da Daniele Poto | Ott 10, 2020
(Teatro Sala Umberto, Roma, 9/25 ottobre 2020)
Un duello in palcoscenico, una commedia a brillante che vira in dramma pulp e tutto nell’arco di un’ora per un sapiente gioco teatrale orchestrata da uno dei più prolifici e brillanti autori del panorama contemporaneo.
Riparte faticosamente una stagione con uno spettacolo recuperato dal programma 2019-2020 e già collaudato a Napoli. Capienza nel rispetto delle norme con una prima che è quasi una festa per la presenza di tanti colleghi anche inattivi e con difficoltà organizzativa non da poco vista la volontà ma anche la difficoltà di mantenere le distanze. Ma il gioco vale la candela perché c’è un’ora abbondante di succoso teatro tra due attori che mettono in opera una collaudata sinergia e un’intesa con un scambio emotivo che diventa anche inversione di gerarchie. L’apparentemente sprovveduto tecnico della luci gradatamente prende il sopravvento sul presuntuoso regista che lo tratta come un proletario da strapazzo. E i due attori sono bravi a propiziare questa trasmissione di tensione minuto dopo minuto. Testo da non spoilerare evidentemente che contiene un risvolto finale di grande presa. E c’è teatro nel teatro perché il testo base è quello di un Pirandello adattato goffamente all’attualità. E si ride volentieri per il Pirandello manipolato secondo moduli alla Tarantino. Niente è come sembra nel gioco dei ruoli. La dannazione del teatro sembra al centro della scena dominata da una scala che nessuno salirà in fondo. S’intravede lo scambio comunicazionale tra due attori che si conoscono dal 1992. Guidi dimostra di saper uscire dal profilo alto costruitosi negli anni con i ruoli comici. Nei mesi del coronavirus il modello teatro per due attori mostra ancora una volta la propria funzionalità, al di là dei ruoli mono-dimensionali del reading e dell’one man show. Peraltro la stagione del teatro romano è ancora un punto interrogativo anche se questo spettacolo è un incoraggiante punto di svolta per tutto il settore, non solo capitolino.
data di pubblicazione:10/10/2020
Il nostro voto: 
da Daniele Poto | Ott 8, 2020
Ascesa e caduta di una pro-femminista del passato secolo. Cantante lirica affermatasi in giovane età, poi soprattutto per quindici anni primo gestore del teatro dell’Opera di Roma, vivendo in prima persona un’epopea gloriosa della scena classica italiana, dialogando e litigando con Toscanini e Mascagni. Complici le difficoltà economiche e una notevole idiosincrasia per il fascismo viene gradatamente epurata e costretta a liberarsi della sua creatura. Morirà in un incidente d’auto nel 1928 quando la sua parabola si è interamente consumata..
Torna nelle sale come evento speciale un piccolo gioiello d’autore che, beffardamente, doveva uscire l’8 marzo, proprio il giorno più critico della prima ondata di coronavirus. Ed è un gioiellino cinefilo, un prodotto ibrido che si avvale di documentazione d’epoca (diversi i contributi) e della recitazione di Licia Maglietta che, anche in base a una notevole somiglianza, interpreta gioie e dolori di questa figura affascinante di impresaria che, in tempi non sospetti, si batte per le donne e con un piglio decisionista alimenta la stagione del Teatro dell’Opera senza eccessivi personalismi. Interverrà solo una volta in prima persona ricordandosi delle proprio non trascurabili dote canore. Un omaggio che ha il pregio di un’accurata sceneggiatura dividendo in capitolo un’esistenza che milioni donne vorrebbero avere la fortuna di poter vivere. Tacciata di un brutto carattere, di una dipendenza dalla cocaina, la Carelli precipiterà in un gorgo di diffidenza, alimentata anche dal Duce che pure venne omaggiato e riverito nel suo primo affacciarsi al teatro Costanzi. In 90’ si dipana una storia affascinante in cui si affacciano D’Annunzio, Caruso e il marito della Carelli, il disinvolto impresario Mocchi che, contestualmente, tiene banco tra Argentina e Brasile, tenendo vivo un doppio binario organizzativo, marito assente e spesso traditore. Risalta nella Carelli la personalità e una grana voglia di indipendenza. Bene ricordare che le donne italiane parteciparono al suffragio universale solo nel 1946. Dunque negli anni della Carelli e del fascismo la donna come prima missione doveva far figli, baionette per la patria. Bene, non dimenticarlo.
data di pubblicazione:08/10/2020
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da Daniele Poto | Set 26, 2020
Elie Wiesel il più grande romanziere yiddish secondo Elie Wiesel qui si produce in uno spaccato d’interno sull’ortodossia ebraica. Ambientazione: la Lituania del 1930, oggi sui territori della Bielorussia. L’impostazione maschilista della religione viene combattuta sottilmente con le arti dell’intrigo della diplomazia dalla moglie di un rabbino mite e tutt’altro che ambizioso. La donna, un magnifico ritratto di ascesa sociale, manovra tutti i personaggi del romanzo, tranne l’indomabile figlia. Ma non è un personaggio vincente perché conserva un fondo di frustrazione e di bipolarismo malsano. Grade descrive la società chiusa che ben conosce attraverso sette anni di studio del Talmud. Il testo è per lui una liberazione se dopo quell’esperienza tutte le attenzioni saranno dedicate alla poesia e dunque a un aspetto più lirico e meno cerebrale dell’esistenza. Nella sviluppo del racconto la religione assorbe tutti gl interessi ma la spiritualità non è di casa. Si è chiusi in un microcosmo concentrazionario di riti senza via d’uscita. La burocrazia rabbinica, il prestigio acquisito, il rispetto degli altri, sono le monete di scambio della narrazione. L’ironia pervade a tratti lo sviluppo anche se Grade appare completamente a proprio agio in una trama univoca e senza grandi scossoni. Un grande affresco di gruppo con inevitabilmente al centro Perele, la moglie arrivista che ha le idee molto più chiare degli uomini su dove vuole arrivare. Il suo sarà anche un percorso di vendetta nei confronti del rabbino che non l’ha voluta sposare. Le sue capacità manipolative sono notevoli anche se nel suo tentativo di esercitare un preciso controllo sulle situazioni ogni tanto qualcosa le sfugge. Poco attraente, intelligente, misterica, un ritratto di donna potente all’interno di una società chiusa nella propria ortodossia. Un universo che, per quanto ci raccontano, ancora sopravvive nelle torri d’avorio di Gerusalemme o Tel Aviv. Con una fermezza e un’irremovibilità che non sono più della religione cattolica.
data di pubblicazione:26/09/2020
da Daniele Poto | Set 6, 2020
Un progetto di emancipazione in Arabia Saudita. Con le ovvie complicazioni del caso. Primi ciak con la protagonista protetta dal velo musulmano, finale progressista-liberatorio. Uno sviluppo un po’ troppo veloce in meno di due ore in una società che cambia lentamente e in cui la resistenza alle pari opportunità è secolare. Si svelano esteticamente ed emotivamente bei profili di donne di fronte a cui i personaggi maschili vistosamente sfigurano.
Con anno di ritardo approda nella sale italiane (non troppe in verità e per chissà quanti giorni!) un film presentato alla 76esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica a Venezia nel 2019. Ma un anno cambia poco per l’immutabile scenario della sottovalutazione della donna in un continente che ancora non ha conosciuto il femminismo. Il progetto di candidatura nella comunità locale, maturato casualmente per la mancata partecipazione a un importante congresso, scatena nel medico stimato, un’ansia di rivalsa che è la molla del film. Una sorta di corto circuito che movimenta i rapporti con i pazienti, i familiari, l’ambiente circostante. Ci sono infermi maschi che non vogliono sapere di farsi visitare da una donna e che progressivamente si sciolgono e ne riconoscono l’abilità. E la candidatura è il grimaldello per cambiare e invertire rapporti basati sul pregiudizio e su una malintesa soggezione. La decisione della protagonista riesce a trasformare una sconfitta elettorale di misura in un grandioso successo, stante anche il chiaro riavvicinamento al padre, scettico ma alla fine solidale. Assistiamo all’evoluzione di una famiglia benestante che ha le chiavi per il cambiamento. Filmicamente la pellicola risulta un po’ ferma e priva di guizzi, soprattutto nel finale condividendo una narrazione lineare ma carente come mordente. Lo spettatore assiste a una sorta di didattica dell’emancipazione ma senza un reale salto di qualità estetico. In definitiva una prova di buona volontà, non assistita però da adeguato talento. I 104 minuti della co-produzione arabo-tedesca alla fine risultano persino troppo lunghi per la prevedibile dimostrazione a tesi che il regista si è proposto sin dalle prime inquadrature.
data di pubblicazione:06/09/2020
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da Daniele Poto | Set 4, 2020
Una pellicola distopica e maniacale. Puro cinema adrenalico mantenuto su livelli inestricabili di una trama quasi non riassumibile. Efficacemente un critico nostrano ha osservato che per decifrarla occorrerebbe una specializzazione aggiuntiva al corso di laurea in fisica nucleare. Fotogrammi dell’eccesso per una produzione senza limiti di spesa con le chicche aggiuntive di due presenze di spicco, un Michal Caine più british che mai e un Kenneth Branagh trasformato in intelligente russo cattivo. Omaggio alla co-produzione britannica.
Dieci anni di riflessioni e di rimaneggiamenti, cinque anni per scrivere la sceneggiatura. Ovvio che per Christopher Nolan, il regista di Interstellar, questo sia il film della vita e della carriera. Ma glien’è incolto con il coronavirus anche se l’imponente distribuzione in Italia ha propiziato lusinghieri incassi iniziali. Per entrare nel linguaggio specifico di Tenet bisogna essere un po’ esoterici senza trascurare James Bond perché l’esplosività della violenza è un diversivo per tenere alta la tensione in un film esageratamente lungo (147 minuti) con scene che si ripetono per il tema dell’inversione e del continuo rimpallo simbolico tra presente e passato. Un gioco a tratti raffinato, a tratti troppo scoperto per essere convenientemente fruito dallo spettatore. Il genere con cui viene catalogato il film è ibrido: c’è’ azione (un po’ di James Bond, anche), c’è fantascienza, c’è spionaggio, c’è thriller. C’è un po’ troppo nell’ansia di abbracciare e miscelare il cocktail con un sottofondo fondamentale: salvare l’umanità. Che non sembra perlomeno il principale scopo istituzionale della CIA, del KGB e del Mossad. Il protagonista principale, John David Washington, figlio di Denzell, non sembra dotato di una gamma espressiva troppo vasta e sembra un eroe solitario più che un dipendente di una grande agenzia di intelligence. Tante scene sono di difficile collegabilità e la presenza di nazioni outsider nel grande scacchiere internazionale (l’Ucraina a esempio) sembrano puramente accessorie. Per dire della grandeur che ispira l’operazione basti osservare il piccolo giro del mondo delle riprese: Danimarca, Estonia, India, Italia, Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti. Ma nella geografia variopinta e globalizzata inevitabile che ogni tanto la trama ristagni e soffochi, distillata in un succo di cartolina patinata. Il costo finale del film (205 milioni di dollari) vale più o meno quanto il possibile risparmio con il dimagrimento dei due rami del Parlamento Italiano. Riuscirà a ripagarli tutti? Scommessa davvero molto difficile.
data di pubblicazione:04/09/2020
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