CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO di Sam Taylor-Johnson, 2015

CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO di Sam Taylor-Johnson, 2015

Tanto tuonò che alla fine la terra rimase asciutta. Dopo il consueto balletto di nomi su chi avrebbe assunto l’oneroso onere di sbancare al botteghino con la trasposizione cinematografica di Cinquanta sfumature di grigio, fenomeno letterario firmato da E.L. James, anche produttrice del film, lo scettro arriva tra le mani della britannica Sam Taylor-Johnson. Il volto, le labbra, le mani e i corpi vogliosi di Anastasia Steele e Christian Grey, novelli eroi romantici di un’epoca in cui la trasgressione assume la consistenza della regola, diventano quelli di Dakota Johnson e Jamie Dornan. L’uscita italiana è meticolosamente anticipata da interviste sul profondo lavoro fatto dagli attori per svestirsi dei loro panni (in senso più reale che metaforico), impreziositi da delicati aneddoti sugli scompensi ormonali che inonderebbero la sala durante la proiezione.

Fin dalla prime inquadrature si ha però la sensazione che le aspettative, anche quelle più modeste, siano destinate a infrangersi contro la barriera di un prodotto troppo spudoratamente proiettato sul risultato di un successo commerciale che, pur vietato ai minori degli anni quattordici, a tratti fa respirare a pieni polmoni le atmosfere di Beverly Hills e Dawson’s Creek.

Mr. Grey, apre il cassetto delle sue cravatte grigie, con la stessa convinzione del modello della pubblicità di Calzedonia. Anastasia, bollente di incontenibile desiderio a seguito del primo incontro con il miliardario bello e dannato, a cui ancora nessuna ha avuto l’ardire di scrutare dentro, ma che in tante hanno già ammirato fuori, corre fuori sotto la pioggia e, come nella pubblicità Nestea, informa lo spettatore di avere caldo. Molto caldo. Manca solo la voce fuori campo che esclami “Grey. Ottimo direi” perché lo spot possa dirsi davvero completo.

La storia è fin troppo nota. Christian, ragazzo dall’immancabile passato traumatico e traumatizzante, dopo una lunga parentesi da sottomesso, sente che è giunto il momento di divenire dominatore. Un dominatore minuzioso, che scandisce il rito nella sua stanza dei giochi con meticolosa precisione, che redige con la cura di un raffinato giurista il contratto al quale è affidato il sinallagma del piacere, ma che è disposto a forzare ogni protocollo per la vergine che, con ammirabile disinvoltura, si lascia plasmare dal suo Signore per poi plasmarlo a servo del suo amore.

Le tanto annunciate scene di sesso non risultano né insistite né audaci. I corpi che si cercano e si uniscono sono certamente dotati di una potente carica estetica, che solo di rado si traduce però in autentica carica erotica. Il rituale di voluttuosa violenza portato sul grande schermo resta alla fase del tentativo incompiuto, come le sfumature della psiche dei due protagonisti, solo timidamente accennate e che a stento raggiungono la decina, restando molto lontane dal traguardo annunciato dal titolo.

Il film finisce annunciando l’inizio del secondo episodio. Che speriamo migliori se non altro nella colonna sonora, recuperando, almeno in parte, l’eccitante e avvolgente silenzio dell’immaginazione di così tanti lettori, affidatisi con disinibito imbarazzo alle suadenti pagine di un “caso letterario”.


data di pubblicazione 22/02/2015


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JULIEN ZOLUÀ di Giulio Maria Corso

JULIEN ZOLUÀ di Giulio Maria Corso

(Teatro Due – Roma, 21/25 gennaio 2015)

Julien Zoluà di Giulio Maria Corso chiude la rassegna CANTIERI CONTEMPORANEI presso il Teatro Due di Roma (8 al 25 gennaio 2015).

Leone e Julien. Il padrone e il suo servitore. Leone conosce Julien da quando era un bambino. Julien non ha avuto un padre che sapesse raccontare storie belle come quelle di Leone.

C’era una volta un bambino che provava a controllare i suoi incubi grazie a una penna e un foglio di carta su cui disegnava castelli. C’era una volta un uomo che provava a raccontare delle storie per rendere un po’ meno penosa la sua realtà. Una casa sopra il mercato (e sopra il teatro). Un salotto all’ora del tè. Una sedia al centro del palcoscenico. La complice intesa tra due opposti che si attraggono fatalmente, senza saperlo, senza prevederlo, senza riuscire a evitarlo.

Uno spettacolo visionario e immaginifico, costantemente sospeso tra sogno e realtà, tra illusioni e “storie vere”, tra passione e “senso del dovere”. La scrittura avvolgente e travolgente di Giulio Maria Corso traghetta lo spettatore lungo le correnti di un impetuoso fiume di parole che tuttavia non rischia mai di straripare, contenuto dagli argini di un ritmo verbalmente musicale (o musicalmente verbale) e dall’esito mai scontato dei duetti e dei duelli che si susseguono sulla scena.

Il pathos e l’ironia si incrociano senza calpestarsi, sorretti dalla solida recitazione di Roberta Azzarone, Valerio D’Amore, Carmine Fabbricatore, Carlotta Mangione, Michele Lisi, che riempiono in maniera impeccabile uno spazio solo apparentemente vuoto.

Il soggetto risente forse di qualche cliché di troppo: l’uomo adulto e il giovane virgulto, un matrimonio finito ancor prima di iniziare, il peso dei ruoli che costringe a indossare una maschera soffocante. Ma la resa scenica riesce ad andare ben oltre le tradizionali logiche del triangolo amoroso e “politicamente scorretto”, restituendo l’impressione di uno spettacolo consapevole e ben confezionato.

data di pubblicazione 22/01/2015


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HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo, 2015

HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo, 2015

Approda nelle sale italiane Hungry Hearts di Saverio Costanzo, dopo il fortunato sbarco al Lido della 71ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia: generosi applausi del pubblico e doppia Coppia Volpi ai due attori protagonisti Adam Driver e Alba Rohrwacher.

La storia, tratta dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, è un potente crogiolo di sentimenti estremi, perennemente in bilico sul delicato filo della imperscrutabile tensione psicologica.

Per Mina e Jude galeotto fu il maleodorante bagno di un ristorante cinese di New York. Cupido scocca implacabile la sua freccia sotto forma di porta che non ne vuole sapere di aprirsi. La passione, il matrimonio e la gravidanza sembrano seguire il copione della storia ideale, fino a quando l’amore materno di Mina per il suo bimbo “speciale” diviene una soffocante coperta di affetto. È decisa a mantenere pura e sana la sua creatura, a proteggerla da ogni possibile contaminazione che possa derivare dal mondo esterno. A partire dal cibo. Quel cibo maleodorante con il quale si apre il film e che attribuisce alla scena di apertura del film un significato (forse) più profondo del semplice “siparietto galeotto”. I tentativi di arginare l’amore di una madre inconsciamente trasformatasi in potenziale carnefice nella sua bolla di assoluto isolamento si succedono con un ritmo incalzante, che tuttavia non si rivela sorretto da un finale sufficientemente solido.

Malgrado lo sforzo nel tratteggiare la psiche di personaggi indubbiamente complessi, Hungry Hearts restituisce un’impressione di incompletezza, dovuta forse ai blocchi troppo rigidamente contrapposti nei quali la storia risulta articolata. Ottima la prova di Alba Rohrwacher, con un Adam Driver non sempre alla sua altezza.

Il film è recitato in inglese. Adam Driver però canta “Tu si ‘na cosa grande” in italiano. E la festa di matrimonio è scandita dalle note di Flashdance. Una colonna sonora che rende immediatamente riconoscibile Hungry Hearts come prodotto da “grande pubblico”. Al botteghino l’ardua sentenza.


data di pubblicazione 15 /01/2015


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AMERICAN SNIPER di Clint Eastwood, 2015

AMERICAN SNIPER di Clint Eastwood, 2015

statuetta

Il mondo è popolato da tre categorie di uomini: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Chris non è nato né per subire passivamente il male né per prestare a quel male le proprie fauci: la missione alla quale è destinato è quella di difendere chi non ha la forza o la capacità di badare a se stesso, anche quando ciò comporti la definitiva eliminazione dell’avversario.

In American Sniper Bradley Cooper presta il suo volto e i suoi muscoli a Chris Kyle, il cecchino “Leggenda” dei Seals, che ha messo a segno 160 bersagli durante la guerra in Iraq. Per quanto il film si riveli a tratti intriso di celebrativo patriottismo, Clint Eastwood sembra scongiurare il rischio di una compiaciuta celebrazione della guerra americana “di difesa e di liberazione” e delle sue logiche fatte (anche) di uno straripante ego virile, che magari indossa la maschera dell’insindacabile senso del dovere e veste il mantello del supereroe che protegge la città dall’alto, con il potere della sua mira infallibile.

La storia di Chris Kyle, forse esageratamene patinata per ciò che attiene alla sua dimensione privata al fianco dell’impeccabile mogliettina Sienna Miller, finisce piuttosto per mostrare come tra i fumi e le polveri del campo da battaglia la dicotomia bene/male divenga meno nitida dell’immagine delle Torri gemelle che si sgretolano guardata attraverso il televisore. Nel momento in cui nel mirino finiscono donne e bambini, persino il più fedele e intrepido cane da pastore prova la lacerante sensazione di trasformarsi in lupo spietato.

Quel campo da battaglia che si rende esperienza inevitabilmente totalizzante per i combattenti che, per le ragioni più diverse, decidano di mettervi piede. Anche quando si torna a casa, non si torna mai veramente. Il rombo di un motore, un suono metallico, un cane che gioca con un bimbo: ogni dettaglio della “vita” finisce per assumere la consistenza della “morte”.

132 minuti di ritmo incalzante per un film che in più di una sequenza lascia lo spettatore con il fiato sospeso e che, pur non essendo forse tra le prove migliori di Eastwood, si caratterizza per quel misto di spettacolarità e di esistenzialismo che rendono riconoscibile il suo cinema.


data di pubblicazione 04 /01/2015


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BIG EYES di Tim Burton, 2015

BIG EYES di Tim Burton, 2015

Big Eyes di Tim Burton racconta al grande pubblico la storia vera di Margaret Keane, la pittrice dei bambini con gli occhi grandi.

Gli occhi, si sa, sono lo specchio dell’anima e Margaret l’anima la vede così: sconfinata, sproporzionata, ingombrante, sgranata sul mondo e sugli altri occhi. Gli occhioni dei suoi bimbi resterebbero però uno dei tanti orpelli da bancarella se il secondo marito di Margaret, Walter Keane, affabulatore con la smania di diventare artista, non si appropriasse fraudolentemente delle opere della moglie immettendole nel tritacarne dell’arte massmediatica. Quell’arte in cui i critici riescono a vedere solo del banale kitsch involgarito dall’ossessione della serialità, ma che il resto del mondo è disposto a comprare senza riserve. E quando le tele diventano troppo costose, si passa alla loro riproduzione: poster, cartoline, biglietti d’auguri venduti nella galleria d’arte di Walter e negli scaffali del supermercato.

Margaret, dopo aver divorziato dal primo marito, non se la sente di mettere nuovamente in discussione quella potestà maritale alla quale persino un prete si sente in dovere di richiamarla, nell’America degli anni Sessanta non ancora pronta a metabolizzare un’arte fatta da donne. Per questo continua a dipingere e a lasciare che Walter si goda l’inebriante ubriacatura del successo. Continua a dipingere in maniera bulimica, nevrotica, patologica, fino a quando la classica goccia che fa traboccare il vaso non la convincerà a cambiare vita e a trascinare suo marito in tribunale.

Pronunciare il nome “Tim Burton” significa accostare a quel nome l’aggettivo “visionario”, ma in Big Eyes di visionario c’è davvero molto poco, se si fa eccezione per la sequenza del supermercato e quella del tribunale e per gli abbaglianti colori della fotografia dell’inizio e della fine del film che esaltano lo sguardo di Amy Adams, più sconfinato, sproporzionato, ingombrante e sgranato di quello dei suoi bambini.

Una bella “favola vera” sostenuta dalle interpretazioni magistrali di Amy Adams e Cristoph Waltz, ma con scarsa capacità di sorprendere e di incantare.

data di pubblicazione 04 /01/2015


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