SUBURBICON di George Clooney, 2017

SUBURBICON di George Clooney, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?” In un’America che non è disposta a fare i conti con il proprio passato e le proprie colpe, fiorisce la cittadina di Suburbicon, popolata da oneste e benpensanti famiglie tradizionali che si oppongono tenacemente all’arrivo di tre afroamericani. Proprio nella villetta accanto a quella abitata dai “negri” si consuma una tragedia familiare, ma il frastuono delle proteste e dei martelli che costruiscono muri per isolare gli invasori è così assordante da offuscare tutto il resto.

 

Suburbicon è la città ideale, all’interno della cui perfezione da giornale patinato ciascun americano può realizzare la propria vita da sogno. L’arrivo dei Meyers, una famiglia di afroamericani, turba l’apparente tranquillità della cittadina popolata da oneste famiglie tradizionali, suscitando la strenua opposizione dei comitati di quartiere: i “negri” saranno ben accetti, ma solo quando si mostreranno ben educati e pronti a una convivenza civile.

Nella villetta accanto a quella degli “stranieri” vive la famiglia Lodge: Gardner (Matt Damon), Rose (Julianne Moore) e il piccolo Nicky (l’impeccabile Noah Jupe). Anche zia Margaret (sempre Julianne Moore), gemella di Rose, è solita frequentare casa Lodge. Durante una rapina in casa, Rose resta uccisa. Neppure Suburbicon (il nome, del resto, è tutto un programma) può considerarsi dunque immune dagli episodi di criminalità che scandiscono la vita del “mondo reale”.

Il fuoco del film si sposta a questo punto sui panni sporchi che si lavano nella casa dei bianchi, entra nella casa di Lodge, rendendo evidente che il vero dramma è ben lontano dalle proteste sempre più violente di fronte alla casa dei Meyers. Tutto si svolge sotto lo sguardo di Nicky, di uno di quei bambini che ci guardano dai tempi di De Sica.

Il sesto film che vede George Clooney dietro alla macchina da presa ha una scrittura che risente chiaramente dell’impronta dei fratelli Cohen: un umorismo dissacrante, che ridicolizza i cattivi senza però creare con loro empatia alcuna. Suburbicon è il frutto di un’idea che risale agli anni Ottanta, ma che, in maniera per certi aspetti sorprendente, racconta una storia più che mai attuale. Nell’America di Donald Trump, che si interroga sull’opportunità di rimuovere le statue dei generali sudisti, che ancora non ha fatto i conti con la memoria e che, forse anche per questo, non riesce a intravedere un futuro sufficientemente solido, si continua ad additare l’altro, lo straniero, il diverso, come la causa di ogni male della società, trincerandosi dietro una cortina di ipocrisia tanto spessa quanto fragile. La riflessione sulla questione razziale, che apre e chiude il film, rappresenta indubbiamente il tema centrale di Suburbicon, anche se la storia si concentra poi sulla rocambolesca caduta della “tradizionale famiglia bianca”. Le due storie parallele si congiungono grazie ai due bambini, il bianco e il nero, capaci di giocare insieme e, forse, di infondere al film un anelito di speranza.

La scrittura e la regia si rivelano ottimamente sincronizzate. Quanto al cast, non brilla particolarmente la prova di Matt Damon; più interessante è il doppio ruolo cui è chiamata Julianne Moore e prezioso, come al solito, l’apporto di Oscar Isaac, protagonista di alcune delle sequenze in cui la penna di Cohen mostra il suo tratto più cristallino.

Fino a quando un uomo bianco potrà attraversare in bicicletta, di notte, un quartiere “per bene”, perché tanto ci sarà sempre un “negro” cui dare la colpa, osserva Matt Damon in conferenza stampa, l’America avrà ben poche possibilità di costruire il proprio futuro. George Clooney, senza sottrarsi alle (inevitabili) domande sulla politica di Trump, risponde ai giornalisti che potrebbe essere divertente candidarsi come nuovo Presidente americano. In attesa delle presidenziali, Suburbicon può considerarsi un valido programma elettorale, politicamente interessante e cinematograficamente ben confezionato.

data di pubblicazione: 03/09/2017








CASA D’ALTRI di Gianni Amelio, 2017

CASA D’ALTRI di Gianni Amelio, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

 

Il terremoto di Amatrice. Le macerie materiali e spirituali. La disperazione. La speranza. La memoria che da sola non basta.

Casa d’altri era indubbiamente tra gli eventi speciali più attesi di Venezia 74. Gianni Amelio lascia che la sua macchina da presa scivoli, quasi ritraendosi, tra le macerie materiali e spirituali che il terremoto di Amatrice ha lasciato dietro di sé.
Le case sventrate, come durante una guerra. Il silenzio.
I ricordi che devono e vogliono lasciare spazio al futuro. Il silenzio.
I turisti che chiedono informazioni sulla via più breve per raggiungere le macerie e per scattare l’immancabile selfie-ricordo. Il silenzio.
La rabbia e l’orgoglio. Il silenzio.
Le mani nude che scavano nel vano tentativo di raggiungere le viscere della terra. Il silenzio.
La memoria non basta. Il silenzio neppure.

data di pubblicazione: 01/08/2017

CASA D’ALTRI di Gianni Amelio, 2017

THE INSULT di Ziad Doueiri, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

 

Un banale alterco diviene un caso mediatico di rilevanza nazionale. Un libanese cristiano e un palestinese si trovano contrapposti in un’aula di Tribunale, che si trasforma anche nel palcoscenico di uno dei capitoli più complessi della storia contemporanea.

The Insult di Ziad Doueniri, in concorso a Venezia 74, sorprende in positivo il Lido con un legal drama made in Libano che, pur prendendo a prestito alcuni stilemi di un registro narrativo tradizionalmente appannaggio del made in USA, risulta un’opera nel complesso originale, tanto per la questione politico-culturale che fa da sfondo all’intera vicenda quanto per l’esito della battaglia legale che costituisce il cuore del film.

Toni (Adel Karam), libanese militante del Partito Cristiano, discute con il palestinese Yasser (Kamle El Basha) per una grondaia “fuori norma”. Yasser, di fronte alla tracotanza mostrata da Toni e malgrado si trovi in un quartiere di Beirut socialmente e politicamente ostile ai palestinesi, insulta il suo interlocutore. Toni decide di procedere per vie legali, intentando una causa di risarcimento nei confronti di Yasser. Le leggi degli uomini, tuttavia, non sembrano in grado di risolvere una situazione così complessa che, come avviata lungo il crinale di un pendio scivoloso, degenera ulteriormente. Quello che sembrerebbe un banale alterco quotidiano si trasforma rapidamente in un caso mediatico di rilevanza nazionale, in un Paese divenuto negli ultimi decenni un crogiolo di religioni, culture, ideologie: in un Paese multirazziale che fatica a trasformarsi in un Paese multiculturale.

Allo scontro tra culture si aggiunge anche quello tra generazioni, visto che gli avvocati difensori sono un vecchio fedele alla causa cristiana (Camille Salameh) e una giovane (Diamand Bou Abboud), convinta sostenitrice dei diritti dei palestinesi. Si scoprirà poi che i due sono molto più che semplici colleghi.

I temi con i quali il processo è chiamato a confrontarsi sono quelli con cui il diritto (specie penale) è chiamato frequentemente a fare i conti, soprattutto nei momenti di più complessa e violenta transizione storica. Fanno più male le aggressioni fisiche o quelle verbali? Si può essere condannati per un reato di opinione oppure ognuno ha la libertà di pensare e dire tutto quello che desidera? La dignità del singolo, anche se l’offesa non sia arrecata pubblicamente, è suscettibile di una tutela penale? Si può reagire, secondo il codice penale libanese, anche oltre i limiti della legittima difesa, se il soggetto si trovi in uno “stato emotivo compromesso” che ha compromesso la sua lucidità. Ma la battaglia legale senza esclusione di colpi, portata a conseguenze che né Toni né Yasser avrebbero immaginato e sperato, dimostrerà che non sempre i ruoli di “vittima” e di “aggressore” sono così chiaramente delineati. Se la Presidente del collegio giudicante non leggesse a voce alta il “verdetto” della Corte d’appello, le sole immagini non lascerebbero agevolmente intuire quale dei due contendenti sia riuscito ad avere la meglio.

Ziad Doueiri, come lo stesso regista spiega in conferenza stampa, proviene da una famiglia di avvocati e di giudici: è quindi abituato non solo al linguaggio legale, ma anche all’idea che l’unico strumento di affermazione dei diritti (umani) siano le leggi di uno Stato. Ammette di aver avuto tra i suoi modelli Il verdetto di Sidney Lumet, ma, come anticipato, il risultato di The Insult, più concentrato sulla storia che sui movimenti di macchina ad effetto, è per molti aspetti sorprendente, andando ben oltre le pastoie imposte dal recinto del film di genere.

data di pubblicazione: 01/09/2017








 

THE DEVIL AND FATHER AMORTH di William Friedkin, 2017

THE DEVIL AND FATHER AMORTH di William Friedkin, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Il regista del cult L’esorcista assiste, telecamera alla mano, a un vero esorcismo, praticato da padre Gabriele Amorth. La finzione e la realtà si toccano senza mescolarsi, così come la Fede e la Scienza, l’Irrazionale e la Ragione. Ognuno è libero di trovare le proprie risposte, semplicemente perché, forse, tutte le risposte sono “vere”.

The Devil and Father Amorth, fuori concorso a Venezia 74, era indubbiamente uno dei titoli più attesi al Lido, se non altro per la suggestiva sospensione tra finzione e realtà da cui muove l’idea di fondo del film. William Friedkin, meglio noto come il regista del cult L’esorcista, non ha mai assistito a una di quelle pratiche che il suo film ha contributo a fa conoscere al grande pubblico. Decide di rimediare quarant’anni più tardi e di farlo in grande stile: Friedkin ottiene l’autorizzazione per assistere, telecamera alla mano, a un esorcismo praticato da padre Gabriele Amorth. Si tratta della prima volta che la Chiesa accorda un simile permesso e padre Amorth morirà il 16 settembre 2016, pochi mesi dopo le riprese. I presupposti per una storia appassionante, dunque, sembrerebbero esserci tutti.

La “protagonista” dell’esorcismo è Cristina, architetto di Alatri: una storia come tante, eppure unica nel suo genere. Cristina accusa disturbi fisici e sofferenze spirituali e approda da Padre Amorth dopo essersi già sottoposta a dieci tentativi di liberazione. Neppure l’esorcista più noto al mondo riuscirà però nell’impresa di sconfiggere del tutto il Male che alberga in lei.

Il curioso esperimento cinematografico di Friedkin si articola su almeno tre piani narrativi: l’esorcismo “nudo e crudo”, le interviste ad esperti di psichiatria e il racconto in prima persona da parte del regista. Mentre i primi due livelli del film risultano di indubbio interesse, se non altro perché, riproducendo i termini dell’eterna dialettica tra Scienza e Fede, offrono un’alternativa all’interno della quale ciascuno può trovare la propria risposta, decisamente più debole risulta il racconto affidato direttamente allo stesso Friedkin. I toni somigliano troppo a quelli di uno spot “postumo” di un film, L’esorcista, che non ha certo bisogno di espedienti per essere ricordato, senza contare che le parole del regista e la colonna sonora scelta per scandire la parte finale della storia di Cristina sembrano assai distanti da quella patente di realtà che le immagini del “vero” esorcismo dovrebbero conferire al film.

Non resta, allora, che congedare The Devil and Father Amorth con le stesse parole usate da Padre Amorth per salutare i suoi “ospiti”: “Ora che vi ho benedetto, andare pure a farvi benedire”.







data di pubblicazione: 31/08/2017

THE DEVIL AND FATHER AMORTH di William Friedkin, 2017

DOWNSIZING di Alexander Payne, 2017

(74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

 

E se la soluzione al sovraffollamento mondiale e all’imminente fine del nostro Pianeta fosse quella di rimpicciolire i suoi abitanti? Tanti Minuscoli, con meno bisogni e meno affanni e una nuova vita a portata di mano. Riusciranno i nostri (piccoli) eroi nell’impresa di salvare la Terra?

Rimpicciolire il mondo e i suoi abitanti per salvare entrambi. Downsizing di Alexander Payne (Sideways-In viaggio con Jack, Paradiso Amaro), cui è affidata l’apertura della 74. Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, muove da un’idea tanto semplice quanto potenzialmente dirompente. Degli scienziati norvegesi mettono a punto una tecnica di riduzione cellulare capace di trasformare (anche) gli essere umani in uomini minuscoli: riducendo le dimensioni del corpo scompare anche la massa di rifiuti che sta soffocando il nostro Pianeta e convertendo la popolazione mondiale in un esercito di Minuscoli, quindi, il sovraffollamento che sta conducendo ineluttabilmente alla distruzione della Terra potrebbe risolversi. I piccoli uomini hanno anche piccoli bisogni di tipo economico e questo, se da un lato li sottrae al “cerchio magico” dell’economia globale, dall’altro lato consente alla classe media di sperimentare il brivido della ricchezza. I Minuscoli, nelle comunità loro riservate, possono vivere in case da sogno, indossare diamanti e persino smettere di lavorare. Anche Paul Safranek (Matt Damon) e sua moglie Audrey (Kristen Wiig) decidono di sottoporsi al trattamento e di concedersi il lusso di una vita da sogno.

L’ingresso nella camera di rimpicciolimento (volevo che somigliasse a un gigantesco microonde, precisa Payne) somiglia in tutto e per tutto a una (ri)nascita, ma non serve molto tempo a rendersi conto che non è tutto oro quello che luccica. Persino l’Eldorado in scala non riesce ad evitare il formarsi (spontaneo?) di periferie e di classi sociali che vivono ai margini. Senza contare che la fine del mondo si avvicina a un ritmo sempre più incalzante, costringendo la prima comunità di Minuscoli ad escogitare un nuovo espediente che funzioni da Arca di Noè: l’obiettivo è sempre (solo?) quello di assicurare che quell’improbabile creatura che è l’essere umano possa continuare la sua straordinaria avventura.

Dopo un avvio in gran carriera, Downsizing diventa un crogiolo di episodi, personaggi e “morali della favola” non sempre ben amalgamati. Il cast (straordinari Christoph Waltz e Hong Chau) è di tutto rispetto costruito, ma la sceneggiatura è troppo ingombrante persino per le loro spalle robuste.

Il racconto apocalittico affidato ai toni della commedia grottesca (in perfetto “stile Payne”, che in conferenza stampa non fa mistero del suo amore per Cechov) insieme alla riflessione sui temi ambientali potevano risultare un binomio vincente. L’impressione, tuttavia, è quella per cui Downsizing, è il caso di dirlo, non abbia preso bene le misure.







data di pubblicazione: 31/08/2017