da Antonella Massaro | Dic 29, 2016
Un’avventura alla scoperta del mondo e di sé stessi, una riconciliazione con la propria “natura”, uno scenario mozzafiato impreziosito da colori roboanti e dalle meraviglie dell’animazione targata Disney.
All’origine dei tempi, quando non esisteva nient’altro se non la distesa infinita dell’Oceano, emerge dalle acque Te Fiti, l’isola madre che, irradiando la propria linfa vitale, offre alimento a tutte le altre isole. L’ordinato equilibrio cosmico è turbato un giorno da Maui, semidio che, rievocando alla mente dello spettatore le gesta mitologiche di Prometeo, decide di rubare il cuore di Te Fiti per donare agli uomini il potere per eccellenza: quello di creare la vita.
Dopo migliaia di anni la piccola Vaiana Waialiki muove i suoi primi passi curiosi sulle spiagge della dell’isola polinesiana di Motunui. Viviana è la principessa dell’isola. Anzi, è la figlia del capo, destinata a guidare una comunità che, immobile in un equilibrio solo in apparenza rassicurante, ripone nella giovane donna tutta la sua fiducia. Nessun abitante dell’isola può spingersi al di là del Reef, la “frontiera” segnata dall’Oceano che delinea il limite delle acque sicure, ma Vaiana è inconsciamente consapevole del fatto che il suo destino la aspetti ben oltre quella linea ideale.
Quando le noci di cocco non restituiscono più il loro frutto e il pesce inizia a scarseggiare, risulta chiaro che la condizione di statica pace che avvolge l’isola è destinata a infrangersi, a meno che
La nonna paterna di Vaiana, assumendo il ruolo di Virgilio del viaggio che di lì a poco sua nipote sarà chiamata a compiere, le indica la via da seguire: Vaiana, solcando i sentieri dell’Oceano, dovrà mettersi alla ricerca di Maui e restituire a Te Fiti il cuore perduto.
La non-principessa diviene quindi la protagonista di un viaggio di scoperta e di iniziazione, che, seguendo anche il fil rouge della fiaba ecologista, la condurrà ben oltre le Colonne d’Ercole del Reef.
Non sembra che la pretesa rivoluzione femminista portata avanti dalla Disney con le sue moderne (non) principesse sia il tratto più caratterizzante di Oceania. Vaiana è indubbiamente una principessa che, come Mulan o Elsa, non ha bisogno del valoroso principe azzurro per completarsi e realizzare le sue aspirazioni, ma questa circostanza, di per sé sola, non dovrebbe più costituire motivo né di sorpresa né di discussione. Quello che invece colpisce in Oceania è l’assenza di una dimensione autenticamente corale, che, pur senza oscurare il bagliore dell’eroe protagonista, riesce solitamente, nei film Disney, ad andare ben oltre la dimensione di un contorno non indispensabile. I personaggi della nonna e di Maui sono indubbiamente ben tratteggiati, ma Vaiana, con il suo individualismo eroico sempre ben in evidenza, resta la protagonista indiscussa e indiscutibile della storia. Neppure i “cattivi” riescono a rappresentare una reale alternativa (sia pur temporanea) alla stella di Vaiana, che splende incontrastata e senza reali momenti di crisi per l’intera durata del film.
Oceania resta in ogni caso uno dei cartoons Disney più riusciti degli ultimi anni (insieme, forse, a Rapunzel). Le impeccabili scelte di animazione offrono uno spettacolo sfavillante e sontuoso agli occhi dello spettatore, restituendo tutta la magnificenza di una Natura che si fonde armoniosamente con la rispettosa presenza dell’Uomo.
Una curiosità. Il titolo originale del film è Moana, che è anche il nome della protagonista nella versione americana della fiaba. Molti Paesi europei hanno però optato per un titolo e un nome diversi. La metamorfosi di Moana in Vaiana, più esattamente, sarebbe dovuta all’eccessiva fama di Moana Pozzi, eroina protagonista di imprese di ben altro genere, che avrebbe (lei sì!) offuscato in maniera imbarazzante la fama della novella (non) principessa Disney. Nomen omen.
Data di pubblicazione: 29/12/2016
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da Antonella Massaro | Dic 9, 2016
Louis è gravemente malato e per questo decide di far visita alla sua famiglia, che non vede da circa dodici anni. Il suo ritorno a casa turberà un equilibrio che forse non è mai esistito.
“Un po’ di tempo fa, da qualche parte”, Louis (Gaspard Ulliel), scrittore teatrale giovane e talentuoso, sale su un aereo per fare ritorno a casa. Gli resta poco da vivere e vuole incontrare la sua famiglia, che non vede da dodici anni, per dare l’annuncio della sua morte e per avere l’impressione di essere padrone, fino alla fine, della propria vita.
Durante la sua lontananza Louis ha mandato segnali attraverso puntuali ma scarne cartoline, infarcite di quelle che a casa chiamano “frasi ellittiche”: brevi parole di circostanza, che anche i postini possono leggere e che non comunicano nient’altro se non l’assenza di chi le scrive.
Il ritorno a casa del “figliol prodigo” viene accolto con un misto di strabordante eccitazione e di malcelato risentimento. Louis si vedrà costretto ad affrontare veri e propri duelli, verbali ed emotivi, con ciascuno dei suoi familiari, desiderosi di scendere nell’arena con lui per un chiarimento, per ricordare insieme il passato, per carpire dalle sue scarse parole e dal suo sorrisetto enigmatico cosa accadrà nel futuro, o anche solo per abbracciarlo.
La madre Martine (Nathalie Baye), il fratello Antoine (Vincet Cassel), la sorella Suzanne (Léa Seydoux), la cognata Catherine (Marion Cotillard): tutti avrebbero qualcosa da dire, ma nessuno riesce né a parlare né ad ascoltare, perché, forse, nessuno è realmente capace né di parlare né di ascoltare. Le parole si susseguono con un ritmo a metà strada tra l’isterico e il bulimico e le urla lasciano uno strascico di incolmabile silenzio tra chi pare legato solo da un sia pur incancellabile vincolo di sangue.
Basato sull’omonima piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce, il nuovo film dell’enfant prodige Xavier Dolan, già incoronato con il Grand Prix a Cannes 2016 e in corsa come miglior film straniero per gli Oscar 2017, resta forse leggermente al di sotto delle aspettative. È indubbiamente un film sull’incomunicabilità e sull’incomprensione, che tuttavia risultano esasperate a tal punto da coinvolgere anche lo spettatore, avvolto da un vortice di dialoghi che rischiano di sfiorare in più punti un livello di pericolosa stucchevolezza. Anche gli intermezzi affidati ai flash back, relativi alle domeniche che la famiglia ancora felice era solita trascorrere insieme o all’adolescenza tumultuosa di Louis, si arrestano spesso al livello del banale “già visto”.
La regia, prodiga di primi e primissimi piani che scavano dentro i personaggi, e la fotografia, pronta a sottolineare efficacemente alcune delle più significative svolte narrative, sono ovviamente impeccabili. Così come convincente risultano tanto il cast, già strepitoso “sulla carta”, quanto la sempre adeguata colonna sonora.
L’inquadratura del “faccia a faccia” tra madre e figlio, però, che rievoca quello celebre di Mommy, non riesce ad andare oltre la suggestione estetica rispetto a un film dotato di ben altro spessore emotivo e narrativo.
Data di pubblicazione: 9/12/2016
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da Antonella Massaro | Dic 8, 2016
Daniel Mantovani, premio Nobel per la letteratura, decide di tornare dopo quarant’anni nel piccolo paese Argentino in cui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Anche uno scrittore di successo come lui sarà costretto ad arrendersi alla tanto banale quanto inconfutabile evidenza per cui “ancora una volta la realtà supera la fantasia”.
Daniel Mantovani (Oscar Martínez, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Venezia 73) è uno scrittore argentino che ha scelto di abbandonare il suo piccolo e provinciale paese di origine in Argentina e ha coltivato in Europa la passione per la scrittura. Giunge persino a tagliare il traguardo del premio Nobel per la letteratura. Il suo discorso a Stoccolma è quello di un intellettuale che crede nell’arte come fattore di “disturbo” e di contestazione, ma che non può fare a meno di provare un appagante e narcisistico orgoglio per aver conseguito uno dei massimi riconoscimenti a livello mondiale.
Daniel riceve decine di prestigiosi inviti da ogni parte del mondo, che non ha alcuna intenzione di accettare o di onorare una volta accettati. Uno di quegli inviti, tuttavia, ha un sapore differente. Arriva attraverso “una lettera di carta” e il mittente è proprio il Sindaco di Salas, il suo paese natio, che vorrebbe ospitarlo per conferirgli l’onorificenza di “cittadino illustre”, il più alto titolo che la piccola comunità possa attribuire a uno dei suoi componenti.
Si tratta del luogo in cui Daniel ha ambientato tutte le sue opere letterarie, quel paese da cui i suoi personaggi non hanno mai avuto il coraggio di andar via e in cui lui non ha mai trovato, in quarant’anni, il coraggio di tornare. Dopo qualche indecisione, decide di salire su un aereo per l’Argentina. Da solo. Forse per ritrovare l’ispirazione che sembra appannata. Forse per regolare i conti con il passato. O forse con il solo scopo di non avere scopo alcuno.
Arrivato a destinazione, lo scrittore si vede ben presto costretto a scendere dall’Olimpo dei vezzi e delle richieste da star, per mescolarsi alla “gente comune”, ai loro ritmi, alle loro manifestazioni culturali (o pretese tali), alle cerimonie di dubbio gusto, alla curiosità “da telefonino”, agli alberghi che sembrano usciti da un film rumeno e che non dispongono di un letto con materasso in lattice.
La morale ha il sapore di un intramontabile luogo comune: la realtà supera sempre ogni più fervida fantasia. Senza contare che (altro topos sufficientemente esplorato dal cinema e dalla letteratura) non sempre la “gente rustica di campagna” è depositaria della rassicurante genuinità di valori incontaminati, posto che le comunità ristrette e lontane dalla rutilante corruzione cittadina possono rappresentare un nido in grado di proteggere, ma anche una trappola capace di soffocare.
Il film di Duprat e Cohn, però, è in grado di cogliere il senso più profondo di questi luoghi comuni. I toni narrativi si muovono lungo una pluralità di registri sempre sapientemente amalgamati, che restituiscono in maniera efficace la complessità del personaggio interpretato da Oscar Martínez: un cinico che cede ai buoni sentimenti, un artista travagliato che guarda con favore alla rassicurante quotidianità della gente “normale”, uno scrittore che vorrebbe cambiare la realtà ma che in quella realtà finisce per rimanere intrappolato. Persino la gente di Salas fatica a distinguere i personaggi dei romanzi di Mantovani dai loro concittadini, rendendo fitta e appassionante la trama in cui diviene sempre più complicato tracciare una marcata linea di confine tra l’immaginazione e il reale.
Il cittadino illustre è il film scelto dall’Argentina per la corsa all’Oscar come miglior film straniero.
Data di pubblicazione: 7/12/2016
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da Antonella Massaro | Dic 4, 2016
Il Comandante Chesley “Sully” Sullenberger è alla guida di Airbus della “Us Airway”, che, appena dopo il decollo, perde entrambi i motori. Compiendo una manovra apparentemente folle e temeraria, realizza un ammaraggio sul fiume Hudson, portando in salvo le 155 persone a bordo del suo aereo. Sully è un eroe o solo un pilota sconsiderato?
Dopo il controverso e discusso American Sniper, Clint Eastwood torna a celebrare le glorie di “un comune eroe americano”, mescolando elementi del biopic e quelli del disaster film.
La storia raccontata da Sully è tratta da un episodio reale, balzato prepotentemente agli onori della cronaca qualche anno fa.
Il 15 gennaio 2009 un Airbus della “Us Airway” decolla dall’aeroporto La Guardia di New York con 155 persone a bordo. Un bird strike (l’impatto con uno stormo di uccelli) determina il repentino spegnimento di entrambi i motori. Nei pochi secondi che segnano il confine tra la vita e la morte, il Comandante Chesley “Sully” Sullenberger (Tom Hanks), assistito dal suo copilota Jeffrey Skiles (Aaron Eckhart), decide di tentare l’impossibile: una manovra di ammaraggio sul fiume Hudson. L’esito della manovra tanto spettacolare quanto priva di precedenti assume il sapore del miracolo: tutti riescono a mettersi in salvo, anche grazie a un’efficiente macchina dei soccorsi attivatasi in tempi rapidi per strappare i passeggeri dalla morsa delle acque quasi ghiacciate.
Mentre la gente “comune” celebrano il suo “eroe”, si apre però un’indagine interna alla National Transportation Safety Board (NTSB), volta ad accertare possibili responsabilità di Sully per aver messo inutilmente a rischio la vita dei passeggeri e del resto dell’equipaggio attraverso una manovra d’emergenza a dir poco temeraria.
Anche la sfida raccolta da Clint Eastwood con Sully non era certo dall’esito scontato: il miracoloso ammaraggio dell’Hudson è una storia già conosciuta al grande pubblico, che lascia ben poco spazio a divagazioni di tipo narrativo. Sembra però che Eastwood abbia vinto la sfida. I lunghissimi minuti trascorsi in cabina sono raccontanti da prospettive differenti, restituendo pienamente l’impressione di un dubbio che si insinua anche tra quelle che parrebbero le certezze più indiscutibili. Persino Sully, uomo tutto d’un pezzo, che ha fatto del suo mestiere la sua vita (o della sua vita il suo mestiere), sembrano a un certo punto vacillare, sotto il peso di una decisione in cui il “fattore umano” diviene più rilevante di qualsiasi checklist. Sullo sfondo c’è un’America desiderosa di superare le paure dell’11 settembre, attribuendo finalmente a un aereo che volta a bassa quota le vesti di un sogno che sa di speranza anziché quelle di un incubo dal retrogusto di disperazione.
Tutto il film è sostenuto da un ritmo narrativo adrenalico e risulta impressionante la verosimiglianza con la quale Clint Eastwood è riuscito a ricostruire lo scenario dell’ammaraggio.
L’enfasi retorica, per quanto perfettamente aderente al genere, risulta a volte eccessiva, mentre i personaggi, specie quello interpretato da un magistrale Tom Hanks, rischia di risultare ingessato in una monoliticità che lascia uno spazio troppo angusto alle sfumature.
data di pubblicazione: 4/12/2016
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da Antonella Massaro | Nov 21, 2016
Una storia di amore e di amicizia tra un artista di strada e un gatto rosso. Una storia sulla forza dei sentimenti. Una storia sulla possibilità di risurrezione e di riscatto.
A spasso con Bob porta sul grande schermo la storia vera di James Bowen, già divenuta famosa per il grande pubblico a seguito del successo dell’omonimo racconto letterario edito da Sperling & Kupfer (titolo originale A Street Cat Named Bob, un milione di copie vendute in Inghilterra e traduzione in in trenta lingue), seguito da altri capitoli della “saga” di James e Bob.
James (Luke Treadaway) ha 27 anni, un passato familiare complicato e un presente segnato dalla dipendenza all’eroina. Si aggrappa con forza alla sua chitarra e alla sua musica, che rappresentano l’unico appiglio in grado di evitare la definitiva caduta nel baratro, tra le viscere delle strade di una Londra capace di trasformarsi in un insidioso percorso a ostacoli per chi è costretto a frugare nella spazzatura pur di svegliarsi la mattina successiva.
Il programma di recupero, il metadone, la solitudine e l’isolamento; poi, finalmente, un’assistente sociale che decide di “scommettere” su James assegnandogli un alloggio popolare. Una finestra lasciata aperta di notte nella sua nuova casa diviene la porta attraverso cui un gatto rosso (il vero Bob, nel ruolo di se stesso) decide di fare irruzione nella vita di James. È affamato, porta sul corpo i segni della strada, non ha una casa: è insomma l’alter ego felino di James.
Le due solitudini si incontrano e si sostengono vicendevolmente. Bob accompagna James nelle sue esibizioni e all’improvviso le strade di Londra divengono più luminose. I passanti sono incuriositi e affascinati dalla strana coppia, le offerte divengono più consistenti, i due nuovi amici possono permettersi una spesa al supermercato che sia degna di questo nome. Bob diviene l’angelo custode di James, che a questo punto trova il coraggio di munirsi di ali per ricambiare il favore. Sia pur con inevitabili difficoltà, James intraprende la via del cambiamento ed esce vittorioso dalla sua battaglia con la vita.
Se si dovesse giudicare A spasso con Bob con il metro esclusivo dell’opera cinematografica, dovrebbe probabilmente rilevarsi il limite di una favola che, sebbene non rinunci alla rappresentazione a volte cruda del dramma della tossicodipendenza, resta troppo spesso in superficie, frenata dalla prevedibilità di certi stereotipi narrativi più vicini alla televisione che al cinema.
Se però si guarda il film di Roger Spottiswoode attraverso il filtro della “storia vera” e, soprattutto, attraverso gli occhi del vero Bob che mostra doti di attore consumato mentre resta saldamente ancorato alle spalle di James e batte il cinque con tenera disinvoltura, allora il giudizio razionale lascia il posto a quello emotivo e A spasso con Bob assume la consistenza di un inno all’amore, alla speranza e alla possibilità di riscatto.
data di pubblicazione: 21/11/2016
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