THE LEISURE SEEKER di Paolo Virzì, 2017

THE LEISURE SEEKER di Paolo Virzì, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

 

L’amore di fronte alla sofferenza e alla vecchiaia: Ella e John, in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte, a bordo del fedele Leisure Seeker per continuare a scrivere insieme il romanzo della loro vita insieme.

Ella e John (Helen Mirren e Donald Sutherland) spariscono dalla casa di Wellsley (Massachusetts) a bordo del fedele Leisure Seeker (letteralmente “cercatore di svago”), il camper che li ha guidati attraverso le vacanze della gioventù. È un caravan malandato, spossato dall’implacabile scorrere del tempo, ma ancora desideroso di divorare la Route 1 della East Coast. La destinazione, del resto, vale lo sforzo: Key West, casa di Ernest Hemingway, lo scrittore che John, professore di inglese, ama in maniera incondizionata e viscerale.

La mente di John non è più lucida come una volta: dimentica nomi e persone, sprofonda spesso nel passato confondendolo con il presente, “tornando” da sua moglie solo in rari e meravigliosi momenti regalando solo in rari momenti ad Ella il suo sorriso si illumina all’improvviso. Ella è malata di cancro: le invasive e dolorose terapie cui dovrebbe sottoporsi possono solo rallentare il decorso di una malattia giunta a uno stadio troppo avanzato perché possa essere sconfitta.

Ella decide di scegliere. Si è liberi (anche liberi di scegliere) quando non si ha nulla da perdere. Sceglie allora di esaudire il desiderio di John e di guidarlo fino alla residenza di Hemingway, senza permettere a nessuno, neppure ai suoi figli, di impedire che Leisure Seeker si metta in moto per una nuova avventura. Il risultato è un road movie che richiama inevitabilmente alla mente La pazza gioia, ma il primo film americano di Paolo Virzì è ancora più intimo, intenso, commosso e commovente. Il viaggio, come al solito, diviene lo strumento che consente ai due protagonisti di guardare negli occhi la vita trascorsa (insieme), bloccato in quelle diapositive in bianco e nero che Ella proietta la sera per esercitare la memoria di John. Helen Mirren e Donald Sutherland sono semplicemente strepitosi. La prima restituisce pienamente la forza e la fragilità di una donna decisa a non lasciare che la malattia annienti anche la sua dignità, il secondo indossando la maschera dell’alter ego entro cui la demenza imprigiona la mente e il volto di John. Il tutto tenuto insieme da un amore imperfetto eppure inossidabile tra un uomo e una donna che, senza retorica alcuna, sono diventati nel tempo “una cosa sola”. Quando Ella, che pure sembrerebbe il lato “forte” della coppia”, si trova in difficoltà, il suo eroe John accorre a salvarla, come un leone, come quei leoni tanto cari al pescatore de Il vecchio e il mare.

Al talento del regista e a quello dei protagonisti si aggiunge la gradevole perfezione di una sceneggiatura in cui tutto sembra accadere al punto giusto e che accompagna lo spettatore attraverso un crescendo narrativo emotivamente travolgente e che, sul finale, restituisce l’impressione di un’armonica chiusura del cerchio. Il film è tratto dal romanzo dall’omonimo romanzo di Michael Zadoorian e la sceneggiatura è firmata, oltre che da Paolo Virzì, da Francesca Archibugi, Stephen Amidon e Francesca Piccolo.

The Leisure Seeker arriverà a gennaio nelle sale italiane, con il titolo di Ella & John. Non resta che attendere quello che, non si fa fatica a immaginarlo, sarà uno dei film di maggiore successo della prossima stagione.

data di pubblicazione: 04/09/2017








LA VITA IN COMUNE di Edoardo Winspeare, 2017

LA VITA IN COMUNE di Edoardo Winspeare, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

 

Nel Sud più profondo dell’Italia, dove ogni speranza di riscatto sembrerebbe perdersi annientata dall’egoistica logica del più forte, si accende una luce grazie alla Poesia e alla Fede. Una fiaba visionaria, un’ironia capace di raccontare i drammi di un Paese sempre sul punto di rialzarsi in piedi, ma mai capace di farlo fino in fondo.

Nella piccola comunità di Disperata, al centro di un Salento in cui la presenza di Dio si rivela nella bellezza di un paesaggio di struggente perfezione che la mano degli uomini non è però in grado di preservare come meriterebbe, la vita scorre tranquilla e monotona: il bar del paese e il suo stanco immobilismo ne rappresentano forse la sintesi più eloquente.

Il sindaco Filippo Pisanelli (Gustavo Caputo) è un uomo di lettere e di cultura: non ha il carattere adeguato per presiedere le riunioni del Consiglio Comunale, lascia decorrere i termini per ottenere i finanziamenti europei e neppure il piglio di Eufemia (Celeste Casciaro, moglie di Winspeare) riesce a scuoterlo dal suo torpore. La sola attività dalla quale sembra trovare appagante soddisfazione è rappresentata dalle lezioni impartite ai detenuti in carcere. Riesce persino nell’impresa di fare appassionare alla poesia Pati (Claudio Giangreco), malvivente dal cuore tenero che non riesce a perdonarsi l’uccisione di un cane durante una rapina finita male, tentata insieme al fratello Angiolino (Antonio Carluccio). Anche Angiolino, all’apparenza un cinico burbero che gioca a fare il bandito con pistole finte e che si vanta di imprese in realtà mai compiute, conoscerà la sua folgorazione sulla via di Damasco, grazie al provvidenziale intervento di Papa Francesco.

L’arte e la religione, in fondo, sono due vie per avvinarsi a ciò che trascende l’umana miseria, per azzerare le differenze sociali, per sperare che, in fondo, a tutti sia concessa una possibilità di rinascita e di redenzione. Se poi tanti uomini di buona volontà uniscono le forze, si può persino costruire una nuova arca di Noè, capace di salvare l’umanità da un naufragio irreversibile.

La vita in comune, inserito nella sezione Orizzonti di Venezia 74, presenta i tratti tipici della cinematografia di Edoardo Winspeare, cresciuto, non a caso, nella frazione di Depressa, in provincia di Lecce. Il legame con il territorio è evidente e viscerale, i personaggi sono ben caratterizzati e i non-attori cari al regista se la cavano a meraviglia. Inutile negare che, forse, il lavoro di Winspeare non abbia tutte le carte in regole per emergere in una competizione internazionale. La fiaba disincanta e disillusa, la disperazione di Disperata raccontata con i toni da commedia, i bagliori visionari che qualche volta illuminano il film, lo rendono tuttavia un lavoro gradevole.

La scelta del finale, poi, sembra condensare alcune delle più evidenti chiavi di lettura del film: è poetica, è mistica, è dolcemente amara.

data di pubblicazione: 03/08/2017








LA VITA IN COMUNE di Edoardo Winspeare, 2017

SUBURBICON di George Clooney, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?” In un’America che non è disposta a fare i conti con il proprio passato e le proprie colpe, fiorisce la cittadina di Suburbicon, popolata da oneste e benpensanti famiglie tradizionali che si oppongono tenacemente all’arrivo di tre afroamericani. Proprio nella villetta accanto a quella abitata dai “negri” si consuma una tragedia familiare, ma il frastuono delle proteste e dei martelli che costruiscono muri per isolare gli invasori è così assordante da offuscare tutto il resto.

 

Suburbicon è la città ideale, all’interno della cui perfezione da giornale patinato ciascun americano può realizzare la propria vita da sogno. L’arrivo dei Meyers, una famiglia di afroamericani, turba l’apparente tranquillità della cittadina popolata da oneste famiglie tradizionali, suscitando la strenua opposizione dei comitati di quartiere: i “negri” saranno ben accetti, ma solo quando si mostreranno ben educati e pronti a una convivenza civile.

Nella villetta accanto a quella degli “stranieri” vive la famiglia Lodge: Gardner (Matt Damon), Rose (Julianne Moore) e il piccolo Nicky (l’impeccabile Noah Jupe). Anche zia Margaret (sempre Julianne Moore), gemella di Rose, è solita frequentare casa Lodge. Durante una rapina in casa, Rose resta uccisa. Neppure Suburbicon (il nome, del resto, è tutto un programma) può considerarsi dunque immune dagli episodi di criminalità che scandiscono la vita del “mondo reale”.

Il fuoco del film si sposta a questo punto sui panni sporchi che si lavano nella casa dei bianchi, entra nella casa di Lodge, rendendo evidente che il vero dramma è ben lontano dalle proteste sempre più violente di fronte alla casa dei Meyers. Tutto si svolge sotto lo sguardo di Nicky, di uno di quei bambini che ci guardano dai tempi di De Sica.

Il sesto film che vede George Clooney dietro alla macchina da presa ha una scrittura che risente chiaramente dell’impronta dei fratelli Cohen: un umorismo dissacrante, che ridicolizza i cattivi senza però creare con loro empatia alcuna. Suburbicon è il frutto di un’idea che risale agli anni Ottanta, ma che, in maniera per certi aspetti sorprendente, racconta una storia più che mai attuale. Nell’America di Donald Trump, che si interroga sull’opportunità di rimuovere le statue dei generali sudisti, che ancora non ha fatto i conti con la memoria e che, forse anche per questo, non riesce a intravedere un futuro sufficientemente solido, si continua ad additare l’altro, lo straniero, il diverso, come la causa di ogni male della società, trincerandosi dietro una cortina di ipocrisia tanto spessa quanto fragile. La riflessione sulla questione razziale, che apre e chiude il film, rappresenta indubbiamente il tema centrale di Suburbicon, anche se la storia si concentra poi sulla rocambolesca caduta della “tradizionale famiglia bianca”. Le due storie parallele si congiungono grazie ai due bambini, il bianco e il nero, capaci di giocare insieme e, forse, di infondere al film un anelito di speranza.

La scrittura e la regia si rivelano ottimamente sincronizzate. Quanto al cast, non brilla particolarmente la prova di Matt Damon; più interessante è il doppio ruolo cui è chiamata Julianne Moore e prezioso, come al solito, l’apporto di Oscar Isaac, protagonista di alcune delle sequenze in cui la penna di Cohen mostra il suo tratto più cristallino.

Fino a quando un uomo bianco potrà attraversare in bicicletta, di notte, un quartiere “per bene”, perché tanto ci sarà sempre un “negro” cui dare la colpa, osserva Matt Damon in conferenza stampa, l’America avrà ben poche possibilità di costruire il proprio futuro. George Clooney, senza sottrarsi alle (inevitabili) domande sulla politica di Trump, risponde ai giornalisti che potrebbe essere divertente candidarsi come nuovo Presidente americano. In attesa delle presidenziali, Suburbicon può considerarsi un valido programma elettorale, politicamente interessante e cinematograficamente ben confezionato.

data di pubblicazione: 03/09/2017








CASA D’ALTRI di Gianni Amelio, 2017

CASA D’ALTRI di Gianni Amelio, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

 

Il terremoto di Amatrice. Le macerie materiali e spirituali. La disperazione. La speranza. La memoria che da sola non basta.

Casa d’altri era indubbiamente tra gli eventi speciali più attesi di Venezia 74. Gianni Amelio lascia che la sua macchina da presa scivoli, quasi ritraendosi, tra le macerie materiali e spirituali che il terremoto di Amatrice ha lasciato dietro di sé.
Le case sventrate, come durante una guerra. Il silenzio.
I ricordi che devono e vogliono lasciare spazio al futuro. Il silenzio.
I turisti che chiedono informazioni sulla via più breve per raggiungere le macerie e per scattare l’immancabile selfie-ricordo. Il silenzio.
La rabbia e l’orgoglio. Il silenzio.
Le mani nude che scavano nel vano tentativo di raggiungere le viscere della terra. Il silenzio.
La memoria non basta. Il silenzio neppure.

data di pubblicazione: 01/08/2017

CASA D’ALTRI di Gianni Amelio, 2017

THE INSULT di Ziad Doueiri, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

 

Un banale alterco diviene un caso mediatico di rilevanza nazionale. Un libanese cristiano e un palestinese si trovano contrapposti in un’aula di Tribunale, che si trasforma anche nel palcoscenico di uno dei capitoli più complessi della storia contemporanea.

The Insult di Ziad Doueniri, in concorso a Venezia 74, sorprende in positivo il Lido con un legal drama made in Libano che, pur prendendo a prestito alcuni stilemi di un registro narrativo tradizionalmente appannaggio del made in USA, risulta un’opera nel complesso originale, tanto per la questione politico-culturale che fa da sfondo all’intera vicenda quanto per l’esito della battaglia legale che costituisce il cuore del film.

Toni (Adel Karam), libanese militante del Partito Cristiano, discute con il palestinese Yasser (Kamle El Basha) per una grondaia “fuori norma”. Yasser, di fronte alla tracotanza mostrata da Toni e malgrado si trovi in un quartiere di Beirut socialmente e politicamente ostile ai palestinesi, insulta il suo interlocutore. Toni decide di procedere per vie legali, intentando una causa di risarcimento nei confronti di Yasser. Le leggi degli uomini, tuttavia, non sembrano in grado di risolvere una situazione così complessa che, come avviata lungo il crinale di un pendio scivoloso, degenera ulteriormente. Quello che sembrerebbe un banale alterco quotidiano si trasforma rapidamente in un caso mediatico di rilevanza nazionale, in un Paese divenuto negli ultimi decenni un crogiolo di religioni, culture, ideologie: in un Paese multirazziale che fatica a trasformarsi in un Paese multiculturale.

Allo scontro tra culture si aggiunge anche quello tra generazioni, visto che gli avvocati difensori sono un vecchio fedele alla causa cristiana (Camille Salameh) e una giovane (Diamand Bou Abboud), convinta sostenitrice dei diritti dei palestinesi. Si scoprirà poi che i due sono molto più che semplici colleghi.

I temi con i quali il processo è chiamato a confrontarsi sono quelli con cui il diritto (specie penale) è chiamato frequentemente a fare i conti, soprattutto nei momenti di più complessa e violenta transizione storica. Fanno più male le aggressioni fisiche o quelle verbali? Si può essere condannati per un reato di opinione oppure ognuno ha la libertà di pensare e dire tutto quello che desidera? La dignità del singolo, anche se l’offesa non sia arrecata pubblicamente, è suscettibile di una tutela penale? Si può reagire, secondo il codice penale libanese, anche oltre i limiti della legittima difesa, se il soggetto si trovi in uno “stato emotivo compromesso” che ha compromesso la sua lucidità. Ma la battaglia legale senza esclusione di colpi, portata a conseguenze che né Toni né Yasser avrebbero immaginato e sperato, dimostrerà che non sempre i ruoli di “vittima” e di “aggressore” sono così chiaramente delineati. Se la Presidente del collegio giudicante non leggesse a voce alta il “verdetto” della Corte d’appello, le sole immagini non lascerebbero agevolmente intuire quale dei due contendenti sia riuscito ad avere la meglio.

Ziad Doueiri, come lo stesso regista spiega in conferenza stampa, proviene da una famiglia di avvocati e di giudici: è quindi abituato non solo al linguaggio legale, ma anche all’idea che l’unico strumento di affermazione dei diritti (umani) siano le leggi di uno Stato. Ammette di aver avuto tra i suoi modelli Il verdetto di Sidney Lumet, ma, come anticipato, il risultato di The Insult, più concentrato sulla storia che sui movimenti di macchina ad effetto, è per molti aspetti sorprendente, andando ben oltre le pastoie imposte dal recinto del film di genere.

data di pubblicazione: 01/09/2017