da Daniele Poto | Mag 23, 2020
Coraggiosa scelta quella di uscire con un libro di poetica quotidiana nei giorni confusi del coronavirus. Supremo sprezzo del pericolo? Ilaria Grasso non ha paura di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, come si direbbe con linguaggio vintage perché la voglia di osare è nelle sue precipue corde. Il libro lancia un senso di sfida ai luoghi comuni del mainstream ricollegandosi a quell’importante filone di poesia civile che ha due nomi di riferimento, pur diversi, come Franco Fortini e Nanni Balestrini. Senso delle cose da fare e sguardo più lontano e consapevole rivolto a un’utopia sullo sfondo. Un acuto senso di libertà pervade le pagine. L’ampio numero delle dediche è funzionale ad ancorare alla sua personalissima poetica e alle cornici di riferimento: donne in minoranza, lavoratori indifesi e, appunto, gli indomabili utopisti che si ribellano al tran tran del quieto vivere di una borghesia nazionale più che mai insidiata dalla crisi e dalla obsolescenza valoriale. Il libro è impreziosito dalla prefazione di Aldo Nove ma si potrebbe dire in un senso più generale dall’ampia filiera di riferimento culturale dell’autrice movimentista. Una poesia che non è ferma ma è atto politico, indice di movimentismo, occasione per scuotere radicalmente le coscienze. Un sasso nello stagno e scagliato con consapevole violenza. Scene di vita quotidiana irrituale, lampi di poesia nel buio di esistenze prosaiche. Il libro non ha sinossi di contro copertina perché ambisce a farsi giudicare solo per i suoi contenuti. Ma è anche un testo ironico, privo della serietà politicante, dei complottisti, dei molto diffusi profeti di ventura e di sventura. La Grasso maneggia il verso con padronanza lessicale. Accelera e frena con proprietà e lo stesso montaggio dei contributi poetici obbedisce a una questione di intima e delicata grazia interna. In copertina un rider, potrebbe anche essere quello che si è tolto la vita lanciandosi da un ponte a Firenze, dopo un licenziamento improvviso.
data di pubblicazione:23/05/2020
da Daniele Poto | Mag 17, 2020
Dalle note editoriali sembrerebbe un libro stampato per la prima volta in Italia e dunque inedito dall’originaria pubblicazione americana del 1942, in piena guerra mondiale. In realtà c’è stato un lancio con Fanucci, avveduto primo scopritore dell’autore di Getaway. Ora una riedizione globale a cura di un editore strapotente sul mercato. Ma non è un Thompson in gran forma. La narrazione appare a tratti sfilacciata ed incongruente anche se la potenza d’impatto del plot è sempre in agguato, vivida e pronta a risvegliarsi. Un Thompson che sembra afflitto dal bisogno economico nel pubblicare una storia che avrebbe meritato ben altra asciugatura e taglio. Comunque per metafora c’è il climax di una società americana avanzante ma pure pregna di dubbi con la deriva incombente di conflitti sociali, di una difficile quadratura familiare e varie tentazioni di fuga psicotica. Se è vero che un popolo di nevrotici è sempre sul punto di crollare e di sconfinare nella follia qui la deriva borderline è una continua minaccia alle pieghe della narrazione. Si può pensare a John Fante, alla difficoltà di sbarcare il lunario. Un noir a tratti violento che non sottintende un colpevole se non chi ha contribuito a disegnare questo tipo di relazioni, cioè alla fine lo Stato più potente del mondo. La suspense tende angosciosamente a tenere continuamente in ansia un lettore sospeso in un clima di incertezza del futuro, un po’ come tutti i protagonisti di questo variopinto bozzetto d’America. Thompson si conferma scrittore pieno di tensioni, dai risvolti inquietanti. L’insoddisfazione è la costante del protagonista e riverbera un senso di distruzione sul sogno americano. Vuoto e inconsistente perché poggiato su valori fragili e minimali (il denaro, il successo, l’affermazione sociale?). Tensioni che lo portano sempre sull’orlo della improvvisa esplosione con conseguente vendetta. L’uomo comune che esce dalla cronaca minimale ed entra nella cronaca nera. E c’è molto Jim Thompson e tanti dei patemi di scrittore. Affermazioni e riconoscimenti sofferti, in una carriera piena di alti e bassi. Ricompensata solo dall’acquisto dei diritti filmici su alcuni suoi romanzi più riusciti.
data di pubblicazione:17/05/2020
da Daniele Poto | Mag 12, 2020
Un testo di 107 anni fa può apparire singolarmente profetico sullo stato di conservazione e gestione di una capitale a cui il tempo non ha offerto miglioramenti rispetto alla visione d’antan di questo noto polemista. Trattasi di pamphlet nella forma delle provocatorie stroncature di uno scrittore sulfureo, in questo caso prefato dal più pacato Raffaele La Capria. L’aspetto anche editoriale più divertente del libro è che il puntuale report del discorso pronunciato nel 1913 al Teatro Costanzi di Roma (oggi Teatro Argentina) fu subissato di fischi e costellato di interruzioni. E tutti gli improperi degli astanti sono fedelmente riportati, mostrando anche il coraggio dell’oratore che sfida la platea con accenti sanguigni e una implicita forte derisione del valore della capitale. Verrebbe di riesumare l’antico detto: “Capitale corrotta, nazione infetta”, slogan figlio della cultura de Il Mondo. Qui siamo alla vigilia della partecipazione alla prima guerra mondiale e il Paese è in subbuglio, assolutamente non pronto per un evento del genere. Persino Mussolini era a quel tempo un “non interventista”. Papini vuole sinceramente far arrabbiare l’uditorio con un discorso – invettiva che ha il precipuo scopo di scatenare la polemica. Papini interpreta e giudica una Roma decadente e passatista, sentina di vizi e malvagità. Allo sfogo pubblico è abbinata un’intemerata su Benedetto Croce, giudicato troppo condizionante per la cultura dell’epoca nei tanti (troppi?) ruoli giocati: storico, filosofo, letterato, opinionista ante litteram. Come si legge Papini vuole togliersi di dosso sagome ingombranti: rispettivamente la città più rappresentativa del Paese e l’ideologo che sta formando una generazione. Definisce Roma “brigantesca e saccheggiatrice”, la descrive come una città povera d’ingegno e di capacità artistiche chiedendosi in effetti quale pittore e/o scultore di pregio abbia mai avuto la città eterna. Papini è un dinamitardo e le sue accuse non sparano a salve. Riveduti e corretti (traffico, decoro, corruzione, degenerazione della burocrazia) i problemi della capitale non sembrano poi enormemente cambiati.
data di pubblicazione:12/05/2020
da Daniele Poto | Mag 9, 2020
L’illuminante sottotitolo apre una luce sulla silloge critica di un rimpianto protagonista della cultura dei nostri tempi. Saggista, poeta, uomo di cultura che, fornito di un indole pacata, era capace di graffiare nell’esercizio recensivo con un’acutezza e una lucidità che non sembra più appartenere ai nostri tempi. La critica è svilita, ridotta a nicchie di puro ingombro sulle pagine dei quotidiani nazionali. Evaporata la critica che guidava il lettore verso approdi sicuri di lettura. Oggi impera il mainstream di Fazio, un contenitore dove si ricorre a libri di hit parade, in ragione di una logica commerciale di puro intrattenimento. Raboni ha radici culturali ancorate alla realtà. Come per Vittorio Spinazzola è ben presago del contesto in cui si collocano i suoi appunti e i suoi strali ed è anche cosciente di un ruolo orientatore che non si risparmia eventuali stroncature. Cinema, teatro, poesia, letteratura. C’è motivo di interesse vagando in giudizi che abbracciano non alla rinfusa ma con un criterio unificatore nomi come quelli di Woody Allen, Italo Calvino, Giorgio Gaber, Milan Kundera e Umberto Eco. L’attendibilità è il maggior pregio di un consulente di valore che ci accompagna in una accurata ricognizione nei meandri di possibile quanto oculate scelte. Meglio star zitti? Senz’altro no! Esprimersi, prendere posizione nell’alveo di quella che una volta si chiamava critica militante e che ha espresso personaggi come Giacomo Debenedetti, Alberto Asor Rosa, Walter Pedullà, Gianfranco Contini. Raboni avverte la responsabilità di guida di un work in progress non moralistico, fa sentire la pulsione costante verso l’oggetto della recensione. Distinguere il vero dal falso, il valore dal disvalore, l’autenticità dal mascheramento sembra la mission del lombardo che tradusse, tra l’altro, la mitica Recherche proustiana. Personaggio da rimpiangere. Anticonformista ma non per precetto con una massima significativa: una stroncatura serve alla buona salute della letteratura cento volte di più di un elogio infondato. Bene ricordarselo.
data di pubblicazione:09/05/2020
da Daniele Poto | Apr 24, 2020
Come Hitchcock condiva invariabilmente i propri film con il misterioso McGuffin egualmente Patricia Highsmith incrocia triangoli di morte con un trittico di personaggi, una composizione in cui compaiono generalmente due uomini e una donna. Formula di successo che non stanca se ben orchestrata. Il successo del film con Viggo Mortensen, Kirsten Dunst e Oscar Isaac ha invitato l’editore a rilanciare quella che rimane una prova decisamente minore nel robusto curriculum dell’ipocondriaca scrittrice amante dei gatti. C’è suspense e thrilling ma non verosimiglianza in questa storia di delitti e pedinamenti che si svolge tra la Grecia e Parigi con una disinvoltura logistica e una mancanza di credibilità nel plot francamente imbarazzante per chi ha assaggiato le migliori prove dell’autrice texana. Personaggi che si inseguono e che rinviano misteriosamente il proprio inevitabile regolamento di conti quasi che un’improcrastinabile tensione omosessuale li legasse. In un’overdose di passaporti falsi le polizie di buona parte d’Europa sembrano fare una brutta figura assistendo a questa sarabanda di spostamenti, all’apparizione di location (Cnosso ad esempio) che sembrano solo il pretesto per divagazioni archeologiche o modesti stratagemmi per allungare il brodo. Di fronte a tanta superficialità appare inspiegabile il ricorso a un killer (pagato) per eliminare uno dei contendenti e la mancata sorpresa del pagatore quando il possibile giustiziato gli ricompare fuori dalla porta della camera d’albergo e lui, per nulla meravigliato, lo fa entrare nella stessa. Come se il filo narrativo fosse stato perso e il libro dovesse essere portato a termine in qualche modo. Di fronte a tanta palese inverosimiglianza anche la struttura psicologica dei protagonisti smotta e riduce i personaggi a simil-macchiette. Il risvolto di copertina descrive il libro come elegante, seducente e sofisticato. Ci vuole molta buona volontà per aderire a questo sperticato encomio per una trama che si tiene su con forzature e penose spille di sostegno. Eppure la prima pubblicazione dell’opera è del 1964 e quello doveva essere il periodo d’oro dell’autrice.
data di pubblicazione:24/04/2020
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