da Anna Paulinyi | Mag 19, 2025
Perché un bambino cambogiano di quattro anni, adottato da una coppia italiana e portato in settimana bianca, si agita e si emoziona alla vista di semplici granai? Cosa accade quando, quindici anni dopo, la madre biologica di quel bambino contatta la famiglia adottiva italiana? Quali pensieri attraversano la mente di un ragazzo di diciannove anni al quale viene proposto di tornare in Cambogia per incontrare la madre naturale? Quanto tempo impiega un bambino adottato a dimenticare la propria lingua madre? E cosa succede se, improvvisamente, si scopre che in Italia è arrivata anche la sorella biologica del bambino appena adottato ma della quale esistenza non si sapeva nulla?
A queste domande – e a molte altre – risponde con delicatezza il documentario di Francesca Pirani, prodotto da Luca Criscenti per Land Comunicazioni. La regista, che ha collaborato in passato con Marco Bellocchio, racconta la storia di suo figlio Vakhim, adottato in Cambogia nel 2008 insieme al marito Simone. Il film, presentato alle Giornate degli Autori durante la 81ª Mostra del Cinema di Venezia ha ricevuto riconoscimenti in vari festival internazionali.
Vakhim è un racconto intimo che intreccia filmati di famiglia, ricostruzioni poetiche e riprese di viaggio. La narrazione si apre e si chiude con la stessa immagine: un bambino e una donna di origine asiatica viaggiano in macchina su una strada sterrata, e il bambino osserva una farfalla intrappolata in una bottiglia di plastica. Alla fine del film, quella farfalla viene liberata da un Vakhim ormai ventenne, simbolo di una libertà ritrovata.
La prima parte del documentario mostra i primi giorni insieme, prima in Cambogia e poi a Roma. La voce narrante della regista ci guida attraverso una storia di misteri e sofferenze, ma anche di amore e scoperta. Nonostante l’abbandono, Vakhim scopre di essere stato amato sin dall’inizio, anche dalla sua madre biologica. Uno dei momenti più toccanti è l’abbraccio tra le due madri, cosi diverse ma cosi unite dall’amore per lo stesso figlio.
Vakhim è un film personale e universale, che invita a riflettere sul significato di maternità, genitorialità e generosità. È un’opera che tocca profondamente e che consigliamo di vedere con i fazzoletti a portata di mano.
data di pubblicazione:19/05/2025
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da Anna Paulinyi | Mag 8, 2025
La trama si presta bene anche per una pièce teatrale: tre coppie di mezza età, quattro di loro erano compagni d’università, si ritrovano da decenni per vacanze e gite insieme. Durante l’anno narrato, faranno una vacanza per ogni stagione. L’idea prende spunto dal concerto “Le Quattro Stagioni” di Antonio Vivaldi, le cui melodie accompagnano la narrazione e danno il titolo alla serie.
Forse qualcuno, oltre a me, ricorda anche il film americano del 1981 The Four Seasons, scritto e diretto da Alan Alda, su cui si basa questa nuova miniserie. Io l’ho visto e rivisto in TV qualche volta e il finale inaspettato del film mi aveva sempre lasciato di stucco. E infatti è per le ultime due puntate della serie che ho realizzato che si trattava del remake, nonostante la trama fosse sin dall’inizio già vagamente familiare.
Nel film originale del 1981 le tre coppie erano eterosessuali e bianche. Nella serie del 2025, invece, una delle coppie è omosessuale (maschile), con uno dei partner di colore, rispecchiando una maggiore inclusività. L’equilibrio del gruppo di amici, tutti sulla cinquantina, viene scosso dalla separazione di una delle coppie: Nick (Steve Carell – una garanzia) decide di lasciare la moglie Anne (Kerri Kenney-Silver) per la sua igienista dentale Ginny (Erika Henningsen), di 20 anni più giovane.
Incontriamo i protagonisti durante il primo fine settimana di primavera nella casa sul lago, dove Anne ha organizzato il rinnovo delle promesse matrimoniali all’insaputa del marito, che poche ore prima ha confessato agli amici l’intenzione di lasciarla. Il secondo viaggio estivo, programmato da Ginny in una località balneare, culmina con un uragano. Nel terzo fine settimana autunnale, anche le altre due coppie affrontano delle crisi: Danny (Colman Domingo) si sente soffocato dal marito italiano Claude (Marco Calvani), mentre Kate (Tina Fey) si rende conto di dare per scontato il marito Jack (Will Forte). Inoltre, Jack deve confrontarsi con la figlia Lila (Julia Lester) riguardo le sue scelte di vita.
La serie esplora un dramma che coinvolge una famiglia scelta ed allargata, confezionato in dialoghi e situazioni da commedia brillante, che illumina in modo divertente ma profondo i problemi e i legami di coppia a lungo termine, le separazioni, le differenze generazionali e le amicizie profonde e la paura della solitudine. I personaggi sono ben caratterizzati e sorprendono con reazioni inaspettate. È spassoso vedere la coppia che si credeva la più stabile rendersi conto di aver bisogno di terapia e sfogarsi insieme per questo insieme urlando parolacce in macchina. Anche la coppia gay, pur essendo la più stereotipata, raggiunge momenti tra il comico e il drammatico, come quando Claude si sente tradito non per relazioni extraconiugali, ma perché il marito fuma di nascosto.
In sintesi, The Four Seasons è una serie “feel good” sapiente e divertente, che guadagna spessore psicologico più si va avanti. Ovviamente è ideale per chi ha superato i cinquant’anni e sa che l’età è relativa quando si tratta della voglia di vivere e sperimentare. E fa venire voglia di riascoltare Vivaldi.
data di pubblicazione:08/05/2025
da Anna Paulinyi | Mag 2, 2025
Ideata da Amy Sherman-Palladino e Daniel Palladino, gli sceneggiatori delle serie di successo Gilmore Girls (Una mamma per amica) e The Marvelous Mrs. Maisel (La fantastica Mrs. Maisel), la serie Étoile ci porta nel magico e frenetico mondo della danza e del balletto e nella vita quotidiana di due delle compagnie più prestigiose al mondo.
Disperati nel tentativo di riconquistare il pubblico nei rispettivi teatri dopo la pandemia, Jack McMillan (Luke Kirby), direttore del Metropolitan Ballet Theatre di New York, e la sua controparte francese Geneviève Lavigne (una strepitosa Charlotte Gainsbourg) del Ballet de l’Opéra national de Paris, decidono di scambiarsi alcune delle loro “Étoiles” per una stagione. L’idea è spinta anche da Crispin Shamblee (Simon Callow – vi ricordate Quattro matrimoni e un funerale?), un potente uomo d’affari inglese, appassionato mecenate del balletto, uno scomodo salvatore per entrambi le compagnie.
Così arriva a New York la prima ballerina francese Cheyenne Toussaint (Lou de Laâge, bellissima e bravissima), dal carattere ribelle e travolgente, mentre a Parigi arrivano il coreografo Tobias Bell (Gideon Glick), geniale, paranoico e con tratti autistici, e la giovane prima ballerina Mishi Duplessis (interpretata dalla ballerina professionista Taïs Vinolo), che aveva lasciato l’Opéra per la compagnia americana anni prima.
Negli otto episodi di questa prima stagione (pare ce ne sarà una seconda), lo spettatore viene catapultato in questo mondo il cui glamour sbadisce quasi subito, perché gli artisti, pur vivendo nell’apparente lusso dei teatri, conducono una vita quasi monastica, completamente votata alla venerazione della loro arte. Un microscopico movimento fuori tempo, un dettaglio appena fuori posto, può scatenare l’ira del coreografo e la scelta di una prima ballerina rivolte tra i ballerini. I due direttori si ritrovano continuamente coinvolti nel risolvere problemi che spaziano dalla scelta dei bicchieri flûte per le serate di gala, alla difesa delle proprie scelte artistiche davanti a ministri e sponsor, fino a rincorrere ballerini scomparsi con i costumi di scena e risollevare il morale delle loro stelle. Entrambi sono visionari, fieri del loro lavoro, pronti a rinnegarsi e a scendere a compromessi impossibili pur di difendere la creatività e gli artisti con cui lavorano.
“Ho scelto questo lavoro appositamente. Per creare un luogo dove i pazzi come te possono lavorare”, dice Geneviève Lavigne a Tobias Bell dopo una serata disastrosa – una frase che racchiude lo spirito della serie.
Alcune critiche hanno evidenziato i toni sopra le righe dei personaggi e delle situazioni, ma chiunque abbia vissuto anche solo marginalmente il dietro le quinte di una produzione artistica – musica, teatro o danza – sa che solo la maniacale attenzione al dettaglio, apparentemente insignificante per un “laico”, porta alla vera grandezza. Si può avere l’orchestra migliore del mondo, ma una sola nota stonata può compromettere l’intera esecuzione.
E per quanto alcuni artisti di Étoile possano sembrare narcisisti, come la splendida Cheyenne Toussaint, lei è la prima a sacrificare corpo e vita sull’altare della sua arte, sera dopo sera.
Per chi ama film e serie che raccontano il dietro le quinte delle arti performative – e il lavoro, la passione e la dedizione di chi le crea – questa serie è assolutamente da non perdere. (Mi viene in mente in questo filone anche Tár di Todd Field del 2022, o il bellissimo e divertente Meeting Venus di István Szabó del 1991). E le scene di danza? Semplicemente strepitose.
data di pubblicazione:02/05/2025
da Anna Paulinyi | Apr 14, 2025
Cloud, scritto e diretto dal regista giapponese Kiyoshi Kurosawa (nessuna parentela con Akira), è un film che mescola thriller psicologico e sfumature da film samurai (o western), ma di quelli che si muovono al di là del concetto di bene e male. Alla fine, a sopravvivere sono in pochi – e nemmeno brava gente.
Il protagonista è Ryusuke Yoshii (Masaki Suda), un trentenne brillante ma disilluso: il suo talento non viene riconosciuto nella fabbrica dove lavora. Decide quindi di puntare tutto sul suo secondo lavoro: il dropshipping. Un’attività online in cui compra merce a prezzi stracciati per rivenderla fino a venti volte tanto.
Già nella prima scena lo vediamo acquistare un macchinario medico da un piccolo produttore, riducendolo quasi al fallimento. Una collaboratrice del produttore lo supplica di offrire qualcosa in più, almeno per avvicinarsi al prezzo reale, e gli chiede se non provi vergogna per quel comportamento. Ma Yoshii resta freddo. In parte perché, davvero, quei soldi non li ha; in parte per un principio che attraversa tutto il film: mors tua, vita mea.
Il messaggio morale di Cloud è già chiaro in quei primi istanti.
Dopo una breve ascesa economica, inizia la discesa agli inferi. Con i proventi del primo affare, Yoshii si compra una casa-magazzino alla periferia di Tokyo. È moderna, spaziosa, quasi sterile. A raggiungerlo è anche la sua fidanzata Akiko (Kotone Furukawa), affascinata non tanto da lui quanto dai soldi che ha – e che promette di continuare a fare. Yoshii lo sa, ma sembra non importargli.
Anche quando gli affari iniziano a perdere slancio, la coppia riesce a mantenere un tenore di vita ben diverso dal passato. Yoshii può addirittura assumere un assistente: Sano (Daiken Okudaira), giovane, enigmatico, imperturbabile. Resiste perfino ai tentativi di seduzione di Akiko, sempre più annoiata mentre Yoshii si dedica ai suoi traffici a Tokyo.
Online, Yoshii si fa chiamare “Ratel” – il tasso del miele, un animale che non teme nulla. Ma più cresce la sua visibilità, più si attira nemici: la sua merce è sospetta, il suo metodo brutale. Tradisce persino vecchie conoscenze: un ex superiore della fabbrica, un amico di liceo. La rete reagisce. Nasce un gruppo di “haters” di Ratel, pronti a stanarlo e cosi la seconda parte del film si trasforma in una caccia all’uomo. Il tono diventa surreale, da incubo: un western urbano, contaminato da horror e splatter. Fucili, inseguimenti, sangue. E quando sembra spacciato, Yoshii viene salvato da Sano.
Ma non è un lieto fine. Yoshii riemerge sì con qualche brandello di umanità, qualche riflessione tardiva su ciò che ha perso. Ma non è stato salvato per redimersi. Sano lavora per un’organizzazione potente, interessata solo a sfruttare il suo talento per fare ancora più denaro.
Nell’ultima scena, li vediamo in macchina, mentre attraversano un paesaggio irreale, un tramonto dai colori apocalittici. Yoshii guarda fuori dal finestrino, e si chiede – senza trovar risposta – come sia finito su questa strada per l’inferno. E per dirla con una battuta del film che mi è piaciuta tanto: “Ora è troppo tardi per vivere”.
Il film racconta in modo emblematico quei paradossi che spesso rimangono sommersi nella vita di ogni giorno della maggior parte dell’umanità: la potenza della rete e il cinismo del dio denaro. Che poi ci si chiede: abbiamo veramente bisogno di tradire il prossimo per una macchina del caffè che non sappiamo neanche utilizzare?
Cloud è stato presentato in Italia in anteprima alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e durante la 22° edizione di Asian Film Festival a Roma. Uscirà nelle sale il 17 aprile.
data di pubblicazione:14/04/2025
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da Anna Paulinyi | Apr 8, 2025
Ritrovarsi a Tokyo (Une part manquante) di Guillaume Senez, in uscita in Italia al cinema il 30 aprile e scelto come film di chiusura del Festival del Nuovo Cinema Francese a Roma domenica scorsa, è uno dei film meno “francesi” mai visti per contenuto, ma deliziosamente francese per stile. Se per “francese” intendiamo il movimento naturale della macchina da presa, che diventa quasi un microscopio sotto il quale si districa, in un crescendo, una complessa situazione psicologica e sociale.
Incontriamo il protagonista, Jay (Romain Duris), un tassista, mentre dà indicazioni a un’automobilista in mezzo alla strada. Già questo ci incuriosisce: siamo a Tokyo, e Jay non è giapponese, ma occidentale. Da subito veniamo risucchiati nel suo strano mondo: il lavoro notturno da taxista, le visite ai bagni pubblici, le videochiamate con il padre in Francia, e la collaborazione con un’avvocatessa giapponese che si occupa di affidamenti familiari — sia in coppie miste che in famiglie giapponesi.
Jay viene incaricato di occuparsi di Jessica (Judith Chemla), una madre francese approdata a Tokyo colma di rabbia e determinazione, decisa a riprendersi il figlio separato da lei e affidato al padre giapponese. Per la prima metà del film, queste situazioni, gli spezzoni di dialogo, i silenzi carichi di significato e i paesaggi di una Tokyo che potrebbe essere qualsiasi grande città, sembrano solo frammenti colorati di un mosaico ancora da comporre. Ma, una volta completato, ci lascia a bocca aperta.
Ci troviamo davanti a una realtà inimmaginabile per un europeo: in Giappone l’affidamento condiviso non è previsto dalla legge. Jay è a Tokyo da nove anni solo per ritrovare sua figlia, Lily, che non vede da quando lei aveva tre anni. La madre, con la legge dalla sua parte, aveva interrotto ogni contatto tra padre e figlia.
Ma proprio quando Jay sta per rinunciare definitivamente al ritrovamento con la figlia, sostituendo un collega, si ritrova inaspettatamente Lily (Mei Cirne-Masuki) sui sedili posteriori del suo taxi. Dovrà accompagnarla ogni giorno a scuola. È un momento carico di trepidazione. La delicatezza e il rischio impliciti in questo incontro sono ormai evidenti allo spettatore, e come in ogni buon giallo, ogni parola e ogni gesto — grazie anche alla bravura degli attori — alimentano la tensione.
Chi spera in un lieto fine per questo incontro tra padre e figlia non resterà del tutto deluso. Anche se la realtà, con la prospettiva di un’ulteriore lunga separazione, getta la sua ombra.
È un film denso, toccante, pieno di ironia e delicatezza. Racconta un amore profondo tra padre e figlia, senza mai cadere nello stereotipo o nella banalità o nel giudizio culturale. Guillaume Senez ci regala un’opera che ci farà riflettere più che sorridere — ma anche questo, in fondo, è il segno di un bellissimo film francese.
data di pubblicazione:08/04/2025
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