da Rossano Giuppa | Set 26, 2016
(Roma Europa Festival 2016)
Dopo il prologo estivo inaugura ufficialmente la sua stagione il Roma Europa Festival con lo spettacolo Barbarians, del coreografo Hofesh Shechter, in scena al Teatro Argentina dal 21 al 24 settembre.
Un lavoro certamente interessante, quello del coreografo inglese di origine israeliana, già presente nelle passate edizioni del Festival, spiazzante e imprevedibile, costruito attorno alla personale percezione e riflessione sui temi dell’intimità, della passione e dell’amore.
Una costruzione forte, a tratti elegante e intima e a tratti frenetica e ossessiva, costruita su tre momenti distinti in un’alternanza di musica barocca e sonorità techno dub; sei figure vestite di bianco si muovono secondo una struttura circolare in continuo divenire, una danza di Matisse ora gioiosa, ora di trance. Il prologo Barbarians in love alterna canoni classici a frenesie hip hop mentre la musica miscela François Couperin ad elettronica beat.
Una voce femminile sfocata apre a riflessioni ed indizi. “Io sono te” intona. “Tu sei me… Perché lo fai, Hofesh?” – E la voce fuori campo di Shechter, spiegando che stava solo cercando di rappresentare una danza sull’innocenza, esplicita le sue perplessità..
Si passa poi a The bead, un quadro con cinque ballerini in accademico oro, forte, tribale e languido, con continue sovrapposizioni di immagini e di stili, esteticamente ineccepibile. Nel mezzo due momenti i cui i danzatori appaiono in una nudità appena accennata, grazie ad una straordinaria luce crepuscolare.
Infine il duetto Two completely angles of the same fucking thing che chiude lo spettacolo e meglio esplicita la poetica di Hofesh, un duetto tra Bruno Guillore e Winifred Burnet-Smith, più umano e intimo, che si apre allo spazio metaforico personale del coreografo suggerendo che in fondo che l’ossessiva auto-dichiarazione dei primi due pezzi può portare a una sorta di riflessione più pacata ed armonica.
Uno spettacolo tutto sommato affascinante e cerebrale, con una magistrale cura delle luci che pecca però di una eccessiva dilatazione che finisce per sfocare l’essenza dello spettacolo, impedendo allo stesso di essere dirompente e straordinario.
data di pubblicazione: 26/09/2016
Il nostro voto: 
da Rossano Giuppa | Giu 24, 2016
(Teatro India – Roma, 20/28 Giugno 2016)
Dal 20 al 28 giugnoil Teatro India propone la rassegna di spettacoli Il teatro che danza vetrina della coreografia contemporanea e della creatività, delle nuove forme della performance di oggi e delle tendenze del teatrodanza e del teatro fisico.
Primi due spettacoli in scena il 20 ed il 21 giugno Impression d’Afrique, composizione d’ensemble di Michele Di Stefano ed Ossidiana di Fabrizio Favale, con la sua compagnia Le Supplici.
Da una parte le Impression d’Afrique di MK proiettate nei colori, nei suoni e negli odori del continente nero e dall’altra Ossidiana, un’opera che parla di natura, di scontri energetici, di reazioni chimiche e di dinamismi spazio-temporali.
MK, realtà di punta nel panorama della danza contemporanea e del teatro danza in Italia, si occupa da sempre di performance e ricerca sonora. Il suo coreografo, Michele di Stefano, è una delle personalità più importanti della scena italiana nonchè vincitore del Leone d’argento alla Biennale di danza del 2014.
Impression d’Afrique si sviluppa con la dirompente ironia che caratterizza la celebre compagnia romana, sempre pronta a destrutturare i costrutti classici dei danzatori e della danza, ricorrendo in questo caso ad un ibrido stile afro-occidentale affrontato con coinvolgente energia. L’Africa prefigurata da Raymond Roussel nella stesura del suo romanzo Impression d’Afrique (1910) è un paesaggio irreale, che non ha altro scopo che quello di servire da sfondo ad una struttura sovrapposta, fatta di continue reazioni a catena di parole e movimenti, catturati da contesti differenti.
La performance, già presentata al museo etnografico Pigorini di Roma nel 2013, parte dall’Africa come come terra d’origine a cui vengono associate culture e contaminazioni diverse, che portano ad un contesto più metropolitano e street-style. In questa cornice il mix di personaggi – una pattuglia di marines, una donna costretta al sacrificio, alcuni esperti di telepatia – danno vita ad un quadro volutamente stratificato e movimentato, dall’ampio respiro ritmico che cattura e coinvolge.
Ossidiana, è al contrario una performance che prende le mosse dall’osservazione di quei particolari fenomeni che si riscontrano in natura, dove le forme restano incompiute o originano altre forme. Siamo qui in contesto nordico, notturno e nebbioso. La natura e la materia rappresentano il punto di partenza della performance basata su dinamismi continui in un costante divenire di corpi nello spazio, quasi reazioni chimiche fra elementi diversi.
La struttura coreografica di Fabrizio Favale lascia fluire al suo interno numerosissimi avvenimenti prima che i precedenti siano conclusi, proprio come accade al vetro vulcanico di ossidiana, che si forma in seguito al rapido raffreddamento della lava e che, data la sua conformazione chimica, non diventerà mai un cristallo.
Ossidiana, lavoro originale e visionario, denso e aereo al tempo stesso, sarà rappresentato alla Biennale de la Danse de Lyon, che si terrà dal 14 al 20 settembre 2016.
data di pubblicazione:24/06/2016
Il nostro voto: 
da Rossano Giuppa | Giu 16, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 14/16 giugno 2016)
Immagini e memorie, delicate e complesse, articolate, nitide e sfocate dell’universo pasoliniano. Lo scontro tra uno spoglio presente ed i valori dello scrittore. Una discarica rarefatta che scopre e mette a nudo le ipocrisie della società. Copertoni velati di bianco, un falso candore, un inferno interiore. Siamo nella nuova creazione di ricci/forte, PPP Ultimo inventario prima di liquidazione che chiude la stagione del Teatro Argentina dal 14 al 16 giugno completando l’omaggio che il Teatro di Roma ha dedicato a Pier Paolo Pasolini, nel quarantennale della sua tragica scomparsa.
Lo spettacolo si interroga sulle involuzioni culturali del nostro presente, attraverso un testo poetico di dura denuncia dell’Italia contemporanea. Uno spettacolo meno esasperato, apparentemente più sobrio rispetto ad altri, che temporaneamente mette da parte l’estetica pop e le esasperazioni stilistiche per lasciarsi guidare dal narrato e dall’evocato. Ma le parole le non hanno mai un significato solo. PPP sta per Pier Paolo Pasolini, a cui è dedicata la rappresentazione un’elegia all’uomo ed al poeta in contrapposizione al confomismo dei tempi. Ma PPP sta anche per primissimo piano, ovvero inquadrature e focalizzazioni su dettagli, primi piani, controcampi per raccontare una scampagnata, una corsa in bici, una mattinata al lido, preferibilmente quello di Ostia, in autunno. Un omaggio all’intellettuale, scrittore, poeta, attraverso una struttura di memorie e immagini cinematografiche a metà tra compassato racconto biografico ed potenti invenzioni coreografiche.
Un ragazzo (Giuseppe Sartori capace sempre di grandi performance), alter ego dell’intellettuale in crisi, si piega sotto il peso di un grosso copertone bianco e inizia a vagare e a rimuginare sullo stato delle cose e sul suo ruolo. Immerse tra i copertoni cinque donne – Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Catarina Vieira – sono un mondo di apparizioni a cui si contrappone l’isolamento di un “io”, del poeta- Sartori. Le cinque figure sono riflessi della sua coscienza, sono donne, uomini, in un continuo alternarsi di integrazione e repulsione.
Giocando su una scrittura ora letteraria, ora cinematografica, ricci/forte costruiscono un percorso avvincente dal primo all’ultimo istante, con la solita ricerca musicale efficacissima e dirompente. Rimane la forza dell’espressione teatrale ed il messaggio all’orizzonte, che supera violenza, atarassia e volontà degli uomini per rigenerare, ciclicamente, l’utopia di un possibile cambiamento, di una nuova rinascita socio-culturale.
data di pubblicazione: 16/06/2016
Il nostro voto: 
da Rossano Giuppa | Mag 23, 2016
(Teatro India – Roma e in tournée)
Siamo alla fine degli anni ’30 nella provincia americana, ma potremmo essere alla fine degli anni sessanta in Italia. I disagi e le difficoltà sono gli stessi, un piccolo mondo pervaso di speranze soppresse e segnato dalla costante fatica di vivere. Siamo di fronte a Lo zoo di vetro, il capolavoro del drammaturgo americano Tennessee Williams in scena al Teatro India di Roma dal 18 al 22 maggio nella versione di Arturo Cirillo, a cavallo di una lunga tournée nei principali teatri italiani.
Amanda, ancorata al ricordo di una giovinezza da tempo sfiorita, ha cresciuto i suoi due figli da sola, dopo che suo marito li ha abbandonati. Tenera e ossessiva al tempo stesso, la donna si preoccupa del futuro della figlia Laura, resa zoppa da una malattia, introversa e chiusa nel suo mondo fatto di illusioni e di animaletti di vetro. L’altro figlio Tom lavora in una fabbrica di scarpe per mantenere madre e sorella, ma la vita noiosa e banale che è costretto a condurre lo rende irascibile e lo porta a fuggire dalla madre e dalla casa ogni sera per cercare nel cinema e nei film il senso della propria esistenza. La madre prega Tom di trovare un corteggiatore per la sorella che le possa garantire un futuro ed una sopravvivenza. Per liberarsi dalle pressioni di sua madre, Tom invita così Jim, un amico di vecchia data che ora lavora con lui alla fabbrica. Mentre Amanda si dedica completamente all’allestimento della cena, Laura scopre che Jim è il ragazzo che ai tempi del liceo le piaceva moltissimo ma sopraffatta dalla sua stessa timidezza e non riesce nemmeno a sedersi con gli altri a tavola. Durante la cena, improvvisamente la luce va via. I due ragazzi si trovano così a parlare a lume di candela. Per un attimo l’arrivo di Jim dal mondo esterno sembra gettare un raggio di luce sull’intima disperazione di tre vite ormai cristallizzate nei propri dolori, ma è una speranza vana. Mentre i due ragazzi si trovano a danzare insieme, con un brusco movimento Jim fa cadere un unicorno di vetro che fa parte della collezione di Laura, spezzandogli il corno. Subito dopo la bacia, ma le confessa di essere già promesso sposo a un’altra donna e fugge via. La madre si infuria con Tom e lo caccia di casa. Tom nel soliloquio finale spiega come dopo quella sera lui avesse abbandonato Amanda e Laura non tornando più da loro, anche se il loro ricordo lo aveva tormentato per tutta la vita.
Il ricordo pervade il teatro: lo spettacolo è attraversato da una malinconia nostalgica, evocata dalle canzoni di Tenco, dal rimpianto del passato, dall’album di vecchie fotografie, dal delicato e sospeso alternarsi di passato e presente.
Vivi e profondi tutti e quattro gli interpreti in grado di dare anima a differenti drammi di solitudine e sconfitta; c’è Tom (Arturo Cirillo anche regista delle piece) il figlio-narratore che si rifugia ogni notte in un mondo di cinema ed alcol; Laura (Monica Piseddu) sua sorella, donna fragilissima che trova senso nell’accudire una collezione di animaletti miniaturizzati in vetro e poi Amanda (Milvia Marigliano) motore di ogni patologie ma anche vittima di un abbandono e, soprattutto, di sé stessa. La flebile possibilità di ingentilire il futuro arrivata insieme a Tom (Edoardo Ribatto), giovinotto bello ma impegnato è destinata ben presto a tramutarsi nell’ennesima cocente delusione.
Il regista Cirillo, particolarmente sensibile al tema della memoria e del ricordo riesce a dare unicità e contemporaneità all’opera di Williams attraverso una veste asciutta e realistica, essenziale, efficace grazie anche alla trasposizione temporale di fine anni ’60 nella provincia italiana. Un piccolo capolavoro emotivo, straziante, assoluto fatto di pochi elementi che inchiodano il dramma, la disperata solitudine di un gruppo di anime deboli, lo scontro e la sconfitta nei confronti della propria quotidianità, banale e avvilente, logorante, deprimente.
data di pubblicazione:22/05/2016
Il nostro voto: 
da Rossano Giuppa | Mag 21, 2016
(Evento nelle sale solo il 23 e il 24 maggio)
Era l’estate del 1985. Una calda estate siciliana, una famiglia che si appresta ad organizzare una festa di compleanno per la figlia adolescente. Ma una minaccia, intercettata dai Carabinieri dell’Ucciardone costringe quella famiglia, la famiglia Borsellino insieme a Giovanni Falcone ed alla sua compagna, ad una fuga improvvisa di notte e ad una reclusione forzata, sull’isola dell’Asinara, all’epoca sede del carcere di massima sicurezza. Una reclusione a cielo aperto, a poca distanza da detenuti effettivi, una condivisione forzata di spazi ed emozioni, angosce e speranze per due famiglie, un presagio velato a tre mesi dall’inizio del maxi-processo di Palermo.
Diretto da Fiorella Infascelli, autrice anche della sceneggiatura insieme a Antonio Leotti, Era d’estate ricostruisce con delicatezza quell’esperienza, facendo emergere lati inediti dei due protagonisti. Al centro della scena Massimo Popolizio nel ruolo di Giovanni Falcone, Beppe Fiorello in quello di Paolo Borsellino accanto a Valeria Solarino e Claudia Potenza, compagna e moglie rispettivamente di Falcone e Borsellino.
Un film semplice e lineare, malinconico e silenzioso, che prova a raccontare una frazione della vita dei due giudici, negli aspetti più intimi e personali, più pacato e ottimista Borsellino, più ironico e irruento Falcone, inquieti nell’attesa dei faldoni da analizzare, diversi ma alla fine uniti nella meticolosa preparazione del grande processo, di fronte ad un mare bellissimo ed un paesaggio essenziale. Un mare forte e protettivo in un tempo dilatato che permette ai due uomini di conoscersi meglio e di assemblare al meglio gli elementi del processo che li vedrà impegnati, preparandoli a un destino inesorabile che li aspetta.
data di pubblicazione:21/05/2016
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