INTRATTENIMENTO VIOLENTO di e con Eleonora Danco

INTRATTENIMENTO VIOLENTO di e con Eleonora Danco

(Teatro Argot Studio – Roma, 18-21 gennaio 2024)

Un furioso corpo a corpo con la quotidianità. Linguaggi di strada, un the best of quanto mai gradevole vissuto a pochi centimetri dalla protagonista nel teatro bomboniera di Trastevere.

Ne ha fatta di strada Danco dalle comparsate di Un Medico di famiglia di un quarto di secolo fa quando si palesava nel ruolo di aspirante fidanzata (respinta) di Giulio Scarpati. Si è inventata un teatro di performance tutto suo, un sentiero poco battuto che l’accomuna ai grandi solisti della scena nazionale (Rezza ad esempio). Nella quattro giorni di Trastevere interpreta lacerti di repertorio della vita che respira per Roma. Non rinunciando all’invettiva, al turpiloquio, nello scontro verbale tra due protagonisti (uomo/donna, mamma/figlia) praticando l’arte dell’affabulazione sovraeccitata in cui è maestra. Non un semplice e lineare reading perché c’è viva partecipazione fisica. Picchiando la testa al muro, rotolandosi nella scena nuda, fingendo di dimenticare la parte (un palese scherzo al pubblico). Si è conquistata con quest’altra tappa la fiducia rinnovata dei suoi estimatori. E non potrebbe avere altro palcoscenico quello di teatri cantina dato che si perde negli ampi spazi di luoghi tradizionali. C’è accorata disperazione nel suo monologo alla caccia di senso di una città inafferrabile e per certi versi spietata che concede a tratti rari barlumi di umanità. Danco brandisce la mano e il volto per ghermirli in un afflato di commossa empatia con il pubblico. Un teatro che non ha bisogno di scenografie e di fondali che ci fa pensare a Lenny Bruce. Non è Roma nord lo scenario di autentici deliri quanto la capitale delle periferie e dell’emarginazione, nell’anelito della soddisfazione di bisogni primari. Un’ora funzionale di testi amari, a tratti suscitanti risate. E fa spettacolo anche la congerie di fogli del copione lanciati al vuoto che rappresentano la base per un’improvvisazione a tratti stordente.

data di pubblicazione:19/01/2024


Il nostro voto:

GINGER E FRED

GINGER E FRED

di Federico Fellini, Tonino Guerra e Tullio Pinelli, adattamento e regia di Monica Guerritore, con Monica Guerritore e Massimiliano Vado

(Teatro Quirino – Roma, 16/21 gennaio 2024)

Trentasette anni dopo il cinema rivisitato a teatro passando per la televisione. Ma la tensione ormai è decotta. Berlusconi non c’è più e anche Mediaset, eliminato il trash, non si sente troppo bene.

I nomi tutelari di Fellini, Guerra e Pinelli campeggiano nella locandina ma appaiono infinitamente lontani da un progetto attuale di contestazione degli stilemi più efferati della televisione commerciale. Tanta brutta televisione non è passata invano e la sua critica è stata metabolizzata e ora appare scontata. Monica Guerritore, regista in affidamento di una complessa macchina scenica, non osa abbastanza per riscattare il lirismo del rapporto intimo e personale, un po’ nostalgico tra Ginger e Fred e deve fare i conti con una sinergia teatrale (e i suoi tempi) tutta da recuperare dopo che il partner è venuto meno per un incidente e il sostituto ha dovuto rodarsi in una settimana di full immersion. Dunque la continuità dello spettacolo appare e scompare, a volte si inabissa e la corrosività sulla televisione è evaporata, complice la scelta a monte del tema. E quasi spereresti che Guerritore si stacchi dal copione e si produca in qualche pezzo solista, manierato ma efficace. Si chiede la partecipazione del pubblico come per un programma in diretta. I sosia ce la mettono tutta in uno spettacolo costoso ricco di musiche e di coreografie oltre che di una scenografica complessa e interessante. Ma tra un Malgioglio e un classico della Rogers/Astaire non si respira l’aura felliniana se non per vaga approssimazione. Le atmosfere della prima sicuramente possono respirare di maggior calore nel prosieguo. Curiosità: Ginger Rogers aveva cercato di far causa a Felini per l’indebito sfruttamento del suo carisma.

data di pubblicazione:17/01/2024


Il nostro voto:

IL PUNTO DI RUGIADA di Marco Risi, 2024

IL PUNTO DI RUGIADA di Marco Risi, 2024

Il ritrovo concentrazionario degli anziani in una casa di riposo e di cura non è ovviamente un inedito assoluto. Risi cerca su un progetto di lunga data di innestare il ricordo vivo e personale del lento spegnersi del padre Dino, un nome che qui si rimaterializza. Congrega di attori navigati e over 75 a contrasto generazionale con i due scapestrati giovani condannati ai servizi sociali. Un contrasto che è anche attoriale. Dalle iniziali incomprensioni si arriverà a un punto di svolta felice ma pure plumbeo.

 

È un mondo senza età, fatto di amnesie, tic piccole e grandi manie, quello degli anziani, qui rigorosamente chiamati ospiti, a cui portano la scossa i due giovani coattivamente costretti a rendersi utili dopo essere stati colpevoli protagonisti di un grave incidente stradale. Scontri iniziale e poi progressiva coesione. Il film risente di una programmaticità troppo estenuata e libera la leggerezza della sceneggiatura in almeno due scene che deviano dal tema previsto. Cinque anni di incubazione probabilmente non hanno giovato alla freschezza dell’impianto. Sulle note di Riderà di Little Tony si libera un ballo contaminante giovani/vecchi che trascina anche lo spettatore. Poi sulla neve gli anziani risvegliano pulsioni infantili. Risi fa deflagrare la contraddizione tra il mondo chiuso di esistenze destinati a spegnersi con l’ondata del Covid e il mainstream dei ragazzi, adusi alla cocaina e a un mondo di assoluta diversità. Merito del regista aver riunito una congrega importante di attori sottoutilizzati dal cinema che qui ritrovano verve nel progetto collettivo. Dal relativamente più giovane Maurizio Micheli a una quasi irriconoscibile Erica Blanc. Scherzano anche su se stessi gli over tra realtà e cinema. Per i più curiosi il punto di rugiada è l’intersezione meteorologica tra il freddo e il caldo: metaforicamente quello tra vecchi e giovani.

data di pubblicazione:17/01/2024


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TERZO TEMPO

TERZO TEMPO

tratto dall’omonimo romanzo di Lidia Ravera, regia ed adattamento di Emanuela Giordano, con Enzo Decaro, Emanuela Giordano, Maria Chiara Augenti, Francesco Brandi

(Teatro Il Parioli – Roma, serata unica 15 gennaio 2024)

Sala piena per la prima puntata della rassegna Lingua Madre, la drammaturgia italiana a confronto tra commedia e dramma. Con un eloquente sottotitolo: il teatro italiano non fa schifo. Sagace riduzione di un ben più vasto e ambizioso romanzo. Reading per quattro voci con bacio finale a suggellare l’happy end. Un’ora di teatro avvincente con tante note comiche e quattro interpreti di diversa popolarità ma tutti molto bravi.

 

Terza età in agguato per una coppia di separati di fatto che decidono di vedersi un giorno alla settimana per non recidere definitivamente i cordoni ombelicali. C’è un’altra lei (Evelyn) nella vita di lui ma non così determinante da intersecarsi pericolosamente nei rapporti tra coniugi navigati e che conoscono benissimo pregi e limiti dell’altro. Si profila un’eredità inaspettata come buen retiro affettivo e spirituale. Impresa della moglie con marito solidale e due coprotagonisti giovani ad assorbire e/o acuire le tensioni e il tutto. Il terzo tempo è quello del rugby ma anche quello di due esistenze capaci ritrovarsi in un progetto comune. Si ride a tratti amaramente con i dialoghi di una coppia collaudata capace di riannodare i fili perduti, mandando un messaggio di speranze ai presenti omogenei generazionalmente. Il reading in genere è un teatro limitato e limitante senza scenografia ma qui il lavoro collettivo funziona e ha il sapore della verità. La Ravera in platea ammicca e l’intento di chi ha cuore la scena è di trovare una produzione che possa trasformare questa prova generale in uno spettacolo vero, ricco e assortito. Appaiono robuste basi per la trasformazione. Un plauso a Piero Maccarinelli che ha il coraggio di osare. Attori non ricompensati se non dagli scroscianti applausi. Si replicherà ogni quindici giorni creando uno zoccolo duro di appassionati fedeli.

data di pubblicazione:16/01/2024


Il nostro voto:

THE MIRACLE CLUB di Thaddeus O’Sullivan, 2024

THE MIRACLE CLUB di Thaddeus O’Sullivan, 2024

Ha un sentore di non spiacevole già visto vintage che nel tritatutto converte molti temi: il perdono, la riappacificazione, un bizzarro impatto con la religione. Il tutto smosso da una proposta di viaggio a Lourdes. E sul cammino di un impossibile miracolo le tensioni si sciolgono e quattro donne ritrovano una via comune di comprensione e perdono.

  

Il carisma delle navigate protagoniste costituisce un buon appeal per un prodotto che non potrà avere grandi esiti al botteghino ma che sulle vocazione di buoni sentimenti, sotto natale, induce a una visione serena seppur priva di punte di qualità. La vecchia Irlanda di una generazione passata con altrettanto navigati eroi (Stephen Rea) e un buon sentore di provincia come miscela di partenza. Si respira anzianità e pregiudizio con una situazione legata a un aborto e a un suicidio, evocati e non descritti, altamente drammatici. Del resto perché perdere l’occasione di godersi la quasi novantenne Maggie Smith, anziana cinematograficamente forse da sempre a cui auguri di avere come spalla un Helen Mirren, unica assente in questo gotha di quarta età. Pellicola garbata, a tratti lieve la cui cartina di tornasole è la speranza del cambiamento. Il finale non è banale. Perché un sommesso miracolo c’è. E si aggiunge ai 62 distillati a Lourdes in una storia più che centenaria. Il rosso bambino irlandese che non pronunciava parola alla fine parla in una scena però in cui non l’ascolta nessuno. Segno che il regista non vuole adire a un happy end troppo banale e scontato. In fondo un prodotto medio del genere fa riflettere anche sull’esistenza di Dio. La frase chiave è quella del religioso che guida la spedizione. Per vivere non bisogna aspettarsi miracoli. Nel nostro destino c’è sempre fatica e dolore.

data di pubblicazione:09/01/2024


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