LA CANTATRICE CALVA di Eugène Ionesco, regia di Massimo Castri

LA CANTATRICE CALVA di Eugène Ionesco, regia di Massimo Castri

(Teatro Vascello – Roma, 31 marzo/4 aprile 2015)

Dopo Pirandello e Beckett, Massimo Castri torna a immergersi nelle stranianti atmosfere dell’umoristico teatro dell’assurdo. La cantatrice calva di Ionesco. Quella che “si pettina sempre allo stesso modo”. Quella alla quale resta affidato il testamento artistico di Castri, scomparso nel gennaio del 2013.

“Interno borghese inglese, con poltrone inglesi”. La scena riproduce fedelmente la cornice della “serata inglese” entro cui si inscrive la pièce di Ionesco, mentre il rintocco dell’orologio scandisce con impeccabile precisione l’immobile scorrere del tempo che attraversa le vite dei signori Smith e dei signori Martin. Quando la maschera aderisce così perfettamente al volto fino a soffocarlo, non resta che adattarsi al tanto alienante quanto rassicurante conformismo delle convenzioni borghesi, fatto di cene sempre uguali e di persone interscambiabili persino nel nome (Bobby Watson), di aneddoti già sentiti e di sposi che non si riconoscono, di pompieri in cerca di incendi da spegnere e di cameriere che recitano versi ardenti di infuocato calore. Di frasi fatte e di coppie sfatte.

Il tutto supportato da dialoghi che sfruttano, esasperandolo ad arte, l’espediente di una “ovvietà fuori contesto”, amplificato dalla pressoché completa rinuncia di ogni verosimile nesso di conseguenzialità logica. Emblematico il dilemma epistemologico sintetizzato dall’interrogativo “Quando suonano alla porta c’è qualcuno o no?”: l’incalzante scambio di battute che ne deriva, sembra sintetizzare il superamento di una causalità a priori di matrice kantiana a favore di un falsificazionismo dal sapore popperiano, elevato a chiave di lettura di un’esistenza annoiata e (anche per questo) paradossale. E, dunque, “quando suonano alla porta, talvolta c’è qualcuno, talaltra non c’è nessuno”.

L’impegnativo peso di un classico che torna in scena per l’ennesima volta è ben sostenuto dalla mai tentennante maestria degli attori (Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio e Francesco Borchi), capaci di coinvolgere e travolgere il pubblico nella serrata “battaglia di luoghi comuni” che prepara alla circolare chiusura dello spettacolo.

Una perla di indubbio valore, ospitata dalla deliziosa conchiglia del Teatro Vascello, immersa nelle acque di Monteverde Vecchio e offerta agli spettatori dalle sapienti mani della Direzione artistica di Manuela Kustermann.

data di pubblicazione 01/04/2015


Il nostro voto:

LA FAMIGLIA BÉLIER di Éric Lartigau, 2015

LA FAMIGLIA BÉLIER di Éric Lartigau, 2015

Paula Bélier (Louane Emera). Bélier, come “montone”. Sedici anni. Il corpo che cambia, il cuore che inizia a battere tra i banchi di scuola, la fisiologica contrapposizione generazionale con i propri genitori, il distacco dal nido familiare come necessario anello di congiunzione tra l’adolescenza e l’età adulta. Fin qui nulla di nuovo. Solo che Paula è l’unica nella sua famiglia in grado di sentire e di parlare. Comunica con la mamma (Karin Viard, semplicemente strepitosa), il papà (François Damiens) e il fratellino (Luca Gelberg) attraverso il linguaggio dei segni, rendendosi generoso e impeccabile ponte tra il silenzio che avvolge la sua casa e il frastuono che si agita fuori da quelle mura. Un’armonia in cui le note e le pause sembrano integrarsi su uno spartito dal solido equilibrio, fino a quando il destino, amabilmente crudele, non decide di imporre un nuovo ritmo e una nuova melodia nella fattoria della famiglia Bélier. Paula ha una pepita in gola, che il suo insegnante di canto (Éric Elmosnino) ha tutta l’intenzione di lasciar brillare alla luce del sole. Perché chi ha ricevuto in dono dei talenti non può permettersi il lusso di non investirli nella ricerca di un sogno. Anche qualora quel sogno richieda di abbandonare la bucolica campagna per la caotica città. Anche qualora quel sogno dovesse rendere ancor più doloroso il fisiologico distacco.

Sarebbe riduttivo leggere La famiglia Bélier come un film sulla diversità o come una più ampia riflessione sulle tante vie attraverso cui è possibile comunicare, se solo si trovi il coraggio di guardare (e di sentire) oltre le etichette e gli schemi. Si tratta piuttosto di un delicato componimento poetico, fatto di punti di vista, apparentemente antitetici, che si alternano, si avvicinano, si sfiorano e infine si fondono pur restando distinti, come quando, nella scena del duetto e in quella dell’audizione, lo spettatore “sente” di essere una nota e, al tempo stesso, una pausa, parte integrante dell’affascinante spartito intitolato “famiglia Bélier”.

Risulta coerentemente inserita nei tempi e nello spirito del racconto anche la prospettiva politico-sociale, affidata alla candidatura di papà Bélier a Sindaco del suo paese. Il manifesto con la foto di un sordo e lo slogan “Io vi ascolto”, insieme alla (a tratti esilarante) campagna elettorale portata avanti con entusiastica e contagiosa convinzione, stigmatizzano, senza ridondante retorica, quel sordomutismo di una classe politica che, sempre più spesso, risuona in maniera assordante nei tradizionali modelli della democrazia occidentale.

Convincente la prova della protagonista Louane Emera, classe 1996, la quale passa con ammirevole disinvoltura dallo psichedelico luccichio del palcoscenico di “The Voice” alle luci caldamente suffuse di una commedia che, sia pur cedendo a tratti alle lusinghe dello stereotipo d’effetto (la corsa dell’ultimo minuto e all’ultimo respiro), è in grado di coinvolgere, divertire, stupire e commuovere.

 

data di pubblicazione 26/03/2015


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VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

Le montagne fredde e innevate dell’Albania. Una bambina rimasta orfana salvata da un uomo in grado di divenire la sua finestra sul mondo e, al tempo stesso, le sbarre che le impediscono di prendersi il mondo pulsante al di fuori di quella finestra. È un misto di Georgie e Lady Oscar la piccola Hana, la quale, crescendo, assume i lineamenti mascolinamente femminili di Alba Rohrwacher e carica sulle sue gracili spalle il peso di quella roccia che a un certo punto “sceglie” di diventare. In una società retta da un modello familiare e sociale integralmente e incondizionatamente patriarcale la donna non può davvero scegliere. Non può bere, non può contraddire, non può fumare, non può essere libera (anche solo di non essere qualcosa di chiaramente definito). L’alternativa è scendere dalle montagne e lasciarsi trascinare via dalle onde del mare, come fa Lila, la sorella di Hana, schivando la pallottola del matrimonio combinato che vorrebbero piantarle nel cuore; oppure restare, come fa Hana, invocando la tutela offerta dal Kanun, legge non scritta eppure in grado di assumere quella forza di indiscussa e indiscutibile inderogabilità che solo le leggi non scritte sono in grado di vedersi riconosciuta senza bisogno di tribunali e di sentenze. Hana giura di restare vergine. Che vuol dire non solo rinunciare alla propria sessualità, ma anche al proprio nome, al proprio corpo, alla propria pelle, al proprio sguardo. Quando entrambi i genitori muoiono, quando sulle montagne la neve inizia a sciogliersi, Hana “sceglie” però di scivolare a valle. Di cercare sua sorella. Di allentare gradualmente la pressione di quella fascia che le comprime il seno. Di specchiarsi nelle acque di una piscina capace di tenere a galla i corpi (e le anime) più diversi. Di sorridere di fronte a quelle parole “mai dette e scritte male” che proiettano la sua vicenda particolare sul più ampio schermo di una, per dir così, “condizione femminile” capace di andare ben oltre i confini segnati dai monti albanesi.
Una storia indubbiamente potente, ispirata al romanzo omonimo di Elvira Dones e che segna l’esordio cinematografico di Lucia Bispuri, tenuta a battesimo dalla buona accoglienza riservatale all’ultimo Festival di Berlino. Sebbene il messaggio e la “morale” si rivelino, almeno a tratti, didascalicamente esibiti, lasciando in troppo evidente superficie l’avvio di una complessa e per nulla scontata metamorfosi, Vergine giurata resta un film armoniosamente composto nella convincente alternanza spazio-temporale che scandisce il racconto, con un’essenzialità dei dialoghi tesa a valorizzare l’eloquenza delle immagini e la dinamica fissità dello sguardo di Alba Rohrwacher, costante e rassicurante certezza del cinema italiano degli ultimi anni (Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia per Hungry Hearts di Saverio Costanzo).

data di pubblicazione 23/03/2015


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NOI E LA GIULIA di Edoardo Leo, 2015

NOI E LA GIULIA di Edoardo Leo, 2015

La storia uscita dalla penna di Marco Bonini e da quella di Edoardo Leo (che poi assume anche il compito di dirigerla) non si caratterizza certo per tratti originali, almeno per come si mostra nella sua struttura essenziale. Tre quarantenni (Luca Argentero, Edoardo Leo e Stefano Fresi), legati dai lacci sempre più soffocanti di famiglie e lavori che li stanno inevitabilmente conducendo sull’orlo del fallimento umano e/o economico, si ritrovano per caso di fronte a un casale dall’affascinante bellezza decadente. Troppo caro per ciascuno di loro, ma alla portata di tutti e tre messi insieme. Spinti da quell’alito di lucida irrazionalità che accarezza chiunque abbia sperimentato nella propria vita il brivido di una “vera scelta”, decidono di mettersi in società, per provare a risorgere insieme da quelle macerie.
Il primo tocco di inconfondibile “italianità” sta nella decisione di aprire un agriturismo, moda e chimera degli ultimi decenni di turismo “fatto in casa”. Il secondo tocco sta nell’incontro scontro con la camorra, con il pizzo e con le mazzette, cifra caratterizzante di un Paese in cui un sogno ha lo stesso prezzo di un televisore al plasma, da acquistare rigorosamente nel “negozio di fiducia” suggerito dai vigili urbani incaricati di rilasciare i permessi necessari per l’apertura.
Una vecchia Giulia, indimenticato simbolo dell’ottimistica Italia del boom economico, con il suo stereo difettoso, diviene la “base” (in senso tanto letterale quanto metaforico) sulla quale i tre sognatori cercheranno di edificare la propria “resistenza”. Tutto ciò supportato dal convincente contributo di Claudio Amendola, nostalgico di falce e martello (in senso tanto letterale quanto metaforico), di Anna Foglietta e di Claudio Buccirosso, i quali sostengono egregiamente l’impegno di una recitazione marcatamente caricaturale, senza (quasi) mai trascendere nella macchietta fine a se stessa.
Di certo non mancano spunti interessanti nella scrittura di un genere, quello della commedia, che sembra attraversare un periodo di autentica stagnazione, ma l’impressione resta quella di un film che non riesce a ingranare la marcia giusta della Giulia, passando da brusche accelerazioni ad altrettanto bruschi rallentamenti e impantanandosi con compiacimento eccessivo nelle pozzanghere di quelle eterne verità che, se troppo chiaramente esplicitate, sconfinano nell’insostenibile evidenza del luogo comune.

data di pubblicazione 22/03/2015


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NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

C’erano una volta un musulmano, un ebreo e un cinese. E alla fine arriva pure l’uomo nero. Inizia come una barzelletta l’ultimo film di Philippe de Chauveron, senza che però la storia riesca a innescare i meccanismi di quella comicità capace di far sì che una poco pretenziosa storiella indossi le ali della raffinata commedia.

Le quattro figlie femmine di una conservatrice famiglia cattolica francese mettono a dura prova le capacità di sopportazione dei pur volenterosi genitori. Ciascuna di loro prende in marito un tassello di quel “multiculturalismo”, che, restato a lungo un tratto caratterizzante dell’esperienza socio-culturale americana e del cinema che ne è la rappresentazione, obbliga ormai anche l’Europa a una seria riflessione “politica”, di fronte alla quale neppure la Decima Musa può chiudere gli occhi. Sono però lontane tanto le atmosfere di Indovina chi viene a cena? quanto il magnetismo esercitato sulla sala dal cinema francese campione di incassi degli ultimi anni (il pensiero corre, evidentemente, a Giù al Nord e a Quasi amici). I dialoghi si susseguono assecondando una per niente esilarante sequela di luoghi comuni: tra prepuzi amputati, divieti alimentari, stereotipi della cultura cinese e una (fin troppo) macchiettistico scambio culturale tra “famiglia bianca” e “famiglia nera”, Non sposate le mie figlie sembra fallire sia l’intento di divertire sia quello di far riflettere. I momenti di fratellanza simboleggiati dalla guerra di palle di neve tra adulti che tornano bambini e dalla Marsigliese cantata con la mano sul cuore da quella che sembra la panchina della nazionale francese di calcio, sembrano davvero troppo poco ai tempi di “Je suis Charlie”.

Prima di avviarsi al prevedibile “vissero tutti felici, contenti e tolleranti”, il film, almeno, lascia nello spettatore la voglia di provare una volta della vita il brivido della Zumba. Perché anche in ciò che sembra lontano e diverso dal nostro modo di essere e di pensare, in fondo, possiamo trovare una parte di noi stessi.

data di pubblicazione 22/02/2015


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