da Antonella Massaro | Ott 16, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
La storia raccontata da The Birth of a Nation sembra avere tutti i presupposti per lasciare un segno nella undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Nel 1831 lo schiavo nero Nat Turner, che fin da bambino è circondato dall’aura del predestinato, guida una rivolta degli schiavi oppressi dalle disumane condizioni di vita nelle sconfinate piantagioni di cotone della Virginia. Un rivolta che, sia pur soffocata nel sangue, rappresenta uno dei primi aneliti di libertà per il risveglio di un intero popolo.
Quando la natura di essere umano si trova degradata a un livello più infimo di quello riservato agli animali e alle cose, la vendetta sembra rappresentare un esito scontato. Nat sa leggere e, siccome i libri per i bianchi sono pieni di cose che lui non potrebbe capire, il suo testo di riferimento diviene la Bibbia. È un predicatore talmente bravo, che al suo padrone si chiede di portarlo “in tournée” nelle altre tenute per placare gli animi degli schiavi e per “incitarli all’obbedienza”, in nome del Signore. I testi sacri, però, comunemente “usati” per legittimare la condizione di schiavitù, possono essere letti anche in senso esattamente speculare. Se il Dio del Nuovo Testamento è misericordioso e amorevole, quello del Vecchio Testamento mostra un volto iracondo e vendicativo. Nat sente di essere uno strumento delle mani del Signore e accetta il sacrificio al quale si sente destinato: sono tante nel film le allusioni visive e narrative alla passione di Cristo.
La storia è segnata da un inevitabile crudezza rappresentativa e scandita da una fotografia che, enfatizzando tanto la poesia della natura (senza l’uomo) quanto il dolore dei corpi martoriati, gioca sapientemente con quell’alternanza tra bianco e nero che restituisce il senso dell’intero film. Indubbiamente convincente la prova del protagonista-regista Nate Parker.
Rievocando le atmosfere dei capisaldi del cinema epico più recente, da Braveheart a, ovviamente 12 anni schiavo, The Birth of a Nation, tuttavia,non riesce a sostenere il confronto con un genere indubbiamente complesso e ambizioso. Sebbene sia apprezzabile la messa da parte di ogni tono di solenne e utopica speranza, la sensazione di “già visto” penalizza un film al quale, in ogni caso, va riconosciuto il merito di aver dato voce a una “storia minore” che meritava di essere raccontata.
data di pubblicazione: 16/10/2016

da Antonella Massaro | Ott 16, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
Il motivetto scanzonato del tormentone portato al successo quindici anni fa da Valeria Rossi diviene il titolo di una storia semplice e complicata al tempo stesso. Semplice, perché una volta usciti dalla sala di proiezione basta guardarsi attorno per rendersi conto di quanto comuni siano le vicende raccontate da Daniele Vicari. Complicata, perché l’impotenza dei personaggi di Sole cuore amore somiglia molto a un sentiero senza vie d’uscita.
La riflessione sui tempi del precariato nel lavoro e nella vita è affidata alla storia di due donne, tanto amiche al punto da sentirsi sorelle.
Eli (Isabella Ragonese) è sposata con Mario (Francesco Montanari). Hanno quattro figli e un solo lavoro, quello di Eli, costretta a un’estenuante maratona di mezzi pubblici dall’alba fino al tramonto per raggiungere da Ostia un bar nel quartiere Tuscolano di Roma. Il puntuale ritardo degli autobus e le condizioni di lavoro in cui non c’è spazio per diritti e tutele iniziano a diventare un macigno troppo pesante, anche per le robuste spalle e il sorriso radioso di Eli.
Vale (Eva Grieco) ha lasciato la Facoltà di fisica per dedicarsi al mestiere di ballerina. Anzi, di performer, perennemente in bilico tra le esposizioni di arte moderna e le serate nei locali notturni. Tra una madre che prova imbarazzo per un lavoro che non considera tale, un padre morto “per colpa sua” e una sessualità che, come la sua vita, fatica a trovare una stabile collocazione, Eva sembra ricevere conforto dalla famiglia di Eli, offrendosi di spiegare ai suoi bimbi le equazioni e far aprire solo per loro le porte del parco giochi acquatico.
Sole cuore amore, affresco intriso di un realismo a tratti rassegnato, consegna al cinema italiano un’interessante riflessione su quegli ultimi che, almeno in terra, non arriveranno mai a essere primi. La sceneggiatura, tuttavia, indulge a qualche stereotipo di troppo, da cui deriva una scontata prevedibilità nello sviluppo dell’intreccio narrativo. Non è certo l’originalità la cifra che si ricerca in un film che pretende di raccontare la vita “comune”, ma da quei passi di danza che scandiscono dall’inizio alla fine il ritmo della storia, forse, ci si poteva aspettare qualche slancio più convinto e convincente.
Ottima la prova di Isabella Ragonese, perfetta mentre sostiene tanto le diverse anime del suo personaggio quanto i 113 minuti del film.
data di pubblicazione: 16/10/2016

da Antonella Massaro | Set 18, 2016
Quattro ragazze in viaggio verso Belgrado, l’età in cui tutto sembra possibile, il futuro carico di aspettative, il presente con le sue sfide da affrontare e superare.
Caterina (Marta Gastini) decide di accettare una proposta di lavoro a Belgrado. Sogna di diventare una scrittrice, ma l’occasione di indossare una lussuosa e ordinata divisa da cameriera, così distante dai suoi abiti di adolescente anticonformista, le si propone come il possibile momento di passaggio che la traghetterà verso l’età adulta. Dietro l’apparente corazza di ragazza forte, determinata e autosufficiente, Caterina nasconde tutte le fragilità e le insicurezze proprie di un’adolescente alle prese con la complessità della vita. Accoglie quindi con sollievo la decisione delle sue amiche di accompagnarla nel suo viaggio “di crescita”.
Liliana (Maria Roveran) sta per laurearsi, ma deve fare i conti con una sfida ben più impegnativa della tesi da preparare sotto la guida del suo tanto timido quanto affascinante professore (Filippo Timi). Cerca senza successo le attenzioni e il sostegno di sua madre Adria (Margherita Buy), una parrucchiera che sognava di diventare avvocato e che non riesce ad abbandonare il ruolo di eterna ragazza con le gambe ancora molto belle.
Angela (Laura Adriani) appare sospesa in una dimensione distante e per certi aspetti ovattata, lontana dagli eccessi di un padre (Sergio Rubini) a tratti imbarazzante e proiettata verso un futuro che brilla di speranza e che lei crede di intravedere attraverso le luci delle candele.
La comitiva è chiusa da Anna (Caterina Le Caselle), che dietro gli occhi sgranati di una bimba ingenua e sprovveduta, si sta preparando ad affrontare la sfida della maternità.
L’avventura on the road in direzione Serbia ha tutti gli ingredienti classici del viaggio di formazione in versione adolescenziale: amori e gelosie, intraprendenza e paure, rivelazioni e segreti, litigi e riconciliazioni.
Con Questi giorni Giuseppe Piccioni, che torna in concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia dopo Luce dei miei occhi, si cimenta con un nuovo affresco dell’universo femminile, riuscendo nell’impresa di amalgamare armoniosamente quattro personaggi e quattro attrici molto diversi tra loro. La prima parte del film risulta forse eccessivamente dilatata, con delle scelte di regia non sempre efficaci e una sceneggiatura scricchiolante sotto il peso dei 120 minuti complessivi: l’incontro con il fratello di Caterina, che ha scelto di diventare prete ma che non ha certo il piglio della guida spirituale, per esempio, appare un fuor d’opera che poco aggiunge all’intensità del racconto. Il climax seguito dalla parte centrale fino alla conclusione, restituisce invece tanto la complessità dei personaggi quanto l’autentico significato del viaggio intrapreso dalle protagoniste.
Non si rinviene nulla di particolarmente originale nel film di Piccioni, ma tra i messaggi che risuonano chiaramente sullo scorrere dei titoli di coda, c’è quello per cui avere qualcuno accanto nel momento delle sfide più difficili e dolorose da affrontare è una gran bella consolazione, perché, in fondo, soffrire insieme è meno noioso.
data di pubblicazione: 18/09/2016
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da Antonella Massaro | Set 11, 2016
Tommaso, incapace di ritrovare il bambino che è in sé e di crescere insieme a lui, cerca invano il proprio equilibrio in relazioni fallimentari, avvicinandosi a quelle donne da cui è al tempo stesso affascinato e ossessionato.
Tommaso (Kim Rossi Stuart) di mestiere fa l’attore, anche se sogna di dirigere un film tutto suo. In attesa di leggere un copione che gli appartenga davvero e di scrivere la storia che lo rappresenti del tutto, si sforza di trovare il proprio ruolo anche nella vita. Il suo complicato e inappagante rapporto con le donne è solo la spia del più generale senso di inadeguatezza che opprime il protagonista fino a quasi soffocarlo. Si relaziona al sesso opposto con strategie quasi puerili, è ossessionato dal corpo di donne sconosciute che, dalla farmacia fino al tram, popolano le fantasie erotiche più elementari, ma, quando quelle donne abbandonano il sogno e diventano compagne reali, non riesce a far altro che concentrarsi su insignificanti difetti dei loro corpi all’apparenza perfetti: i denti storti di Chiara (Jasmine Trinca) o il “ciccetto di carne” pulsante sulle labbra di Federica (Cristiana Capotondi) sono i pretesti di cui Tommaso di serve per “mettere le distanze” e tornare a rifugiarsi nel suo impenetrabile mondo.
Mario (Renato Scarpa), lo psicoanalista che raccoglie gli sfoghi di Tommaso, gli ripete ossessivamente che l’unica via per crescere è quella di cercare e ritrovare il bambino che era dentro di lui e che si è smarrito chissà dove.
La causa remota del disagio esistenziale di Tommaso, dipinto a tinte lievi che non di rado scolorano però in variazioni più cupe, non lascia spazio a letture originali: il rapporto in parte irrisolto con i genitori, a partire dall’opprimente figura della madre (Dagmar Lassander), cui si aggiunge il peso delle convenzioni e degli obblighi sociali. Tommaso cercherà di spogliarsi dei suoi vestiti grigi e marroni, giungendo però alla conclusione che per tornare bambini non serve o comunque non basta togliere la barba e indossare t-shirt e cappellino, come avviene durante la relazione con la giovane Sonia (Camilla Diana).
Dopo il felice esordio di Anche libero va bene, Kim Rossi Stuart torna dietro alla macchina da presa con Tommaso, presentato fuori concorso durante la 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che, viceversa, sembra per molti aspetti un esperimento non riuscito. I toni onirico-psiconalitici pervadono in maniera originale l’intero film, ma solo nel finale risultano davvero convincenti. La sceneggiatura rivela qualche debolezza di troppo e anche la recitazione di Kim Rossi Stuart, da sempre una prevedibile certezza, non appare del tutto impeccabile, specie in quei toni grotteschi e surreali che pure dovrebbero rappresentare una delle cifre caratterizzanti del film.
L’impressione è quella per cui Tommaso, malgrado Kim Rossi Stuart si sia affrettato a smentire ogni suggestione autobiografica, è un film che appartiene troppo al regista per essere davvero “suo”.
data di pubblicazione: 11/09/2016
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da Antonella Massaro | Set 11, 2016
La 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016, pur partita in tono dimesso e con qualche scelta di programma non del tutto convincente, si conclude con un bilancio ampiamente positivo.
L’edizione 2016 della Mostra è riuscita nell’intento di accostare generi molto diversi tra loro (dalla fantascienza al western, passando per il melò), ha strizzato l’occhio al grande pubblico con film “più facili” (come li ha definiti il Direttore Barbera) ma non ha rinunciato al cinema d’autore, ha ospitato cineasti presi a prestito dallo star system più luccicante senza però che il glamour abbia mai rubato la scena al Cinema.
Quanto alle novità più attese, sembra che l’apertura di Barbera alle nuove forme di sperimentazione dell’audiovisivo di qualità, a partire dalle prime due puntante della serie The Young Pope di Paolo Sorrentino, abbia superato ogni possibile scetticismo. La nuova Sala Giardino, invece, per la qualità delle sedute e degli strumenti di proiezione, si è mantenuta ben al di sotto delle aspettative della vigilia.
La cerimonia di premiazione che ha concluso Venezia 73, diretta da una magistrale Sonia Bergamasco, ha confermato le molteplici anime che hanno attraversato questa edizione della Mostra. Ecco i premi assegnati dalla giuria presieduta da Sam Mendes.
Il Leone d’oro vola tra le mani di Lav Diaz per The Woman Who, che dedica il premio al popolo filippino per la sua lotta e alla lotta dell’umanità, ma un emozionatissimo Tom Ford, che ringrazia in italiano quella che considera la sua seconda casa, si aggiudica il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria per Nocturnal Animals. Due mondi, due stili, due visioni del cinema per certi aspetti speculari salgono in rapida successione sul palco della Sala Grande.
Si registra un ex aequo per il Leone d’Argento per la miglior regia, assegnato a Amat Escalante per l’ambizioso La Región Salvaje e Andrei Konchalovsky per Paradise, nuova riflessione sul dramma dell’Olocausto.
La Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, contro tutti i pronostici che davano per favorita Natalie Portman e la sua Jackie, è andata a Emma Stone, per la sua impeccabile interpretazione nel roboante film d’apertura La La Land.
Oscar Martinez si aggiudica invece la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile nel raffinato El Ciudadano Ilustre.
Il premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente viene meritatamente consegnato a una felicissima Paula Beer, per il poetico Frantz.
La migliore sceneggiatura è infine quella di Jackie, firmata da Noah Oppenheim, mentre il premio speciale della giuria va a The Bad Bacth di Ana Lily Amirpour.
Non resta che concludere tenendo sempre a mente le parole di Oscar Martinez: non solo Venezia è un appuntamento di sicuro prestigio per il cinema mondiale, ma l’Italia, grazie alla costellazione di geni che ha partorito, è stata in grado di realizzare il miglior cinema del XX secolo. Dovremmo cercare di non dimenticarlo, specie quest’anno in cui il grande assente di Venezia pare essere stato proprio il cinema di casa nostra.
Arrivederci al 30 agosto 2017!
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Riportiamo qui di seguito gli altri premi assegnati.
La Giuria internazionale della sezione Orizzonti presieduta da Robert Guédiguian ha assegnato i seguenti premi:
- Premio Orizzonti per il Miglior Film: Liberami di Federica Di Giacomo
- Premio Orizzonti per la Miglior Regia: Fien Troch per Home
- Premio Orizzonti per la Miglior Sceneggiatura: Bitter Money di Wang Bing
- Premio Speciale della Giuria di Orizzonti: Koca Dünya di Reha Erdem
- Premio Orizzonti per il Miglior Cortometraggio: La Voz Perdida di Marcelo Martinessi
- Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Maschile: Nuno Lopes per São Jorge di Marco Martins
- Premio Orizzonti per la Miglior Interpretazione Femminile: Ruth Díaz per Tarde Para la Ira di Raúl Arévalo
La Giuria internazionale del Premio Venezia Opera Prima presieduta da Kim Rossi Stuart ha premiato:
- Akher Wahed Fina (The Last of Us) di Ala Eddine Slim
La Giuria della sezione Venezia Classici presieduta da Roberto Andò ha assegnato i premi seguenti:
- Premio Venezia Classici per il Miglior Film Restaurato: Break Up – L’Uomo Dei Cinque Palloni di Marco Ferreri
- Premio Venezia Classici per il Miglior Documentario sul Cinema: Le Concours di Claire Simon
data di pubblicazione: 11/09/2016
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