LO SPIRITO ERRABONDO di W. Somerset Maugham- Adelphi editore, 2019

LO SPIRITO ERRABONDO di W. Somerset Maugham- Adelphi editore, 2019

Di un grande e prolifico autore non si butta niente. Anche se i brani collazionati appartengono a epoche e prospettive diverse. Il gradimento per il grande autore risolverà in riconversione orizzontale il cocktail di un’operazione comunque destinata a funzionare sotto l’egida di un editore di prestigio. Maugham era in effetti uno spirito errabondo, radical chic e snob ante litteram. Un letterato rotto a tutte le esperienze nella vita. Raffinato omosessuale e frequentatore mondano di ambienti à la page. Ma comunque commentatore non frivolo della vita che mostrava di conoscere bene per esperienze amorose, viaggi, colleghi, fini della letteratura e fruizione commerciale. Così da questo eclettico intellettuale non ci si stupirà della dotta dissertazione su Kant, qui descritto nei minimi particolari della propria vita domestica. Come la ritualità della passeggiata (sempre quella, sempre alla stessa ora), mostrando sul piano teorico pregi e limiti del pensatore di Konigsberg. Maugham è capace di prodursi con disinvoltura tra questi contributi vari e diversi in un saggio sul pittore spagnolo come Zurbaran come in una critica feroce in cui non rintraccia le ragioni del successo di Conan Doyle, giudicato giallista fiacco e poco convincente. L’autore non ha paura di compromettersi in giudizi ficcanti e spregiudicati dall’alto di una provata esperienzialità. Come entrare nel salotto buono frequentato dai letterati e giudicare la goffaggine fisica di Henry James, constatando quasi dal vivo il fiasco di una propria commedia teatrale. Umano troppo umano. Saggio troppo saggio, Maugham è il letterato della porta accanto, prodigo anche di gossip ma di quelli informati partecipati perché vissuti, dunque succosi aneddoti. Non finirà qui perché ci sono sue opere (anche lunghi articoli) mai tradotte in italiano e dunque è lecito attendersi da Adelphi nuove puntate su questo autore riscoperto che nella storia delle letteratura ha vissuto di vistosi alti e bassi nel gradimento della critica e del pubblico.

data di pubblicazione:14/01/2020

IL ROMPIBALLE di Francis Veber, regia Pistoia e Triestino

IL ROMPIBALLE di Francis Veber, regia Pistoia e Triestino

(Teatro Ghione – Roma, 9/26 gennaio 2020)

(Un classico della comicità, molto sfruttato, persino un po’ logoro. Un intreccio da barzelletta nel duello diventa il pretesto per 80’ di comicità con comprensibili alti e bassi).

La premiata ditta comica Pistoia & Triestino si è costruita una solida base di pubblico e il tutto esaurito alla prima senza particolari Vip (notato il solo Franco Nero) testimonia di una larga base di gradimento popolare. Abbandonato per un ciclo il filone di Gianni Clementi, il duo pesca in Francia. E dopo La cena dei cretini sfrutta Veber per un frammento di comicità pure che attinge alla commedia dell’arte, a quella degli equivoci, al repertorio consolidata del mestiere dei due attori. Il film tratto da questo spunto risale nientemeno che al 1973, è passato quasi mezzo secolo, quando gli attori erano Lino Ventura, Jacques Brel e Nino Castelnuovo. Triestino dopo aver imparato il bielorusso (Ben Hur) qui si esprime in un italiano russizzato. Mantenendo l’ambientazione francese (marsigliese) si è ammiccato alla scuola dei duri di tanti gialli scritti e vissuti in loco. La bravura è quello di dilatare una trama che potrebbe essere riassunta in cinque righe e pochi minuti di teatralizzazione. Dialoghi fatto di tormentoni all’interno di uno scenario tradizionale (un inconsueto triangolo). Politica e attualità sono bandite perché il dettame del divertimento detta legge. Quando il sipario cala è chiaro che non ci sarà spazio per il secondo tempo se non per il riassunto dello speaker, l’apprezzato doppiattore Angelo Maggi. Spettacolo di consumo ma di qualità nel segno di quel divertimento popolare che è quasi sparito dai teatri italiani nel nome di una seriosità dominante e auto-referenziale. La scena di Francesco Montanaro con lo schema delle due camere comunicanti è funzionale alla felice sinergia dei due amici attori. E gli interpreti di contorno, con una citazione particolare per l’amante, s’incastrano magnificamente nella filosofia ludica del lavoro di gruppo.

data di pubblicazione:10/01/2020


Il nostro voto:

LO CUNTO DE’ LA VECCHIA VERGINE, versione teatrale di Vincenzo Longobardi

LO CUNTO DE’ LA VECCHIA VERGINE, versione teatrale di Vincenzo Longobardi

(Teatro di Documenti – Roma, 3/6 gennaio 2020)

Esilarante e scoppiettante trattamento di un autore letterariamente e cinematograficamente riccamente riscoperto. Trama-pretesto tra giochi di luce, cambi di sala e balli partecipati con il pubblico.

La conformazione del teatro si presta a cambi di scena, a brusche ed intermittenti suture di un vaudeville affrontato a ritmo di carica. Con gli uomini che fanno le donne e viceversa. Giochi di travestimenti e inganni sull’età per un matrimonio che, sul brivido dell’erotismo agognato, si deve fare a tutti i costi. La prima notte di nozze sarà un disastro ma l’invenzione miracolosa della fatina buona farà si che una vecchia rugosa si trasformi un’affascinante fanciulla ovvero come da un paginetta e mezzo di Basile si possa ardire a un’incalzante crescendo. Per la verità il finale è anche nero e non solo rosa. Perché la sorella invidiosa ci lascerà le penne e nell’immobilità finale si riscatta la bravura del demiurgo Longobardi che nella ripresa di uno spettacolo collaudato si esalta come femminella stagionata, guidando marpionescamente le danze, con frequenti ammicchi rivolti al pubblico. Che si fa esso stesso attore itinerante e partecipante alla favola rosa-nera. Il napoletano è la lingua (non il dialetto) dominante ma anche attori romani se la cavano magnificamente. Non è facile vedere in scena 18 attori e/o musicisti. Anche questo è un miracolo della passione teatrale nelle sale di Damiani che consentono contorsioni semi-acrobatiche degne di una grotta. Il viaggio fantastico è una digressione nella fantasia più spinta con afrori di burlesque nei travestimenti e un pizzico di poesia. Sullo sfondo il mito di una bellezza, agognata e raggiungibile, alla fine. Il turpiloquio è la scorciatoia ovvia per parlare alla pancia del pubblico pensante.

data di pubblicazione:07/01/2020


Il nostro voto:

IL MEDITERRANEO IN BARCA di Georges Simenon – Piccola Biblioteca Adelphi, 2019

IL MEDITERRANEO IN BARCA di Georges Simenon – Piccola Biblioteca Adelphi, 2019

Le scapigliate avventure in barca di uno dei più prolifici autori del mondo, banalmente definito di genere. Simenon è come un calciatore esperto che sa giocare sulla fascia, al centro e persino in difesa. Come in questa operina minore (in letteratura non si butta niente) rieditata da un editore importante e prestigioso e dunque abilitata a una sicura e importante vendita. Qui lo scrittore di gialli vira nel giornalista corrispondente che si aggira nel Mare Nostrum Mediterraneo, tra Europa e Africa, cavando succhi basilari dalla vita di mare e da alcune esperienze molto ruspanti. Il deterrente sessuale è sempre molto vivo nelle sue fantasie senza particolari connotazioni di genere. Si carpiscono molte informazioni sul suo carattere e sulle sue abitudini, sulla sua passione per il mare e per le sue idiosincrasie. Giornalista parziale e dunque non fedelissimo della realtà, restituita attraverso gli occhi sensibili dello scrittore e quindi con un’accezione particolare. Non altissima letteratura ma fogli di giornale deperibili, peregrinazioni che possano apparire senza capo ne coda. Più che notizie giornalistiche, divagazioni, piccole fughe narrative con altrettanti microscopici episodi descritti con avidità di particolari. Il libro si arricchisce delle foto, un accostamento e in fondo una passione coltivata dallo scrittore francese per diversi decenni. C’è amore e odio per il Mediterraneo descritto come una serie ininterrotta di golfi. Un mare oggi improvvisamente poco pescoso e che costringe i pescatori nostrani a pericolosi sconfinamenti. Trapela un’ironia distante, un po’ radical chic. L’aristocratico mantiene sempre le distanze dal volgo. Gli scritti sulla goletta rivelano curiosità e stupore nei vari passaggi dalla Tunisia all’Italia e a Malta, sempre con l’occhio attento alle onde ma anche ai personaggi che popolano quel mare e che gli conferiscono un’identità precisa. Pezzi di apprendistato rivalutati dopo che la scoperta e la fama di Maigret hanno compiuto un’importante traversata nella letteratura mondiale.

data di pubblicazione:20/12/2019

L’ONORE PERDUTO DI KATHARINA BLUM di Henirich Boll, adattamento di Letizia Russo, con Elena Radonicich e Peppino Mazzotta

L’ONORE PERDUTO DI KATHARINA BLUM di Henirich Boll, adattamento di Letizia Russo, con Elena Radonicich e Peppino Mazzotta

(Teatro Eliseo – Roma, 3/15 dicembre 2019)

Letteratura al cinema con qualche problema di mimesi e di rappresentazione. Duetto di attori per un’innocenza che viene contaminata dal sospetto di una insinuante cultura giornalistica del fango. Attualissimo richiamo ai nostri tempi.

 

Impresa ardua quella di trapiantare un classico del premiato autore tedesco a teatro nei limiti delle pareti esistenti e di una storia letterariamente assai dilatata. Lo scrittore aveva puntato sul dissidio tra la donna protagonista e il giornalista mentre la versione teatrale si apre a ventaglio ad altri scenari, in particolare al rapporto malcelato di affetto tra il datore di lavoro e la governante, progressivamente trascinata in uno scandalo dal quale non sembra poter uscire. C’è il poliziotto cattivo e quello buono. C’è la madre, c’è l’amica, c’è la moglie dei benestante. Il fascino di Katharina viene fuori progressivamente disvelato dal folle e irrazionale sentimento verso un presunto terrorista che alla fine si rivelerà un criminale abbastanza innocuo. Tanto rumore per nulla? No, perché ci scappa il morto. Il giornalista che deforma persino le interviste incurante di ogni possibile deontologia professionale. C’è catarsi e climax in questa esecuzione, legittima difesa dopo un tentativo di approccio sessuale. Risulta leggermente ostica la narrazione in terza persona di Katharina che serve a raccordare le storie e ad accorciare lo sviluppo della vicenda, espediente forse inevitabile. Mazzotta continua a rivelarsi ben più dotato dello stereotipo di Fazio, spalla di Zingaretti in Montalbano. Del resto aveva già rivelato il proprio talento in Anime Nere, il più fedele film sulla ‘ndrangheta della cinematografia italiana minuti. Non è uno spettacolo facile con qualche caduta di ritmo, frutto del voler dire tanto e dello sforzo immane di condensazione di un’opera letteraria che gode di un ritmo cadenzato.

data di pubblicazione:18/12/2019


Il nostro voto: