LE SORELLE MACALUSO di Emma Dante

LE SORELLE MACALUSO di Emma Dante

Corpo a anima il teatro di Emma Dante. Ombre e luci, tenebre e colori, frastuono e silenzio, scherzo e tragedia, vita e morte ne Le sorelle Macaluso. Una storia come tante raccontata in modo unico. Con quell’impeccabile unicità che solo chi ha guardato in faccia l’arte è in grado di far intravedere al suo pubblico. Una famiglia. Delle visioni parziali che lentamente si ricompongono in unità. Le parole non dette finalmente urlate. Ognuno ha un posto assegnato, nella scena e nella vita. Ognuno si porta dietro il suo carico di senso di colpa (che in qualche caso è mera responsabilità oggettiva!), il suo rancore, la sua frustrazione. In una parola: la sua vita. Quella vita in cui si combatte, con tanto di spade e scudi, quella vita in cui si gioca, si soffre, si canta, si piange, si danza. Siamo liberi, eppure attaccati a fili invisibili che ci fanno muovere come tanti pupi siciliani. Siamo insieme, eppure confinati in un inespugnabile solipsismo eterodiretto, con l’impressione che alla fine siano sempre “gli altri” a emettere la condanna alla nostra solitudine. Senza possibilità d’appello. Senza poter più fermarsi a contemplare il sole che brilla sul mare. Con la capacità di guardare davvero il cielo quando ormai siamo definitivamente finiti dietro le sbarre. Senza indulto e senza amnistia.

Non c’è scenografia, i cambi di costume avvengono sulla scena, la fisicità degli attori travolge lo spettatore che, nel buio del Palladium, si affida senza riserve a quella “sospensione dell’incredulità” grazie alla quale il teatro (e il cinema) divengono affascinante anello di congiunzione tra la realtà e il sogno.

data di pubblicazione 15/10/14


Il nostro voto:

VIAGGIO SOLA di Maria Sole Tognazzi, 2013

VIAGGIO SOLA di Maria Sole Tognazzi, 2013

Il viaggio come metafora della vita è la chiave di lettura lapalissianamente esibita nel film di Maria Sole Tognazzi. C’è poco da interpretare nelle intenzioni dell’(ex) enfant (mai davvero) prodige, che dismette i panni dell’intellettuale a tutti i (radical) costi per confezionare un prodotto che, pur senza eccessive pretese, si rivela nel complesso garbato, a tratti piacevole, con improvvisi e taglienti guizzi nei dialoghi, con una Margherita Buy in splendida forma, fisica e artistica. Forse non meritava proprio tutti i finanziamenti pubblici che scorrono nei titoli di testa, ma l’elegante confezionamento dei titoli di coda, al quale va riconosciuto l’impagabile merito di impedire che le luci in sala si alzino prima della FINE del film, assolve persino il peccato originale di un’Italia che proprio non può fare a meno di cedere alle lusinghe del (cog)nome d’arte.

Margherita-Ulisse-Buy “vive” nei più lussuosi alberghi del mondo, senza mai fermarsi in una “casa” tutta sua, senza mai provare a costruirsi un Mulino Bianco decrepito e abbandonato, ma protetto e nascosto da solide pareti, ispessite dalla rassicurante fissità delle convenzioni sociali. È ospite sporadica nelle case (e nelle vite) degli altri. È spettatrice di una normalità che la affascina e la spaventa, la attrae e la respinge. Questa casa non è un albergo. Questo albergo non è una casa. Questo albergo è un palcoscenico. Basta indossare la maschera e recitare un ruolo. Lo fanno tutti in fondo. Solo che lei ne è fin troppo consapevole e non trova nulla di meglio da fare che recensire il ruolo degli altri, affidando la sua tagliente critica a ossessivi questionari, pieni zeppi di dettagli che non fanno la differenza.

Fino a quando la casa irrompe nell’albergo, le assi del palcoscenico scricchiolano facendolo sprofondare nella vita. E allora una mamma torna a essere una zia. Una donna libera torna a essere una donna sola.

I personaggi che orbitano attorno agli occhi verdi di Margherita Buy sono appena abbozzati, rientrando fin troppo bene in quegli stereotipi che in fondo accolgono con straordinaria generosità chiunque ne faccia richiesta. L’ozpektiano duo delle meraviglie Buy-Accorsi cerca di ricomporsi, nella locandina e nello schermo. Anche se non sono più i tempi di una volta.

Nulla di nuovo, poco di originale. Ma l’assillante interrogativo Chi avviserebbero se mi succedesse qualcosa?, in fondo, si insinua nella mente dello spettatore anche se scevro (o forse soprattutto perché scevro) dalle cedenze retoriche dell’intellettuale a tutti i (radical) costi.


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MIELE di Valeria Golino, 2013

MIELE di Valeria Golino, 2013

(Festival di Cannes 2013, Sezione Un Certain Regard)

Valeria Golino passa dall’altra parte della macchina da presa con un film dolcemente amaro (o amaramente dolce), come il retrogusto di un certo Miele che impatta, abbondante e improvviso, sulle pareti di un palato inaridito, la cui unica missione è quella di prepararsi ad assaporare il gusto della fine.

Il film, ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro (pseudonimo di Mauro Covacich), si confronta con un tema che smuove e commuove, inquadrato da Valeria Golino da una prospettiva certamente non convenzionale e raccontato con un linguaggio “laico”, che pure riesce a mettere a fuoco in modo straordinariamente preciso i nodi ancora irrisolti della dolce morte, tanto come questione morale quanto come questione giuridica.

Una superba Jasmine Trinca, trasformata nel corpo e nell’anima, indossa (letteralmente) i panni di un pietoso Angelo della morte, ma l’incontro con l’ingegner Grimaldi (interpretato da un impeccabile Carlo Cecchi), malato “solo” nell’anima, fa deflagrare in maniera assordante quei dubbi che da tempo accelerano il battito del cuore di Miele.

Da una parte una questione che non è (solo) giuridica, ma che la legge non può più permettersi di ignorare: uno spazio libero dal diritto troppo spesso riempito dall’incontrollabile arbitrio dell’opportunità morale. Dall’altra parte l’indefinibile confine tra la vita del corpo e quella dell’anima: l’illusione della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché siamo sempre in tempo per fermarci ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”.

L’immancabile trauma infantile subito dalla protagonista e la forse troppo ingenua scena finale non compromette la solida tenuta di un promettente esordio.

Giudizio sintetico: Miele che non smiela.


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IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, 2013

IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, 2013

Paolo Virzì torna al cinema con un film corale, che parla di new economy per raccontare l’Italia di sempre, rappresenta la crisi di quel capitale umano che nessun esperto di finanza sarà mai in grado di monetizzare e di mettere a bilancio.

La storia è al tempo stesso una e trina, con i diversi capitoli che, dipanandosi dall’incidente iniziale, fanno muovere sulla scena tanti burattini tenuti in piedi da sentimenti da “dilettanti” allo sbaraglio (come urla Luigi Lo Cascio), con la perenne paura di diventare attori professionisti di una vita dal copione troppo impegnativo per essere recitato come pure meriterebbe.

Malgrado qualche inserto gratuitamente retorico, a partire dall’usurata metafora del teatro in declino e in attesa di un’utopica ristrutturazione, Virzì resta il solito perfetto burattinaio nel dirigere gli abitanti di quel teatro decadente.

I buoni sentimenti prepotentemente trionfanti nel buio degrado di un carcere, mentre intorno la neve si scioglie e il sole lascia brillare le carrozzerie fuoriserie e i sorrisi di chi, quando gli affari vanno bene, si accontenterebbe anche del bastoncino di un cane, concludono il capitolo finale con un happy end tanto amaro quanto ingenuo e obiettivamente poco credibile.

Giudizio sintetico: avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto.


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IO E TE di Bernardo Bertolucci, 2012

IO E TE di Bernardo Bertolucci, 2012

Bernardo Bertolucci torna in sala con un film “fatto in casa”: una cantina, due attori esordienti, Roma che fa da sfondo divenendo fin da subito un ingrediente indispensabile della scena. Il tutto legato aristotelicamente da un’unità di spazio, tempo e azione, che guida lo spettatore nell’avvicendarsi di quei sette giorni normali e al tempo straordinari. Perché “normale è niente”, ma un abbraccio è tutto.

La storia si distacca in qualche punto dal racconto di Niccolò Ammaniti, ma la trasposizione filmica dei due protagonisti, interpretati da Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco, è quasi perfetta. I due ragazzini recitano senza recitare, mettendo a nudo le loro anime nella cantina che diviene la loro casa.

La cantina, dove si accumula sotto la polvere un passato destinato qualche volta a tornare, dove si abbandonano cose che non servono più e che in fondo sono le uniche si ha veramente bisogno, dove il disordine esteriore è la via per ritrovare quell’ordine interiore che difetta anche nelle case più splendidamente arredate. Un mondo nel mondo, così vicino eppure così distante da quello “normale”. La macchina da presa si muove guidata da una mano che sa quello che cerca: di tanto in tanto lo sguardo si perde nella vertigine di palazzi così alti da schiacciare chi abbia l’ardire di alzare gli occhi al cielo, per poi tornare sulla rassicurante fissità di quel vialetto che, come il binario 9 ¾ di Harry Potter, nasconde la porta d’accesso a un modo al quale solo chi non è perfettamente “normale” ha il privilegio di accedere. Lei a un certo punto balla da sola. Poi si accorge che in quel momento è sola, anche se solo per un momento.

Giudizio sintetico: il vero Maestro è colui che ha sempre qualcosa da insegnare.


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