ROMA EUROPA FSTIVAL Orestes in Mosul, regia di Milo Rau

ROMA EUROPA FSTIVAL Orestes in Mosul, regia di Milo Rau

(Teatro Argentina – Roma, 23/25 settembre 2019)

Il regista svizzero Milo Rau torna al Romaeuropa Festival con Orestes in Mosul, in scena dal 23 al 25 settembre al Teatro Argentina, in prima nazionale dopo avere debuttato proprio nella città di Mosul. Malvagità, bramosia di potere, sete di vendetta e sangue che chiama sangue. L’Orestea, la trilogia classica di Eschilo e lo sfondo della guerra di Troia viene rivissuta in Iraq, per raccontare la violenza dell’Isis ed il massacro di un popolo e di una terra.

 

 

Un lavoro concepito a Mosul, con la compagnia NTGent e con artisti locali e gente comune, militanti, poeti e cittadini del luogo dove si consuma la tragedia e dove nella culla dell’antichità rivive l’orrore del passato prossimo e del presente.

Orestea ambientata nel contesto della situazione siriano-irachena e del trattamento riservato ai reduci jihadisti: il ciclo della violenza ed il destino sanguinario degli Atridi rivivono in Iraq e in una terra martoriata e senza pace. Gli omicidi concatenati della saga diventano il simbolo di una storia umana attualizzata attraverso le presenze dei protagonisti e soprattutto, attraverso gli scorci devastati di Mosul e le interviste, secondo una dolorosa sovrapposizione di attori in scena e di immagini che scorrono alle spalle.

Ma quella che è una persecuzione per volere degli dei e che in Eschilo si risolve grazie al perdono di Atena, che porta la pace e la riconciliazione, ponendo le basi della democrazia come può essere oggi sconfitta? Soltanto gli uomini sono responsabili della loro azione, ma come ricostruire oggi dopo la guerra? quale giustizia mettere in atto verso i jihadisti? Che perdono concedere agli assassini?

Tra reportage e rappresentazione il teatro inchiesta di Milo Rau torna a parlare di violenza, compassione e perdono non solo per rappresentare le storie ma soprattutto per scuotere le coscienze ed essere parte attiva del cambiamento, secondo i dettami del Manifesto per un teatro contemporaneo stilato dallo stesso Milo Rau nel 2018, al suo arrivo alla guida del Teatro NTGent in Belgio.

Lo schema della tragedia viene mantenuto nella sua essenza e detta lo svolgimento dell’azione scenica tra ospedali da campo, palazzi fatiscenti, dormitori. Un reportage a puzzle tra classicità ed inviati di guerra, che vede la presenza del coro greco ma anche di macerie da bombardamenti, di una Ifigenia costretta a recitare velata, di Atena vedova di un giustiziato da Al-Quaida, di baci vietati tra Oreste e Pilade, per un viaggio emotivo a sobbalzi nel tempo che descrive l’orrore della violenza, ma anche la forza della vita e che rivendica, come celebrato da Eschilo, il ruolo della democrazia e della polis per il ripristino del valore della giustizia sopra quello della vendetta. L’Orestea come lectio per passare dalla tragedia della violenza alle regole di un ordine sociale e politico condiviso, dalla vendetta al perdono.

Un lavoro decisamente complesso che scuote, per una presentazione cosciente, una ricerca teatrale sulla violenza politica e sociale ma che richiama a una coscienza attiva di rivolta, all’arte come momento educativo ed aggregativo, al sentimento universale in contrapposizione al razzismo etnico. Solo cosi la catena atroce di violenza e vendetta può essere spezzata e dimenticata.

data di pubblicazione:27/09/2019

ROMA EUROPA FSTIVAL Furia, di Lia Rodrigues

ROMA EUROPA FSTIVAL Furia, di Lia Rodrigues

(Auditorium Parco della Musica –Roma, 17 e 18 settembre 2019)

Intensissima apertura del Roma Europa Festival 2019 con la prima italiana di Furia, a cura della coreografa Lia Rodrigues, alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica il 17 e 18 settembre 2019. Un lavoro che parla dolore e di violenza ma anche di speranza, ambientato tra i giovanissimi abitanti di una favela, nato proprio in quei luoghi dove la coreografa ha deciso di stabilirsi fondando un centro culturale e dando vita ad una compagnia di danza, alla periferia di Rio de Janeiro, dove oltre 4mila persone vivono in situazioni drammatiche.

 

Un lavoro politico che parla di lotte di classe e di colore della pelle, di attacco al governo attuale ed alla sua politica scellerata di distruzione dell’Amazzonia, di denuncia nei confronti di coloro che detengono il potere e gestiscono le vite umane.

Con Furia la coreografa brasiliana riflette sulla natura di un gruppo di individui che si confrontano con la loro solitudine e con la loro carne. Lo spettacolo è stato accompagnato da un collage di musiche della Nuova Caledonia, sonorità che sprigionano energia e forza di sopravvivenza. Un affresco devastante fatto di tribalità e rifiuti, di diseguaglianze, di povertà e sporcizia, ma anche di voglia di spogliarsi della sofferenza e di innalzarsi al di sopra delle macerie. Per Lia Rodrigues la favela è un luogo che chiede di essere riscattato. Ed è per questo che, quindici anni fa, ci si è stabilita con la sua Companhia de Danças, creando Furia, lo spettacolo che denuncia con crudezza la violenza della società delle favelas e la sottomissione dell’uomo all’uomo, che aiuta a riflettere su quanto iniqua possa essere la società, nei confronti di chi non può scegliere il proprio percorso.

Lo spettacolo è profondamente radicato in quel contesto e costruisce un dialogo con i suoi abitanti. Si percepisce come tale lavoro sia nato dalla stretta collaborazione con i 9 danzatori in scena, straordinari nelle capacità interpretative e nella loro verità, tutti giovanissimi e provenienti da quella realtà.

Furia è un affresco fatto soprattutto di occhi che raccontano e colpiscono, un tableau vivant in continuo divenire, un bassorilievo che fluisce lento ma inesorabile, che continuamente si trasforma per raccontare la propria essenza nuda ed esorcizzare violenza e povertà, un incontro di anime alla ricerca di sogni. Efficacissime le luci così come costumi e allestimento, che unitamente al ritmo tribale, disegnano un rituale contemporaneo che crea immagini magiche e intime frutto di una straordinaria pulsione creativa che ha voglia di vita.

data di pubblicazione:19/09/2019

AUGUSTO di Alessandro Sciarroni

AUGUSTO di Alessandro Sciarroni

(Teatro Argentina – Roma, 8/9 settembre 2019)

Il coreografo Alessandro Sciarroni, premiato alla recente biennale di Venezia con il Leone d’Oro alla carriera, ha portato in scena al Teatro Argentina di Roma, l’8 ed il 9 settembre scorso, lo spettacolo Augusto, una pièce che è un viaggio emotivo che parla di solitudine ed amari sorrisi.

 

Nove danzatori cominciano, uno dopo l’altro, a camminare in cerchio. I passi dettano un tempo costante che cresce, la camminata diventa più intensa e veloce ma sempre sussurrata e si trasforma corsa. I ragazzi sono come scossi da un risveglio ed iniziano a cercarsi con lo sguardo, sorridono, iniziano a ridacchiare prima quasi vergognosi, ma poi la risata diviene sempre più forte ed energica, fino a esplodere in un crescendo corale, convulso, irrefrenabile.

Talvolta alcuni danzatori si staccano dalla catena e si isolano al centro del gruppo, si abbracciano, ridendo o piangendo. Cercano un contatto, un’intesa. Il confronto però con il resto del gruppo è sempre una risata isterica, febbrile, di monito e distacco. L’intensità cresce senza tregua e senza coscienza, in uno stato di trance, mentre le risate forti e insistenti si mescolano a urla incomprensibili e impulsive.

Perché ridono? In Augusto la risata è la maschera, un meccanismo di difesa per nascondersi, per celare le proprie emozioni e la propria solitudine. Forse quelle urla, di strazio e di terrore, di puro dolore, offrono l’eventualità di una liberazione dalla contraddittoria schiavitù della risata

La velocità dei movimenti del corpo è direttamente proporzionale all’intensità delle risate, i gesti sono scomposti e sporchi, buttati fuori da una forza centrifuga, ma non sono liberatori. Movimenti sottolineati dall’uso dosato della musica elettronica ripetuta ed ossessiva e dalle luci che accompagnano il crescendo dell’azione.

Augusto è una dissertazione sul bisogno di sentirsi amati e sul dolore, attraverso la messa a nudo di un meccanismo espressivo basato sulla risata ad oltranza. Ridono di continuo, senza concedere a loro stessi e al pubblico la possibilità di capirne la ragione. Si ride fino a quando non ci si accorge che ci si è fatti male sul serio.

Spettacolo denso di spunti riflessivi che lascia però poco spazio alla passione ed al coinvolgimento emotivo.

data di pubblicazione:13/09/2019


Il nostro voto:

JOKER di Todd Phillips, 2019

JOKER di Todd Phillips, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Stupefacente prova d’attore per Joaquin Phoenix nel Joker di Todd Phillips, in concorso a Venezia. In una Gotham City in cui imperversa un crescente malessere metropolitano, fatto di immondizia, rabbia e violenza, di diseguaglianze sociali estremizzate, cerca di sopravvivere il debole Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) vittima di un grave disturbo che lo fa scoppiare in risate isteriche quando è sottoposto a stress emotivi rilevanti e che lo porta ad essere umiliato, deriso, malmenato ed emarginato.

 

Fleck vive con una madre anch’essa malata che ha rovinato irrimediabilmente la sua vita. Fa parte della schiera degli ultimi. Il suo sogno è quello di diventare un cabarettista, e magari essere un giorno ospite del suo show televisivo preferito, quello condotto dal comico Murray Franklin (uno straordinario Robert De Niro), ma nel frattempo si arrabatta come può travestendosi di clown. Sempre più ai margini, in un susseguirsi di vicissitudini grottesche, quasi vittima sacrificale di un disegno preordinato, non può che far esplodere la sua impotenza in una rivolta improvvisa e feroce verso tutti. Una trasformazione violenta e folle in un nuovo Joker la cui patologia viene eretta a simbolo di una rivolta popolare egualmente brutale e cieca, di cui diviene l’emblema suo malgrado.

In un panorama a fosche tinte tra le atmosfere de I Guerrieri della Notte e Taxi Driver, ma vicino anche all’indefinito futuro di Blade Runner ed agli scenari apocalittici di Romero, Joaquin Phoenix plasma un nuovo Joker a sua immagine e somiglianza, esorcizzando il suo passato ed il suo grandissimo talento. C’è lo sguardo folle di Nicholson ma anche la nera eleganza di Heath Ledger scomposti ed elaborati secondo una nuova fisicità, frutto di un lavoro ossessivo e profondo.

Joaquin Phoenix polarizza letteralmente tutto il film dalla prima all’ultima sequenza, grandissimo nel costruire un personaggio che dal fumetto rimanda ad echi letterari e a personaggi di spessore mostrando una profondità non comune.

Arthur Fleck è la risata ossessiva e disperata del disagio di oggi, anche se trasposto in un’atmosfera torbida da comics apparentemente lontana, fatta di sporcizia e di rabbia, di soprusi, di segreterie telefoniche e vecchi lettori VHS, in un’atmosfera nella quale servizi sociali e medicine non sono in grado di sostenere la fragilità del giovane Arthur e dei suoi sogni, aprendo di fatto la voragine della cieca follia. E Arthur non può che affondare nel dolore e nella violenza trascinando con sé tutta quella piccola umanità selvaggia. Non c’è speranza su questa terra, forse un po’ di luce e di candore gli sono destinati in un’altra vita, nella quale dar sfogo alla sua andatura sconnessa e sognante.

Un film decisamente bello e misurato, con un importante lavoro di regia e con tanti superlativi attori (De Niro in primis), ma condizionatissimo dal suo mostruoso protagonista, cui spetteranno certamente tantissimi riconoscimenti che non può non meritare.

data di pubblicazione:01/09/2019








EMA di Pablo Larraín, 2019

EMA di Pablo Larraín, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Pablo Larraín ha presentato in concorso al Festival Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia la sua settima pellicola, Ema, storia di una giovane donna testarda e carismatica, forte e determinata, anche quando tutto sembra precipitare.

Ema è una giovane ballerina di talento (Mariana Di Girolamo) che lavora in una compagnia guidata dal marito, il coreografo Gaston (Gael Garcia Bernal). Il matrimonio dei due è però a pezzi a seguito della scelta pesante di allontanare il bambino di sei anni che avevano adottato, Palo. Il problema è che il piccolo ha tentato di incendiare casa, deturpato il volto della sorella di Ema ed ha congelato un gatto. Ema tenta di superare il senso di colpa per non aver saputo gestire e crescere il bambino, accusando il marito di essere il responsabile di quanto avvenuto.

La storia si sviluppa tra le strade di Valparaíso, città portuale del Cile, un piccolo grande affresco pop delle nuove generazioni: abiti maculati e fasciati, paesaggi urbani scrostati, neon e fiamme, in compagnia della musica, il reggaeton apparente inutile ma alla fine adrenalinico: è ritmico, euforico, trasmette eccitazione ed erotismo.

I protagonisti si avvicinano e si allontanano, scaricandosi addosso le proprie frustrazioni. Ema entra in un vortice frenetico di esperienze estreme di sesso e distruzione piromane, per compiere la propria espiazione, coinvolgendo in questo vortice tutti coloro che le sono intorno.

In realtà dietro c’è un piano lucido che riesce a portare a termine. Cosa ci sia davvero dietro il suo sguardo vitale e folle eppure sempre fermo e deciso, lo si scopre negli ultimi dieci minuti di film.

È motivata da un implacabile individualismo, perché sa chiaramente cosa vuole ed è capace di sedurre coloro che la circondano per realizzare il suo disegno: essere madre ed avere una famiglia.

Un semaforo in fiamme, ed una donna con un lanciafiamme in spalla. È questa la traccia iniziale su cui il regista monta e smonta il racconto che va avanti su diversi piani temporali, nascondendo e rivelando in un ordine quasi casuale che permette a ciascuno di ricreare il proprio puzzle fatto di proprie ipotesi e deduzioni.

Ema è una stella che emana calore, un calore che quando è troppo forte brucia chi le sta vicino, ma che alla fine regala energia e vita proprio così come quel reggaeton che riesce ad accenderla, visto che è proprio il ballo a dettare il tempo, in un susseguirsi ora frenetico ora silenzioso di parole ed emozioni.

Nella finissima visione di Larraín c’è la distruzione del concetto di famiglia nella sua accezione tradizionale ma anche la sua ricostituzione in chiave non proprio convenzionale ma certamente efficace per tutti i protagonisti, il tutto supportato dall’espressione artistica per esorcizzare e guarire dal dolore, perché se un dolore ti ferisce, allora bruciare la ferita aiuta a guarire e a sopravvivere.

data di pubblicazione:01/09/2019