THE DANISH GIRL di Tom Hooper, 2016

THE DANISH GIRL di Tom Hooper, 2016

Il premio Oscar Eddie Redmayne presta i lineamenti muliebri e l’istrionico talento di attore al personaggio di Lili Elbe, che sottoponendosi nel 1930 a un intervento chirurgico per ricongiungere il corpo maschile all’anima femminile, diviene la prima riconosciuta transessuale della storia.

Tratto dall’omonimo romanzo firmato da David Ebershoff, The Danish Girl di Tom Hooper (Il discorso del ReI miserabili), presentato durante la 72. Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, assume la consistenza di un affresco tanto dirompente quanto delicato di quella che, dall’inizio alla fine, resta un’intensa storia d’amore. Einar Wegener (Eddie Redmayne) e sua moglie Gerda (Alicia Vikander), entrambi pittori: lui ama dipingere paesaggi, esibendo un talento già ampiamente riconosciuto; lei preferisce dedicarsi ai ritratti, senza però trovare la sua reale ispirazione. Il gioco quasi puerile di posare per Gerda in abiti femminili diviene la scintilla in grado di far deflagrare una bomba già innescata da tempo nel cuore e nella mente del giovane artista. Einar adora truccarsi e atteggiarsi “come una donna” perché Einar “è una donna”. In un momento storico in cui la sua condizione si trova etichettata come anomalia biologica dalle mille diagnosi, destinata alla “cura” con trattamenti terapeutici invasivi o al confino nelle tenebre ghettizzanti del manicomio, la presa di consapevolezza di Einar-Lili non è né scontata né agevole. La proiezione socio-culturale della storia cede tuttavia il posto alla dimensione di intima transizione vissuta dai due protagonisti, che si prendono coraggiosamente per mano mettendosi in cammino lungo un sentiero forse doloroso ma indubbiamente doveroso. Il tutto incorniciato da una natura sontuosa e scandito da quell’arte pura e salvifica che, sempre a Venezia 72, era già comparsa in Francofonia Marguerite.

Il tessuto narrativo si caratterizza per l’apprezzabile rievocazione di un’infanzia priva, per una volta, di traumi pronti a giustificare la “particolarità sessuale”, anche se, tralasciando il cliché dell’inversione dei ruoli all’interno della coppia (è Genda il vero “maschio” tra i due), il passaggio da una fase all’altra della complessa metamoforsi-rinascita del protagonista appare a tratti segnato da transizioni troppo bruscamente repentine per risultare del tutto credibili.

L’interpretazione di Redmayne, semplicemente perfetta nella sua sorprendente capacità di lasciar trasparire la vibrante emozione della progressiva presa di coscienza, è senza dubbio una prova da premio. Ciò che importa, come ha precisato l’attore intervenuto in conferenza stampa a Venezia, è tenere distinto il “genere” dalla “sessualità”, secondo logiche e meccanismi che ha potuto imparare a comprendere attraverso il proficuo e generoso confronto con molti transgender, il cui aiuto si è rivelato prezioso per la preparazione del ruolo. Alicia Vikander si inserisce nel film con convinzione e indispensabile complementarietà. Nel cast anche Matthias Schoenaerts (Un sapore di ruggine e ossa, A bigger splash, Suite francese) e Amber Heard.

data di pubblicazione 18/02/2016


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RENZO ARBORE – LA MOSTRA “VIDEOS, RADIOS, CIANFRUSAGLIES”

RENZO ARBORE – LA MOSTRA “VIDEOS, RADIOS, CIANFRUSAGLIES”

(Macro – Roma, 19/12/2015 – 03/04/2016)

 Lasciate ogni tristezza voi ch’entrate è il monito che accoglie il visitatore della mostra Videos, radios, cianfrusaglies e che introduce nel meraviglioso e sfavillante mondo di Renzo Arbore. L’esposizione, allestita presso i locali del Macro di Roma, rende omaggio a uno dei più poliedrici rappresentanti dello spettacolo contemporaneo: musicista colto e lungimirante valorizzatore di talenti, primo DJ italiano e ardito sperimentatore cinematografico.

Renzo Arbore, però, è soprattutto un viaggiatore instancabile e un appassionato osservatore del mondo che lo ospita, con l’inguaribile (s)mania di comprare quelli che alcuni definiscono gadgets, altri cianfrusaglie, ma che secondo lui restano autentiche “stronzate”: oggetti di scarso valore intrinseco, quasi sempre di dubbio gusto, immancabilmente di plastica, che solo legati al nome di Renzo Arbore potevano trovare la via per finire esposti in un museo. Bisogna comprarli come quando si fa una rapina, senza pensarci troppo, avverte Arbore: perché se ci fermasse anche solo un momento a riflettere, il coraggio di portare a termine quell’acquisto verrebbe inevitabilmente meno.

L’aspetto più interessante della mostra è certamente il viaggio perennemente sospeso tra la dimensione pubblica e quella privata di un mattatore che non smette di affascinare il suo pubblico. Le copertine di giornali e delle riviste che hanno segnato in maniera irreversibile e riconoscibile molti dei decenni appena trascorsi, la collezione di occhiali tra cui si distinguono quelli di Mariangela Melato, la passione viscerale per la musica jazz, gli “abiti di scena” (camicie, cravatte, gilet e cappelli) che hanno reso Arbore riconoscibile al grande pubblico, i versi di riconoscenza di Roberto Benigni. Il tutto intervallato da installazioni video e autentiche “postazioni cinematografiche”, che proiettano quei frammenti di televisione da quali emerge con immutata chiarezza una geniale attitudine all’arte e alla sperimentazione.

Un originale viaggio tra immagini, suoni e colori che non lascia disattese le aspettative.

Unica nota dolente: il prezzo del biglietto all’entrata e il costo dei gadgets in vendita all’uscita, che tratteggiano un listino prezzi indubbiamente assai lontano dalla “cianfrusaglies-filosofia”.

 

STEVE JOBS di Danny Boyle, 2016

STEVE JOBS di Danny Boyle, 2016

La “ vera storia” di Steve Jobs, rivoluzionario dell’informatica e del marketing, sembrerebbe un invito a nozze per ogni sceneggiatore. Steve Jobs e la Apple, con il futuristico disegno di rendere democratico il computer dotandolo di mouse e di icone, ma mantenendolo elitario attraverso la tecnologia end to end. Steve Jobs dell’ormai leggendario Stay hungry, stay foolish. Steve Jobs che arriva persino al sogno del cinema attraverso la Pixar.

Si correva forse il rischio di dire troppo o di dimenticare qualcosa scegliendo di raccontare tutta la “vera storia” dell’eroe della Apple. Aaron Sorkin (The social network) e la sua sceneggiatura si assumono allora la responsabilità di una scelta definita e, in qualche modo, radicale. Steve Jobs, diretto dalla sapiente macchina da presa di Danny Boyle, assume le sembianze di un’opera in tre atti. Tre presentazioni di altrettanti prodotti, che hanno segnato, nel male e nel bene, la parabola professionale e umana del genio ribelle Jobs, portato sul grande schermo dal talentuoso Michael Fassbender (nelle sale anche con Macbeth).

Nel 1984 viene svelato agli addetti ai lavori il Macintosh 128K: una passo in avanti forse troppo precoce per lo stato di avanzamento della tecnologia dei primi anni Ottanta, che si rivela un insuccesso commerciale e che condurrà alla rottura dei rapporti tra Jobs, la Apple e il suo amministratore delegato John Sculley (Jeff Daniels). Il 1988 è l’anno in cui Jobs si presenta da solo sul palcoscenico con NeXT Computer, il “cubo imperfetto”: è una fase di voluta transizione, che prepara il ritorno del figliol prodigo nella casa della “mela con il morso”. Nel 1998 è la volta dell’iMac: è chiaro a tutti che il momento della svolta è arrivato e che da quella svolta sarà molto difficile tornare indietro.

Lo spettatore assiste alle convulse prove dei tre discorsi di presentazione, in cui le strategie di mercato e le aspettative del visionario Jobs sono sempre legate a filo doppio alle sue controverse vicende personali: l’adozione che ha segnato la sua infanzia, il complicato rapporto con la figlia Lisa, l’incapacità di instaurare con gli amici/collaboratori un rapporto fatto di fiducia e rispetto e la riluttanza ad andare oltre il mito del genio solitario e incompreso. Perché forse un genio è strutturalmente incomprensibile. Ma si può essere geniali anche senza essere scorretti, come fa notare Steve Wozniak (Seth Rogen), compagno di avventura di Jobs fin da quel garage della Silicon Valley in cui tutto ha avuto inizio.

La sceneggiatura, caratterizzata da dialoghi intensi, incisivi e mai fuori tempo e fuori luogo, rappresenta indubbiamente il tratto più caratteristico del film. Pienamente convincenti anche le interpretazioni del protagonista Michael Fassbender e di Kate Winslet, nel ruolo di Joanna Hoffman, capo marketing che si carica anche del difficile ruolo di paziente e fedele “moglie da ufficio”.

La scelta di enfatizzare il ruolo dello Jobs padre, compagno e amico era indubbiamente rischiosa e forse non risulta del tutto convincente rispetto alla vicenda di un uomo che ha immaginato, coltivato e realizzato un sogno tecnologico e una sfida commerciale senza precedenti. Anche un uomo straordinario resta in fondo un uomo comune, ma il mondo è pieno di uomini straordinariamente comuni che il cinema può e deve raccontare. Un film che si intitola Steve Jobs crea delle aspettative indubbiamente elevate, proprio come quelle che l’uomo evocato dal titolo era in grado di plasmare. Aspettative che i 122 minuti di fuoco di dialoghi pressoché ininterrotti e la marcata vena “intimista” non sempre sembrano in grado di soddisfare, restituendo un ritratto già chiaramente tratteggiato dalle pagine di Wikipedia.

data di pubblicazione 24/01/2016


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IL FIGLIO DI SAUL di László Nemes, 2016

IL FIGLIO DI SAUL di László Nemes, 2016

Saul Ausländer (interpretato dal superbo Géza Röhrig). Il nome di un condottiero biblico e il cognome che in tedesco significa “straniero”.

Saul, ebreo ungherese deportato in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale, è affidato al Sonderkommando, il gruppo composto dai prigionieri più forti e resistenti, periodicamente “rinnovati”, impiegati dai tedeschi come “manovali della soluzione finale”. Spetta (anche) a loro, infatti, il compito di assicurare l’efficiente funzionamento dell’implacabile catena di montaggio che parte dalle camere a gas, passa per i forni crematori e arriva alla dispersione dei cadaveri polverizzati. Prigionieri che si trasformano in Geheimnisträger, custodi di segreti, ingranaggi di un meccanismo oliato da quel sangue che devono con cura lavare via dal pavimento.

Proprio durante le operazioni di pulizia di una camera della morte, l’attenzione di Saul viene irresistibilmente attratta da un ragazzo: non si tratta di uno dei tanti stücke (pezzi) senza vita e senza forma, ma di quel figlio evocato (invocato?) dal titolo del film. Lo scopo di Saul diviene allora trovare all’interno del campo un rabbino che possa prestargli assistenza per recitare il kaddish e offrire al giovane corpo uno degna sepoltura.

Il figlio di Saul è il racconto di un viaggio attraverso l’Inferno. È il racconto dell’instancabile ricerca di uno scopo. È il racconto della sana follia in grado di traghettare al di là del bene e del male. È il racconto del coraggio, non importa quanto consapevole, di preservare un barlume di umanità anche nella notte in cui tutto sembra diventare disumano e anche quando la maggioranza non riesce a percepire la consistenza di una priorità necessariamente assoluta: proprio come un condottiero straniero, che può sembrare blasfemo agli occhi di chi non ha gli strumenti per comprendere il suo linguaggio.

Se, per restare ai film attualmente in sala, Il labirinto del silenzio racconta l’Olocausto ponendosi dalla “distante” prospettiva della ricostruzione processuale che interviene nel momento della quiete, Il figlio di Saul sprofonda nel ventre del lager e si fa largo tra le viscere dell’orrore proprio quando la tempesta raggiunge l’apice della sua forza distruttiva. L’esordiente László Nemes, tuttavia, non indulge ad alcuna enfasi eccessiva e non sfiora neppure da lontano il rischio di inciampare nella retorica ammiccante. I dialoghi lasciano il posto tanto alla Babele di urla e rumori che da fuori campo invadono la scena quanto alla regia, sempre chiaramente visibile ma mai stucchevolmente esibita. Gli stücke ammassati e vilipesi restano spesso fuori dalla messa a fuoco, mentre la macchina da presa segue con meticolosa precisione il volto di Saul, la sua nuca, le sua mani, i suoi sguardi, incorniciati (ingabbiati?) dal formato 4.3 e impreziositi dalla pellicola 35mm.

Già vincitore del Grand Prix speciale della Giuria al Festival di Cannes e del Golden Globe come miglior film straniero, Il figlio di Saul è in corsa per l’Oscar. Un film da vedere. Un film che si lascia ricordare.

data di pubblicazione 23/01/2016


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IL LABIRINTO DEL SILENZIO di Giulio Ricciarelli, 2016

IL LABIRINTO DEL SILENZIO di Giulio Ricciarelli, 2016

Malgrado le numerose pellicole che, sia pur in maniera molto diversa tra loro, hanno portato sul grande schermo il misto di attonito orrore e incredulo imbarazzo suscitato dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti, Il labirinto del silenzio dimostra come il binomio “cinema e Olocausto” non abbia ancora esaurito le sue potenzialità.

Il film, di produzione tedesca e primo lungometraggio dell’italiano Giulio Ricciarelli, muove da una prospettiva indubbiamente originale, raccontando il processo tenutosi a Francoforte dal 1963 al 1965 per i fatti commessi nel campo di concentramento di Auschwitz.

Non si tratta dei processi di Norimberga. Non si tratta neppure del processo ad Eichmann tenutosi in Israele. Non si tratta, insomma, dei processi dei vincitori che pretendono di imporre ai vinti la Giustizia amministrata da Tribunali istituiti ex post e ad hoc, ma del primo processo svoltosi in Germania, davanti a giudici tedeschi e secondo le leggi scritte da un Parlamento faticosamente divenuto democratico. Senza contare che gli imputati non sono i vertici della gerarchia nazista, ma la base del partito, costituita da persone “normali”, tornate dopo la guerra dalle loro mogli, nelle botteghe da fornaio, o, perché no, a insegnare nelle scuole.

Una svolta al tempo stesso giuridica e culturale, una tappa decisiva nella lenta e faticosa presa di coscienza della giovane democrazia tedesca, che pretendeva o, semplicemente, sperava, di seppellire sotto una coltre di indifferente silenzio la proporzione dei crimini nazisti. Una pagina cruciale della storia recente, che il lavoro di Ricciarelli ha l’indubbio merito di aver tirato fuori dagli scaffali polverosi degli “addetti ai lavori”.

Johann Radmann (Alexander Fehling) è un giovane pubblico ministero che muove i suoi primi passi nel Tribunale di Francoforte, sostenuto dalla forza esercitata, a suo parere, dall’intransigenza della Legge: il codice non ammette eccezioni, neppure quando si tratti di comuni violazioni del codice della strada. Alcune provocazioni del giornalista Thomas Gnielka (André Szymanski) dirottano la sua attenzione sul personale in servizio ad Auschwitz durante la guerra. Il nome della cittadina polacca è ancora lontana dal divenire l’icastica metonimia del genocidio che contribuì a realizzare: molti sanno, tanti preferiscono non sapere, troppi scelgono di tacere. Il codice penale, però, consente di qualificare come “omicidio” i fatti commessi nel lager. E se l’omicidio è un reato non ancora prescritto, si può procedere con le indagini. E se ad Auschwitz prestavano servizio ottomila uomini delle SS, quegli uomini tutti potenziali indagati.

Il labirinto del silenzio non mostra le uniformi, le baracche del campo stracolme, i corpi straziati, le camere a gas, gli abominevoli esperimenti sui bambini condotti dal dottor Mengele. Le immagini che si mostrano agli occhi dello spettatore attraverso i racconti degli innumerevoli testimoni ascoltati da Radmann e le carte che faticosamente compongono la gigantesca mole dei fascicoli processuali sono dotate però di una carica espressiva altrettanto straordinaria.

Il personaggio di Radmann viene fuori dalla penna degli sceneggiatori Elisabeth Bartel e Giulio Ricciarelli, ma è reale la storia che la sua toga contribuisce a scrivere, così come reale è la figura del Procuratore generale Fritz Bauer (interpretato da Gert Voss), autentico artefice dell’opera di disvelamento della storia messa in moto dalle apparentemente temerarie indagini del suo giovane procuratore.

Il film è indubbiamente scritto in maniera magistrale, diretto in modo efficace e interpretato in maniera convincente. Qualche ingenuità e imprecisione di troppo, sembrerebbe, nella traduzione italiana del lessico giuridico.

data di pubblicazione 17/01/2016


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