da Daniele Poto | Ott 9, 2024
con Simone Colombari, Sergio Basile, Rosario Coppolino, Viviana Altieri, Cristiano Dessì, Beatrice Coppolino, interpretazione e regia di Emilio Solfrizzi, scene di Fabiana Di Marco, luci di Massimiliano Gresia, costumi di Alessandra Beneduce.
(Teatro Quirino – Roma, 8/20 ottobre 2024)
Plauto non è solo l’ingrediente di repertorio del teatro estivo se viene chiamato, riveduto e corretto, a aprire la stagione del Quirino che ancora pochi abbinano al nome di Vittorio Gassmann. Due tempi spigliati ed irriverenti in cui Solfrizzi conferma le doti di mattatore comico trascinando la compagnia a un franco successo corale. Spettacolo che viene fuori come un diesel con tomi maggiori nella ripresa.
Due Anfitrione e due Sosia nella commedia degli equivoci. Senonché uno è Giove e tutto può, scatenamento dei temporali compresi. Così da Alcmena, sposa tra i due, viene fuori un parto gemellare: un figlio a uno, un figlio all’altro. E alla fine lo chiameremo Sosia nel segno del riscatto della schiavitù, furba e decisiva. Solfrizzi uno dei Sosia, meritoriamente lascia il giusto spazio agli altri interpreti ritagliandosi una regia illuminata in cui c’è posto anche per i singoli assolo, con un solo attore in scena. Frizzi e lazzi con condimenti assortiti. Citazioni da Celentano, Petrolini, riferimenti all’attualità e alla politica attuale, senza troppo calcare la mano. Tutto il mestiere appreso nella gavetta con Stornaiolo viene fuori con perizia con l’assemblaggio della Compagnia Molière che a questo repertorio precipuamente si dedica. Il momento più spassoso è però para-televisivo. Quando si allude ad Amadeus e ai suoi quiz. Qui il deterrente della pausa trattenuta viene sfruttato con perfetti tempo comici ed è la l’esauriente epitome della bravura del maggiore interprete. Teatro pieno, come da copione della prima con folte comitive di studenti ad abbassare l’età media, come al solito piuttosto alta.
data di pubblicazione:09/10/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 6, 2024
di Liberato Santarpino, regia di Sebastiano Somma, con Sebastiano Somma e Morgana Forcella, in scena i musicisti Emilia Zamuner, Giuseppe Scigliano, Marco De Gennaro, Gianmarco Santarpino, Liberato Santarpino, ballerini Enzo Padulano e Francesca Accietto, scenografia Lumetrie.
(Teatro Vittoria – Roma, 3/6 ottobre 2024)
Una storia d’amore che diventa anche partecipazione alla vita sociale del Cile nello sviluppo drammatico della dittatura. Neruda appare come folgorato da una passione che non ottunde il suo desiderio di pace e fratellanza universale. Commoventi immagine d’epoca e tra le foto, una graffiante: Pinochet affacciato dal balcone Vaticano in compagnia del Papa d’epoca.
Tensione sentimentale e temperie politica cilena. Su questo arco emotivo si snoda uno spettacolo didattico e/o musicale che racconta un pezzo della grande storia d’amore che legò uno dei più universali poeti del novecento con la messicana Matilde. Ancorati al leggio i due personaggi si parlano in un ragionevole lasso temporale mentre i due omologhi ballerini danzano balli di passione. Tappe immaginate ma non immaginarie a Berlino, Nyon, Capri, Roma, rifugi segreti, prima clandestini poi pubblici. Si esce dallo schema del reading con pregevole musica del vivo che si lega alla tradizione sudamericana del tango. La voce di Somma prima è sommessa e delicata, alla fine irrompe su toni alti, quasi un grido di dolore quando la sua speranza di redenzione dell’umanità si infrange sulla dittatura di Pinochet e la dura realtà conosciuta dal Cile in cui inevitabilmente fa approdo, dopo lungo girovagare, nonostante il dissenso di Matilde. Nello spettacolo si riflettono i tormenti di un‘epoca e, in reazione, si alza la voce forte di una poesia che confessa di aver vissuto di luce e vita propria, nonostante tutto. Gli affanni sentimentali di Neruda si sposano con la delicata emotività della dolce Matilde. Un amore forte che è soprattutto indomita passione.
data di pubblicazione:06/10/2024
Il nostro voto:
da Daniele Poto | Ott 5, 2024
Intimistico ritratto a due: padre/figlia. Con la specifica della fama del regista Comencini, uno dei maestri della commedia all’italiana. Scelta deliberata quella di escludere il resto della famiglia per un focus su un rapporto speciale. Tranciando le altre storie di famiglia e persino Calenda, mostrato per qualche secondo in fasce.
Il tempo che ci vuole, oltre alla citazione interna nel film, è quello necessario per metabolizzare un rapporto intenso e portarlo sullo schermo, analizzando un rapporto contraddittorio, non sempre dialettico. La bambina dolce e docile dell’inizio, portata costantemente sul set, diventa nella parte centrale un adolescente problematica. Per un film senza effetti speciali e con cadenza teatrale occorreva un attore come Gifuni per sostenere la sceneggiatura e, a parte qualche banalità dialogica, in particolare quando ci si sofferma sulla dipendenza dalla droga, l’operazione riesce e la tensione narrativa viene mantenuta. La Comencini si mette a nudo senza troppi pudori con qualche libertà poetica e qualche digressione rispetto alla realtà storica. Si attraversa il terrorismo con la cronaca televisiva e l’epopea del cinema muto. Perché Comencini salvò un pezzo di storia del cinema d’anteguerra e le immagini del Pinocchio del 1911 (prima del celeberrimo tutto suo) sono chicche d’autore. Sullo schermo Comencini piange quando vede Paisà di Rossellini perché gli ricorda un’Italia (e un cinema) che non c’è più. Quando già la malattia incalza. Musica d’epoca, tra la classica, Nicola Di Bari, Neil Young. Ma del resto anche Sorrentino saccheggia niente meno che Cocciante. Un film la cui distribuzione si fermerà a Chiasso anche se c’è un pezzo di Parigi che fa molto cartolina. La Roma mostrata è quella dei quartieri alti e del centro che fa molto famiglia Comencini.
data di pubblicazione:05/10/2024
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da Daniele Poto | Ott 4, 2024
Traduzione per il grande pubblico dei ben più complessi gialli dello scrittore greco-turco Petros Markaris. Regia non particolarmente creativa anche se si apprezza lo sforzo di ricreare una location evidentemente Ateniese (Partenope, Acropoli, souvlaki, Piazza Omonia). Persino in greco gli striscioni di una manifestazione sindacale.
C’è stata una stagione cinematografica in cui non si poteva girare un film se non c’era Stefano Fresi. Il corpulento polivalente attore in virtù della propria popolarità assume un personaggio che dovrebbe avere più sfrangiature e sottigliezze per ricalcare il prototipo narrativo. Fresi si sforza per approssimazione ma più dentro la parte sembra la sua moglie e partner Francesca Inaudi. Il legame matrimoniale è il collante ma anche l’altra faccia dell’attitudine investigativa. Per tenere vivi gli episodi (e le quattro puntate) si raccontano omicidi che poi si saldano con il delitto precedente, ingenerando un minimo di sovrabbondanza. Il ritmo è variabile, a tratti calante. Compare ironicamente anche Markaris, l’autore in una sorte di auto-citazione. Si leggono i crismi del film tivù più che di un’opera capace di svincolarsi dal genere e assurgere al rango di cinema. L’inscatolamento in interni nuoce alla varietà della volenterosa narrazione. Il gemello greco di Camilleri produce un Montalbano minore, meno tipizzato e brillante. Ma nel mare magnum dell’attuale produzione dell’ente pubblico la sufficienza non è stiracchiata e in fondo merita il primato di ascolti. Apprezzando il tentativo di sprovincializzare il mainstream degli investigatori all’amatriciana. Retrodatando le vicende si respira anche un po’ di politica, con l’aura in declino del regime dei colonnelli in una società che, a tratti, appare persino più asfittica e corrotta di quella italiana.
data di pubblicazione:04/10/2024
da Daniele Poto | Ott 1, 2024
Si porta addosso la nomea di film maledetto perché rievocando le discutibili imprese del colonialismo italiano si vide bocciato dalle censura (v. Andreotti) e costretto al solo mercato estero. Drammone che ha i tratti di un western per quasi tre ore di durata e un cast di tutto rispetto.
Ricompare dopo 43 anni e un lungo cammino di clandestinità una pellicola feroce verso la patria ma piuttosto fedele alla realtà storica. La sovrabbondante superiorità militare nostrana fa fatica a stroncare la resistenza dei beduini libici che non vogliono sottomettersi alle pretese dell’invasore. Lo scenario è quello degli anni ’30 ma illumina un pezzo di futuro e il Gheddafi che fu. Quando Mussolini (un efficace Rod Steiger) decide di forzare la mano, nomina il feroce Graziani come Governatore della Libia. E la repressione che ne segue è spietata. Impiccagioni, decimazioni, mutilazioni, rendono il Paese una sorta di terra di nessuno in preda alla carestia. E l’estrema ratio è un campo di concentramento in filo spinato che stronca le ultime resistenze. Una damnatio memoriae avvolge il film. Il baluardo del patriottismo libico Omar Al Mukhtar, ben reso da Anthony Quinn, è un eroe che conosce l’arte della guerra e che non abdicherà al proprio credo, rinunciando al salvacondotto e a una pensione di Stato dell’invasore. Film dal budget illimitato per l’epoca con ben rese scene di combattimenti. Proiettato al Cinema L’Aquila, sotto il controllo del Comune di Roma e per volontà dell’associazione “Un ponte per” che ha dato vita a una raccolta di firme per spingere al Rai a mandarlo in onda nei prossimi mesi su una rete generalista. Da notare in parti di assoluto contorno Lino Capolicchio, Claudio Gora, Mario Feliciani e Gianni Rizzo.
data di pubblicazione:01/10/2024
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