni possibile scetticismo. La nuova Sala Giardino, invece, per la qualità delle sedute e degli strumenti di proiezione, si è mantenuta ben al di sotto delle aspettative della vigilia.

La cerimonia di premiazione che ha concluso Venezia 73, diretta da una magistrale Sonia Bergamasco, ha confermato le molteplici anime che hanno attraversato questa edizione della Mostra. Ecco i premi assegnati dalla giuria presieduta da Sam Mendes.

Il Leone d’oro vola tra le mani di Lav Diaz per The Woman Who, che dedica il premio al popolo filippino per la sua lotta e alla lotta dell’umanità, ma un emozionatissimo Tom Ford, che ringrazia in italiano quella che considera la sua seconda casa, si aggiudica il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria per Nocturnal Animals. Due mondi, due stili, due visioni del cinema per certi aspetti speculari salgono in rapida successione sul palco della Sala Grande.

Si registra un ex aequo per il Leone d’Argento per la miglior regia, assegnato a Amat Escalante per l’ambizioso La Región Salvaje e Andrei Konchalovsky per Paradise, nuova riflessione sul dramma dell’Olocausto.

La Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, contro tutti i pronostici che davano per favorita Natalie Portman e la sua Jackie, è andata a Emma Stone, per la sua impeccabile interpretazione nel roboante film d’apertura La La Land.

Oscar Martinez si aggiudica invece la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile nel raffinato El Ciudadano Ilustre.

Il premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente viene meritatamente consegnato a una felicissima Paula Beer, per il poetico Frantz.

La migliore sceneggiatura è infine quella di Jackie, firmata da Noah Oppenheim, mentre il premio speciale della giuria va a The Bad Bacth di Ana Lily Amirpour.

Non resta che concludere tenendo sempre a mente le parole di Oscar Martinez: non solo Venezia è un appuntamento di sicuro prestigio per il cinema mondiale, ma l’Italia, grazie alla costellazione di geni che ha partorito, è stata in grado di realizzare il miglior cinema del XX secolo. Dovremmo cercare di non dimenticarlo, specie quest’anno in cui il grande assente di Venezia pare essere stato proprio il cinema di casa nostra.

Arrivederci al 30 agosto 2017!

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Riportiamo qui di seguito gli altri premi assegnati.

 La Giuria internazionale della sezione Orizzonti presieduta da Robert Guédiguian ha assegnato i seguenti premi:

  • Premio Orizzonti per il Miglior Film: Liberami di Federica Di Giacomo
  • Premio Orizzonti per la Miglior Regia: Fien Troch per Home
  • Premio Orizzonti per la Miglior Sceneggiatura: Bitter Money di Wang Bing
  • Premio Speciale della Giuria di Orizzonti: Koca Dünya di Reha Erdem
  • Premio Orizzonti per il Miglior Cortometraggio: La Voz Perdida di Marcelo Martinessi
  • Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Maschile: Nuno Lopes per São Jorge di Marco Martins
  • Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Femminile: Ruth Díaz per Tarde Para la Ira di Raúl Arévalo

La Giuria internazionale del Premio Venezia Opera Prima presieduta da Kim Rossi Stuart ha premiato:

  • Akher Wahed Fina (The Last of Us) di Ala Eddine Slim

La Giuria della sezione Venezia Classici presieduta da Roberto Andò ha assegnato i premi seguenti:

  • Premio Venezia Classici per il Miglior Film Restaurato: Break Up – L’Uomo Dei Cinque Palloni di Marco Ferreri
  • Premio Venezia Classici per il Miglior Documentario sul Cinema: Le Concours di Claire Simon

data di pubblicazione: 11/09/2016

THE YOUNG POPE di Paolo Sorrentino, 2016

THE YOUNG POPE di Paolo Sorrentino, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

La Mostra di Venezia sceglie di presentare, ovviamente fuori concorso, i primi due episodi della serie televisiva The Young Pope, diretta dal premio Oscar Paolo Sorrentino e comprensiva di 10 episodi che saranno trasmessi da Sky a partire dal 21 ottobre. La nuova sfida di Sorrentino è apparsa fin da subito uno degli eventi di Venezia 73: e la proiezione non ha certo deluso le aspettative.

Il Conclave elegge come nuovo Papa il giovane Lenny Belardo, americano e affascinante, magistralmente interpretato dall’ottimo Jude Law. Il nuovo Pontefice prende il nome di Pio XIII (che, non a caso, viene dopo il tanto discusso Pio XII) e sceglie come suo Segretario particolare Suor Mary (una magnifica Diane Keaton): si tratta di una donna, la stessa donna sulla quale Lenny ha potuto contare da piccolo, dopo essere stato abbandonato dai suoi genitori.

L’eterogenea schiera di Cardinali, capitanati dal macchiettistico stratega Voiello (Silvio Orlando), non sa bene cosa aspettarsi da un Papa della cui vita e della cui visione della Chiesa si conosce molto poco. Quel che appare certo fin da subito è che saranno disattese le speranze di chi, contando sull’inesperienza di Belardo, confidava di poterlo esibire come testa di legno mediatica, mantenendo di fatto il governo del Vaticano. Pio XIII, infatti, rivela presto l’intenzione di prendere saldamente in mano il timone, imponendo brusche sterzate anche senza il consenso della “base”.

Carismatico, ma incapace di gestire fino in fondo le proprie debolezze. Anticonvenzionale nei gesti, ma conservatore nelle parole: è questo l’eterogeneo ritratto del giovane Papa che sembra emergere dai primi due episodi della serie.

Il racconto di Sorrentino è spesso irriverente, senza però risultare gratuitamente provocatorio; gioca con alcuni dei più abusati luoghi comuni sugli intrighi di palazzo e sulle ambiguità del cuore della Chiesa cattolica, mostrando al contempo la fallacia di una lettura “a senso unico” (emblematico a questo proposito il personaggio interpretato da Silvio Orlando). Il tutto marchiato dall’inconfondibile impronta cinematografica di Sorrentino: simmetria e plasticismo nella composizione dell’inquadratura, movimenti di macchina al servizio della ricerca estetica, esibizione dell’artificio cinematografico che non si risolve mai in sterile esercizio di stile.

Si tratta pur sempre, inutile negarlo, di un prodotto destinato al piccolo schermo, con quelle logiche della serialità che, per quanto plasmate dalle sapienti mani di un raffinato cineasta, non riescono ad elevarsi fino alla potenza espressiva del grande schermo.

Molto più di una serie televisiva, poco meno di un Film.

data di pubblicazione: 04/09/2016








BRIMSTONE di Martin Koolhoven, 2016

BRIMSTONE di Martin Koolhoven, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

La complessa rete di rapporti che lega una giovane donna e un Reverendo si traduce in un viaggio nel fanatismo religioso e nella miseria umana, ambientato nella desolazione del West.

Stati Uniti d’America, Badlands, XIX secolo. Liz (Dakota Fanning) parla solo attraverso il linguaggio dei segni, ma, anche grazie al supporto della figlioletta, sembra perfettamente inserita in una di quelle piccole comunità del Wild West raccolte intorno alla propria Chiesa e al proprio Reverendo, in cui però la pietà e la devozione sono solo la fragile facciata dietro la quale si celano i sentimenti più oscuri e degradanti. L’arrivo del nuovo Reverendo (Guy Pearce, in una delle sue migliori prove d’attore) turba profondamente Liz. La paura e la violenza irrompono prepotentemente nella storia, che, seguendo un andamento ritroso, dall’Apocalisse fino alla Genesi, chiarisce la complessa trama di rapporti che lega i due protagonisti.

La composita epopea raccontata da Martin Koolhoven conduce nell’abisso delle pulsioni più orride e ripugnanti, alimentate da un farneticante fanatismo religioso che arriva a giustificare ogni più squallida miseria umana. Dall’altra parte si pongono (e si oppongono) la speranza che diviene coraggio, il desiderio di rivalsa che diviene anelito di emancipazione. Il finale tenterà di (ri)comporre, sia pur in maniera contraddittoria, il nero e il bianco chiamati a fronteggiarsi nel corso della storia.

Con Brimstone la selezione ufficiale di Venezia 73 esplora un’ulteriore sfaccettatura dei generi, approdando a western con tanto di duello tra pistoleri sul terreno polveroso della via antistante al bordello cui è affidato un ruolo cruciale nell’intreccio narrativo. Le numerose ed esplicite scene di violenza rappresentano indubbiamente una delle cifre più caratterizzanti del film, anche se non sempre conferiscono un reale valore aggiunto a quel viaggio nella desolazione umana del West che forse il regista olandese intraprende con qualche punta di eccesso di zelo.

L’impressione complessiva è quella di un racconto ridondante, non solo per la durata di 148 minuti, ma anche per la tendenza a sovraccaricare il filo rosso di una storia che diviene difficile da rinvenire quando il film volge al termine.

Non basta l’elegante citazione de La pietà di Michelangelo e, più in generale, l’evidente ricerca estetica che pervade tutto il film. Così come non basta la solidità del cast, con le convincenti interpretazioni di Guy Pearce, Dakota Fanning, Emilia Jones (nel ruolo di Liz da adolescente) e il cammeo di Kit Harington e Carice van Houten, provenienti direttamente da Il trono di spade.

Brimstone, malgrado la durata, resta un’opera per molti aspetti incompiuta, che non riesce nell’impresa, centrata da Arrival con la fantascienza, di muovere dalle costanti del genere per poi superarle in maniera originale.

data di pubblicazione: 04/09/2016







AMERICAN ANARCHIST di Charlie Siskel, 2016

AMERICAN ANARCHIST di Charlie Siskel, 2016

 (73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

The Anarchist Cookbook” è il noto “manuale del perfetto rivoluzionario”, con tanto di ricette per la fabbricazione domestica di ordigni esplosivi, che pare abbia rappresentato la lettura preferita degli attentatori che hanno insanguinato la democrazia americana negli ultimi decenni. William Powell prova a spiegare cosa significhi essere l’autore di quel libro.

Le stragi più sanguinarie che hanno ferito (in senso non solo materiale) la democrazia americana negli ultimi decenni, dal massacro alla Columbine High School agli ultimi delitti targati ISIS, parrebbero svelare un minimo comun denominatore. Molti degli attentatori erano in possesso di una copia di The Anarchist Cookbook, libro scritto da William Powell e pubblicato nel 1970. Una sorta di “manuale del perfetto rivoluzionario”, in cui, accanto al manifesto ideologico di chi si faceva portavoce della controcultura in grado di salvare il mondo, figurano ricette illustrate in grado di spiegare, in maniera accessibile anche ai meno esperti, come fabbricare esplosivi o realizzare sabotaggi. Un caso letterario e politico capace di andare ben oltre la contingenza del ’68, anche grazie alla moltiplicazione esponenziale assicurata dal web e dalla facilità di acquisto garantita da Amazon.

In American Anarchist, presentato fuori concorso alla 73. Mostra di Venezia, Charlie Siskel dà voce proprio all’autore William Powell, morto qualche mese fa (luglio del 2016). L’uomo a volte ironico e a volte smarrito che compare sullo schermo sembra del tutto diverso, persino nello sguardo, dal ragazzo di 19 anni che, imbevuto di ideali e di speranze, credeva nella necessità di “fare la rivoluzione”. Prova rimorso per quello che ha scritto e per come lo ha scritto, ma non ha posto fine alla distribuzione del libro nel momento in cui avrebbe potuto ritirarlo definitivamente dal mercato. Non si sente responsabile delle stragi compiute, ma non può negare di avvertire la responsabilità e il vero e proprio rimorso (che è cosa diversa dal rimpianto) per uno strumento che si è prestato a un uso distorto. Chi scrive un libro non è certamente assimilabile a chi commette una strage, per quanto le parole si sono rivelino spesso armi potenti quando si tratta di giustificare la violenza. Le bombe fabbricate secondo le ricette di Powell hanno fatto vittime anche nelle scuole: nella sua “seconda vita”, per una sorta di curioso e crudele paradosso, Powell si dedica proprio all’insegnamento, specie a favore di quei “ragazzi difficili” che hanno trovato nel suo manuale il mezzo per comunicare con una società poco inclusiva nei loro confronti.

American Anarchist può essere osservato da almeno due prospettive. Focalizzando l’attenzione unicamente sul contenuto, si tratta indubbiamente di una storia che merita di essere raccontata, non solo perché sconosciuta al grande pubblica, ma perché offre la possibilità di rileggere criticamente un passato ancora molto recente. Volgendo invece lo sguardo al contenitore, sembra difficile scorgere un prodotto cinematografico capace di andare oltre la (pur interessante) intervista corredata da (ancor più interessante) materiale di repertorio.

Sembra in ogni caso condivisile la scelta di offrire a un documentario di questo tipo una vetrina tanto prestigiosa come quella di Venezia. Resta però un interrogativo: se The Anarchist Cookbook fosse stato il manifesto di un’ideologica esattamente speculare a quella “sessantottina”, si sarebbe trattato di un’operazione altrettanto “digeribile”?

data di pubblicazione: 02/09/2016







ARRIVAL di Denis Villeneuve, 2016

ARRIVAL di Denis Villeneuve, 2016

(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)

A seguito di un’invasione aliena, la linguista Louise Banks si vede affidato l’arduo compito di decifrare il modo di comunicare, e quindi di essere, delle misteriose creature atterrate sul pianeta Terra.

12 oggetti non identificati approdano in luoghi molto distanti del globo terrestre, gettando le popolazioni e i rispettivi capi di Stato in una condizione mista di sconcerto e terrore. Sembrerebbe l’ennesima storia dell’ennesima invasione aliena quella raccontata da Arrival, ma il film di Denis Villeneuve riesce a sorprendere una Mostra di Venezia perennemente oscillante tra storie rivolte al passato oppure proiettate verso il futuro, ma unificate dal comune intento di veicolare una riflessione sul presente.

Difficile comprendere quale sia l’intento che ha spinto le strane e inquietanti creature ad approdare sulla Terra. Difficile comprendere addirittura se le strane creature riescano a decifrare il concetto di “intento”. Per ottenere delle spiegazioni che mettano a tacere l’ansiosa fame di risposte da parte di un mondo che si sente sotto assedio per il solo fatto di non conoscere i propri ospiti, bisogna dapprima individuare un codice che consenta una comunicazione tra “umani” e “non umani”, mettendo a punto un alfabeto, una grammatica e una sintassi condivisi. Proprio per questa ragione il Colonnello Weber (il premio Oscar Forest Whitaker) decide di affidarsi alla linguista Louise Banks (la convincente Amy Adams, a Venezia anche con Nocturnal Animals), affiancata dallo scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner).

Il linguaggio, del resto, non solo è alla base di ogni convivenza “civile”, ma incide sui centri maggiormente attivi del cervello, influenza il modo di pensare dell’essere umano e il suo rapportarsi alle coordinate spazio-temporali di riferimento. Non resta che decifrare il modo di comunicare, e quindi di essere, dei nuovi arrivati.

Louise, sforzandosi di restare impermeabile alle logiche di quelle istituzioni da cui pure è stata reclutata, intraprenderà un viaggio alla scoperta delle nuove creature e, in definitiva, di se stessa.

Linearità e circolarità del tempo, necessità e libertà nel progredire della vita di ognuno: sono alcuni dei temi che, anche grazie a una sceneggiatura accurata e convincente, il progressivo dialogo con gli extraterrestri riesce a portare in primo piano. Sullo sfondo, ma sempre ben visibile, resta il tema così eterno eppure così attuale della necessità di comunicare e di restare uniti per evitare di restare sopraffatti dalla paura del “diverso”, posto le “incomprensioni” generano divisioni, caos e, quindi, guerra.

L’impressione complessiva è quella di un film che, pur ripercorrendo alcuni dei più consolidati stilemi del cinema fantascientifico, riesce a imporsi per originalità e consapevolezza anche a un pubblico esigente come quello del Lido.

data di pubblicazione: 02/09/2016