THE FOUNDER di John Lee Hancock, 2017

THE FOUNDER di John Lee Hancock, 2017

La storia di un marchio e di un’impresa che contribuiscono a definire il volto della ristorazione postmoderna e globalizzata, ma anche l’anima nera di un sogno americano disposto a cedere al compromesso dell’ascesa (sociale prima ancora che economica) senza scrupoli pur di appropriarsi di un’idea e di “fondarne” il successo. La storia del marchio McDonald’s e degli archi dorati che hanno unito il mondo portata sul grande schermo da un impeccabile Michael Keaton.

 

I fratelli Dick e Mac McDonald (Nick Offerman e John Carroll Lynch) riescono a risollevarsi dall’abisso della crisi economica del 1929 con un’idea tanto semplice quanto geniale: superare l’ormai vetusto e inappagante modello del Drive in attraverso un ristorante senza stoviglie, senza tavoli, senza camerieri. Un’efficiente catena di montaggio garantisce che un gustoso hamburger e delle patine fritte sempre dorate al punto giusto arrivino in pochi secondi in un sacchetto di carta e quindi tra le mani affamate dei clienti. Niente attesa, niente ordini confusi da cameriere troppo intente a evitare le insidie degli avventori, niente facce poco raccomandabili dentro e fuori il locale. Il know how si chiama “metodo espresso”. Il risultato risponde al nome di McDonald’s: un paradiso per famiglie destinato a rivoluzionare il modo di fare e concepire la ristorazione.

Per i fratelli McDonald, però, la rivoluzione passa necessariamente attraverso un controllo minuzioso della qualità: non sono disposti a cedere sul numero di cetrioli o sulla quantità di senape che compone ogni hamburger, anche se questo significa rinunciare alla possibilità di estendere il marchio attraverso un sistema di affiliazioni che, muovendo da San Bernardino, porti gli “archi dorati” in giro per l’America. L’incontro con Ray Kroc (Michael Keaton) sconvolgerà le vite e i principii di Dick e Mac e farà di McDonald’s il nuovo simbolo dell’America postmoderna, accanto alle croci delle Chiese e alle bandiere dei Tribunali.

Con The Founder Jon Lee Hancock raccoglie la difficile sfida di raccontare l’anima nera del sogno americano, l’ambizione senza scrupoli di chi, non avendo idee in grado di imporsi sul mercato, non esita ad appropriarsi delle idee altrui, la guerra “ratto contro ratto” che regola il mondo degli affari. Il tutto senza però sconfinare in tinte noir o drammatiche e senza cedere alla tentazione di scavare nelle viscere esistenziali degli uomini che hanno contributo a “fondare” il mondo globalizzato (vedi, tra i tanti, Steve Jobs). Ray Kroc è banalmente spregiudicato, desideroso di un’ascesa sociale (prima ancora che economica) che non ha nulla di incomprensibile e che in certi momenti riesce addirittura a generare una sinistra empatia nello spettatore.

La prova di Michael Keaton, dopo la ribalta mondiale di Birdman e Il caso Spotlight, è impeccabile. La pochezza e la straordinarietà di un uomo che ha “fondato” un impero si amalgamano impeccabilmente nel personaggio di Ray Kroc e i quasi 120 minuti di proiezione scorrono senza difficoltà tra le pieghe di una storia ben costruita e ben raccontata.

data di pubblicazione: 17/01/2017


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RING di Léonore Confino, regia di Massimiliano Vado

RING di Léonore Confino, regia di Massimiliano Vado

(Teatro della Cometa – Roma, 11/29 gennaio 2017)

Un palcoscenico trasformato in un ring, una serie di coppie che si affrontano in luoghi e tempi diversi, l’impressione dell’eterno ritorno che regola il mistero del rapporto tra Uomo e Donna.

Massimiliano Vado e Michela Andreozzi salgono sul palcoscenico del Teatro della Cometa, allesito per l’occasione con le sembianze di un ring, per riflettere insieme al pubblico sulle dinamiche che regolano il rapporto tra i sessi nell’ambito della coppia.

L’uomo e la donna si attraggono e si respingono, si amano e si tradiscono, si limitano ma in fondo si completano. Da Adamo ed Eva fino alle feste a base di Gin tonic, l’impressione è quella per cui tutto cambi per restare in fondo immutato: il sesso, la routine giornaliera, l’amore travestito da amicizia, l’irresistibile attrazione del colpo di fulmine. Le coppie che in rapida successione si affrontano sul Ring diretto dalla regia di Massimilano Vado sono al tempo stesso ordinarie e speciali, come la quotidianità che raccontano e che, pur nell’esasperazione della mise en scène, strizza l’occhio all’immedesimazione del pubblico.

Il testo, scritto da Léonore Confino, dopo il significativo successo ottenuto in Francia, è attualmente rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo. La versione italiana può contare anzitutto sulla strepitosa interpretazione di Michela Andreozzi, che cambia vesti, accenti e registro di recitazione, conducendo il pubblico, con disinvoltura e talento sia comico sia drammatico, lungo i tumultuosi sentieri dell’eterno ritorno dei rapporti di coppia. Il “ring”, in fondo, è anche l’anello, simbolo per eccellenza del moto perennemente circolare e del legame indissolubile. Massimiliano Vado non sempre si rivela all’altezza della sua compagna di scena (e di vita) e gli inserti video-musicali non si rivelano del tutto adeguati, almeno in certi casi, nella dinamica del ritmo narrativo.

Ring, atto unico di circa novanta minuti, resta comunque uno spettacolo piacevole, che riesce a far sorridere, che lascia aperti degli interrogativi da risolvere e che fa venire la voglia di indossare i guantoni da box per arrivare, in ogni caso, alla fine della sfida.

data di pubblicazione: 12/01/2017


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OCEANIA di Ron Clements e John Musker, 2016

OCEANIA di Ron Clements e John Musker, 2016

Un’avventura alla scoperta del mondo e di sé stessi, una riconciliazione con la propria “natura”, uno scenario mozzafiato impreziosito da colori roboanti e dalle meraviglie dell’animazione targata Disney.

All’origine dei tempi, quando non esisteva nient’altro se non la distesa infinita dell’Oceano, emerge dalle acque Te Fiti, l’isola madre che, irradiando la propria linfa vitale, offre alimento a tutte le altre isole. L’ordinato equilibrio cosmico è turbato un giorno da Maui, semidio che, rievocando alla mente dello spettatore le gesta mitologiche di Prometeo, decide di rubare il cuore di Te Fiti per donare agli uomini il potere per eccellenza: quello di creare la vita.

Dopo migliaia di anni la piccola Vaiana Waialiki muove i suoi primi passi curiosi sulle spiagge della dell’isola polinesiana di Motunui. Viviana è la principessa dell’isola. Anzi, è la figlia del capo, destinata a guidare una comunità che, immobile in un equilibrio solo in apparenza rassicurante, ripone nella giovane donna tutta la sua fiducia. Nessun abitante dell’isola può spingersi al di là del Reef, la “frontiera” segnata dall’Oceano che delinea il limite delle acque sicure, ma Vaiana è inconsciamente consapevole del fatto che il suo destino la aspetti ben oltre quella linea ideale.

Quando le noci di cocco non restituiscono più il loro frutto e il pesce inizia a scarseggiare, risulta chiaro che la condizione di statica pace che avvolge l’isola è destinata a infrangersi, a meno che

La nonna paterna di Vaiana, assumendo il ruolo di Virgilio del viaggio che di lì a poco sua nipote sarà chiamata a compiere, le indica la via da seguire: Vaiana, solcando i sentieri dell’Oceano, dovrà mettersi alla ricerca di Maui e restituire a Te Fiti il cuore perduto.

La non-principessa diviene quindi la protagonista di un viaggio di scoperta e di iniziazione, che, seguendo anche il fil rouge della fiaba ecologista, la condurrà ben oltre le Colonne d’Ercole del Reef.

Non sembra che la pretesa rivoluzione femminista portata avanti dalla Disney con le sue moderne (non) principesse sia il tratto più caratterizzante di Oceania. Vaiana è indubbiamente una principessa che, come Mulan o Elsa, non ha bisogno del valoroso principe azzurro per completarsi e realizzare le sue aspirazioni, ma questa circostanza, di per sé sola, non dovrebbe più costituire motivo né di sorpresa né di discussione.  Quello che invece colpisce in Oceania è l’assenza di una dimensione autenticamente corale, che, pur senza oscurare il bagliore dell’eroe protagonista, riesce solitamente, nei film Disney, ad andare ben oltre la dimensione di un contorno non indispensabile. I personaggi della nonna e di Maui sono indubbiamente ben tratteggiati, ma Vaiana, con il suo individualismo eroico sempre ben in evidenza, resta la protagonista indiscussa e indiscutibile della storia. Neppure i “cattivi” riescono a rappresentare una reale alternativa (sia pur temporanea) alla stella di Vaiana, che splende incontrastata e senza reali momenti di crisi per l’intera durata del film.

Oceania resta in ogni caso uno dei cartoons Disney più riusciti degli ultimi anni (insieme, forse, a Rapunzel). Le impeccabili scelte di animazione offrono uno spettacolo sfavillante e sontuoso agli occhi dello spettatore, restituendo tutta la magnificenza di una Natura che si fonde armoniosamente con la rispettosa presenza dell’Uomo.

Una curiosità. Il titolo originale del film è Moana, che è anche il nome della protagonista nella versione americana della fiaba. Molti Paesi europei hanno però optato per un titolo e un nome diversi. La metamorfosi di Moana in Vaiana, più esattamente, sarebbe dovuta all’eccessiva fama di Moana Pozzi, eroina protagonista di imprese di ben altro genere, che avrebbe (lei sì!) offuscato in maniera imbarazzante la fama della novella (non) principessa Disney. Nomen omen.

Data di pubblicazione: 29/12/2016


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È SOLO LA FINE DEL MONDO di Xavier Dolan, 2016

È SOLO LA FINE DEL MONDO di Xavier Dolan, 2016

Louis è gravemente malato e per questo decide di far visita alla sua famiglia, che non vede da circa dodici anni. Il suo ritorno a casa turberà un equilibrio che forse non è mai esistito.

“Un po’ di tempo fa, da qualche parte”, Louis (Gaspard Ulliel), scrittore teatrale giovane e talentuoso, sale su un aereo per fare ritorno a casa. Gli resta poco da vivere e vuole incontrare la sua famiglia, che non vede da dodici anni, per dare l’annuncio della sua morte e per avere l’impressione di essere padrone, fino alla fine, della propria vita.

Durante la sua lontananza Louis ha mandato segnali attraverso puntuali ma scarne cartoline, infarcite di quelle che a casa chiamano “frasi ellittiche”: brevi parole di circostanza, che anche i postini possono leggere e che non comunicano nient’altro se non l’assenza di chi le scrive.

Il ritorno a casa del “figliol prodigo” viene accolto con un misto di strabordante eccitazione e di malcelato risentimento. Louis si vedrà costretto ad affrontare veri e propri duelli, verbali ed emotivi, con ciascuno dei suoi familiari, desiderosi di scendere nell’arena con lui per un chiarimento, per ricordare insieme il passato, per carpire dalle sue scarse parole e dal suo sorrisetto enigmatico cosa accadrà nel futuro, o anche solo per abbracciarlo.

La madre Martine (Nathalie Baye), il fratello Antoine (Vincet Cassel), la sorella Suzanne (Léa Seydoux), la cognata Catherine (Marion Cotillard): tutti avrebbero qualcosa da dire, ma nessuno riesce né a parlare né ad ascoltare, perché, forse, nessuno è realmente capace né di parlare né di ascoltare. Le parole si susseguono con un ritmo a metà strada tra l’isterico e il bulimico e le urla lasciano uno strascico di incolmabile silenzio tra chi pare legato solo da un sia pur incancellabile vincolo di sangue.

Basato sull’omonima piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce, il nuovo film dell’enfant prodige Xavier Dolan, già incoronato con il Grand Prix a Cannes 2016 e in corsa come miglior film straniero per gli Oscar 2017, resta forse leggermente al di sotto delle aspettative. È indubbiamente un film sull’incomunicabilità e sull’incomprensione, che tuttavia risultano esasperate a tal punto da coinvolgere anche lo spettatore, avvolto da un vortice di dialoghi che rischiano di sfiorare in più punti un livello di pericolosa stucchevolezza. Anche gli intermezzi affidati ai flash back, relativi alle domeniche che la famiglia ancora felice era solita trascorrere insieme o all’adolescenza tumultuosa di Louis, si arrestano spesso al livello del banale “già visto”.

La regia, prodiga di primi e primissimi piani che scavano dentro i personaggi, e la fotografia, pronta a sottolineare efficacemente alcune delle più significative svolte narrative, sono ovviamente impeccabili. Così come convincente risultano tanto il cast, già strepitoso “sulla carta”, quanto la sempre adeguata colonna sonora.

L’inquadratura del “faccia a faccia” tra madre e figlio, però, che rievoca quello celebre di Mommy, non riesce ad andare oltre la suggestione estetica rispetto a un film dotato di ben altro spessore emotivo e narrativo.

Data di pubblicazione: 9/12/2016


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IL CITTADINO ILLUSTRE di Gastón Duprat e Mariano Cohn, 2016

IL CITTADINO ILLUSTRE di Gastón Duprat e Mariano Cohn, 2016

Daniel Mantovani, premio Nobel per la letteratura, decide di tornare dopo quarant’anni nel piccolo paese Argentino in cui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Anche uno scrittore di successo come lui sarà costretto ad arrendersi alla tanto banale quanto inconfutabile evidenza per cui “ancora una volta la realtà supera la fantasia”.

Daniel Mantovani (Oscar Martínez, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Venezia 73) è uno scrittore argentino che ha scelto di abbandonare il suo piccolo e provinciale paese di origine in Argentina e ha coltivato in Europa la passione per la scrittura. Giunge persino a tagliare il traguardo del premio Nobel per la letteratura. Il suo discorso a Stoccolma è quello di un intellettuale che crede nell’arte come fattore di “disturbo” e di contestazione, ma che non può fare a meno di provare un appagante e narcisistico orgoglio per aver conseguito uno dei massimi riconoscimenti a livello mondiale.

Daniel riceve decine di prestigiosi inviti da ogni parte del mondo, che non ha alcuna intenzione di accettare o di onorare una volta accettati. Uno di quegli inviti, tuttavia, ha un sapore differente. Arriva attraverso “una lettera di carta” e il mittente è proprio il Sindaco di Salas, il suo paese natio, che vorrebbe ospitarlo per conferirgli l’onorificenza di “cittadino illustre”, il più alto titolo che la piccola comunità possa attribuire a uno dei suoi componenti.

Si tratta del luogo in cui Daniel ha ambientato tutte le sue opere letterarie, quel paese da cui i suoi personaggi non hanno mai avuto il coraggio di andar via e in cui lui non ha mai trovato, in quarant’anni, il coraggio di tornare. Dopo qualche indecisione, decide di salire su un aereo per l’Argentina. Da solo. Forse per ritrovare l’ispirazione che sembra appannata. Forse per regolare i conti con il passato. O forse con il solo scopo di non avere scopo alcuno.

Arrivato a destinazione, lo scrittore si vede ben presto costretto a scendere dall’Olimpo dei vezzi e delle richieste da star, per mescolarsi alla “gente comune”, ai loro ritmi, alle loro manifestazioni culturali (o pretese tali), alle cerimonie di dubbio gusto, alla curiosità “da telefonino”, agli alberghi che sembrano usciti da un film rumeno e che non dispongono di un letto con materasso in lattice.

La morale ha il sapore di un intramontabile luogo comune: la realtà supera sempre ogni più fervida fantasia. Senza contare che (altro topos sufficientemente esplorato dal cinema e dalla letteratura) non sempre la “gente rustica di campagna” è depositaria della rassicurante genuinità di valori incontaminati, posto che le comunità ristrette e lontane dalla rutilante corruzione cittadina possono rappresentare un nido in grado di proteggere, ma anche una trappola capace di soffocare.

Il film di Duprat e Cohn, però, è in grado di cogliere il senso più profondo di questi luoghi comuni. I toni narrativi si muovono lungo una pluralità di registri sempre sapientemente amalgamati, che restituiscono in maniera efficace la complessità del personaggio interpretato da Oscar Martínez: un cinico che cede ai buoni sentimenti, un artista travagliato che guarda con favore alla rassicurante quotidianità della gente “normale”, uno scrittore che vorrebbe cambiare la realtà ma che in quella realtà finisce per rimanere intrappolato. Persino la gente di Salas fatica a distinguere i personaggi dei romanzi di Mantovani dai loro concittadini, rendendo fitta e appassionante la trama in cui diviene sempre più complicato tracciare una marcata linea di confine tra l’immaginazione e il reale.

Il cittadino illustre è il film scelto dall’Argentina per la corsa all’Oscar come miglior film straniero.

Data di pubblicazione: 7/12/2016


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