VIVIANE di Ronit e Shlomi Elkabetz, 2014

VIVIANE di Ronit e Shlomi Elkabetz, 2014

(Festival di Cannes – Quinzaine)

Le proces de Viviane Amsalem è il sottotitolo di Viviane, il film di Ronit e Shlomi Elkabetz, ovvero la sintesi di un vero e proprio processo lungo cinque anni che una donna subisce nell’aula di un tribunale di una non ben identificata località israeliana, per potersi separare da un marito che non ama più e da cui non è più amata.
I coniugi Amsalem, pur essendo sposati da molto tempo e con prole, non sono mai andati d’accordo: la convivenza è divenuta un inferno soprattutto per Viviane, che non intende più stare con suo marito Elisha a causa di un’incolmabile incompatibilità che da tre anni l’ha portata a lasciare il tetto coniugale e a vivere ospite del fratello in un piccolo monolocale situato nel giardino della sua casa; ma Elisha, al contrario, non vuole affatto che la moglie torni ad essere libera e soprattutto non vuole pronunciare davanti ai giudici del tribunale la frase da adesso sei permessa a qualunque uomo, decidendo di prendere tempo non presentandosi alle udienze e riuscendo così a trascinare la vicenda per molti anni tra continui testa a testa e tentennamenti.
La condizione di Viviane descritta nel film è quella di molte donne in attesa di divorzio nello stato di Israele, perché, secondo la legge rabbinica, la moglie può chiedere di divorziare ma non ha il diritto di farlo in quanto spetta esclusivamente all’uomo concedere la libertà alla “condannata”. Ronit Elkabetz, protagonista, sceneggiatrice ed anche regista del film assieme al fratello, disegna ed interpreta un personaggio di rara forza, paziente, con uno sguardo profondo ed intenso, disperatamente ostinata: i suoi splendidi capelli nero corvino che rifiuta di coprire con una parrucca, i vestiti che indossa alle udienze e soprattutto le scarpe sono magnificamente esplicative di ciò che sarà l’epilogo del suo destino più di tante parole, tutte quelle parole che per l’intera durata del film vengono versate in quella squallida ed asfittica aula di tribunale. Anche se per la tematica Viviane può essere accostato allo splendido film iraniano Una separazione, vincitore di un Oscar nel 2012, tuttavia la tenacia con cui questa donna supplica il marito di poter tornare a vivere, rivendicando la sua libertà contro una legge ingiusta, è talmente struggente e centrale da dare a questo film così piccolo, fatto però di poche cose così grandi, un respiro assolutamente originale e meraviglioso, entrando di diritto nella scarna lista dei film necessari da vedere e giustamente candidato da Israele per concorrere all’Oscar 2015 come migliore film straniero.


 data di pubblicazione 2/12/2014


Scopri con un click il nostro voto:

SCUSATE SE ESISTO! di Riccardo Milani, 2014

SCUSATE SE ESISTO! di Riccardo Milani, 2014

Accoppiata vincente quella Bova-Cortellesi che, dopo il Nastro d’Argento con Nessuno mi può giudicare che valse alla Cortellesi anche un David di Donatello, ci riprovano con questa graziosa commedia di Riccardo Milani, regista prevalentemente televisivo, ma con un grande film come Piano solo nel suo curriculum cinematografico. Scusate se esisto! potremmo definirlo una moderna versione italiana della famosissima commedia del 1988 di Mike Nochols Una donna in carriera, in cui Serena-Cortellesi interpreta una goffa e molto meno sensuale Tess-Griffith, che tenta di tenere alta la bandiera delle donne con cervello quando si trovano a doversi misurare con un mondo lavorativo in cui il “maschio” non si accontenta solo di imperare, ma tende a relegare l’universo femminile in ruoli comprimari, talvolta mortificanti. Nata ad Anversa, in Abruzzo e non in Belgio, Serena Bruno è una sana ragazza cresciuta in un paesino montano di poche anime, con genitori semplici che le pagano gli studi di architettura; Serena è brava e si laurea con il massimo dei voti, consegue diversi master all’estero e comincia a girare il mondo per lavoro, mostrando anche una certa propensione per le lingue straniere. Ma la nostalgia per l’Italia è tanta e decide un bel giorno di tornare; approda a Roma dove, non riuscendo subito a lavorare come architetto, per mantenersi e non pesare sulla sua umile famiglia, comincia a fare lavori alternativi. Quando si presenta per un colloquio come cameriera in un ristorante, conosce Francesco (Bova), il proprietario: bello come il sole, simpatico e da poco tornato single…l’uomo perfetto! Tra i due tuttavia non potrà nascere una storia d’amore, anche se Serena in principio non ne comprende subito il perché, ma si porranno le basi per una bella amicizia. Sarà Francesco ad incoraggiare Serena a partecipare ad un bando di concorso pubblico per architetti: le selezioni permetteranno alla goffa ragazza di entrare a far parte di un prestigioso studio di architetti, il cui boss (Ennio Fantastichini) ha ottenuto l’appalto per la riqualificazione del Corviale, complesso composto da 1200 appartamenti di piccolo taglio, alla periferia di Roma. Il “serpentone” romano di cemento armato, un edificio lungo un chilometro sito nei pressi del Portuense, costruito nel 1972 con l’idea di rappresentare uno sviluppo urbanistico per la capitale e le cui dimensioni mastodontiche pare abbiano indebolito la penetrazione del famoso ponentino romano, è il terzo protagonista di questa gradevole commedia che, tra il serio ed il faceto, scorre facilmente, facendoci ridere di gusto senza mai cadere nella volgarità spicciola, ma affrontando anche qualche punto di breve riflessione. Tra i tanti attori di cinema e TV, che coralmente hanno fatto piccoli camei nel film, vale la pena sottolineare l’interpretazione di un inedito quanto irriconoscibile Marco Bocci.


 data di pubblicazione 23/11/2014


Scopri con un click il nostro voto:

PICCOLE BUGIE TRA AMICI di Guillaume Canet, 2012

PICCOLE BUGIE TRA AMICI di Guillaume Canet, 2012

Film corale sicuramente non originale ma ben riuscito, erroneamente paragonato al Grande Freddo di Kasdan, Piccole bugie tra amici è un buon prodotto della nuova cinematografia francese di cui G. Canet ne è un esempio, sia come regista che come interprete. A questi amici, che trascorrono tra egoismi e falsità, una bella ed educativa vacanza in una splendida villa a Cap Ferret, dedichiamo un dolce il cui nome “falsamente” francese cela un’origine portoghese: Crème Caramel o Latte alla Portoghese, tanto per confermare che a volte qualcuno non è proprio ciò che dice di essere….

INGREDIENTI:1 litro di latte intero alta qualità – 6 uova freschissime – 2 etti di zucchero semolato – 1 baccello di vaniglia – la buccia di un limone non trattato.

PROCEDIMENTO: Mettere sul fuoco il latte con 1 etto di zucchero, il baccello di vaniglia e la buccia del limone facendo attenzione che non rimanga la parte bianca che può risultare amara. Quando il latte sta per bollire, abbassare la fiamma e far sobbollire per qualche minuto; spegnere il fuoco. Quando il latte è tiepido togliere la buccia del limone e il baccello di vaniglia. Fare freddare il latte ed aggiungere ad una ad una le uova intere (rosso ed albume), mescolando di volta in volta o con una forchetta o con la frusta del frullatore a velocità media: la scelta dipende dal fatto se il crème caramel volete che abbia quei piccoli buchetti tipici di un prodotto artigianale (usate la forchetta) o a grana più fine (usate le fruste). Preparate a parte del caramello con il restante zucchero, lasciandolo sciogliere sul fuoco con un po’ di acqua. Mettere il caramello ancora caldo dentro lo stampo in pirex da budino (o anche uno antiaderente) facendolo aderire alle pareti e versarci il composto di latte e uova, filtrandolo con un colino. Nel frattempo fate scaldare bene il forno, fisso solo sotto, a 180°. Mettete il contenitore con il composto al centro di un tegame a bordo alto (tipo la teglia per fare le patate al forno) e versate dell’acqua nel tegame sino a far sì che il contenitore con il crème caramel risulti immerso per metà. Cuocete in forno per circa 50 minuti/1 ora e lasciate freddare dentro a forno spento. Rovesciate il creme caramel dopo averlo fatto freddare in frigo.

THE BIG CHILL di Lawrence Kasdan, 1983

THE BIG CHILL di Lawrence Kasdan, 1983

Che dire di questo splendido film, se non di vederlo e rivederlo? Le ferite che la guerra in Vietnam ha impresso su un’intera generazione di americani, vengono esorcizzate da un gruppo di trentenni (tra cui emergono, giovanissimi, Glenn Close, William Hurt, Tom Berenger, Kevin Kline, Jeff Goldblum), che si ritrovano in occasione del funerale del loro amico Alex, morto suicida (memorabile la vestizione di Kevin Costener nei panni del “corpo” durante i primi minuti del film), trascorrendo insieme un intero week end. Sulle note di grandi successi americani anni sessanta targati Soul Motown, che compongono una colonna sonora da urlo (!!!), non potevamo che proporre un calorico winter crumble, variazione sul tema del più conosciuto e semplice apple crumble a base di mele, ricetta regalataci dalla nostra amica Cynthia e perfettamente adatta per scaldarsi durante le fredde ed uggiose giornate invernali.

INGREDIENTI: 100 gr  di burro – 70/80 gr di zucchero di canna – 100 gr di farina – 1 pera, 1 mela, 2/3 susine fresche – 1 cucchiaio abbondante di cannella in polvere – ½ limone – 1 pezzetto di zenzero tritato – sorbetto alla frutta o panna montata

PROCEDIMENTO: Sbucciare e fare a spicchi non troppo spessi la mela, la pera e metterle in una terrina con il succo di ½ limone per non farle annerire; aggiungete le due/tre susine a pezzetti (in mancanza di quelle fresche, si possono utilizzare 2 prugne secche e 3 albicocche secche rinvenute in acqua calda e strizzate). Girare la frutta, scolarla dell’acqua in eccesso ed aggiungete la cannella in polvere assieme ad un pezzetto di zenzero tritato. Adagiare il composto in una teglia da 4 pozioni di alluminio. Mettere poi in una terrina a parte la farina con la zucchero e versarci sopra il burro fuso. Lavorare con le mani sino ad ottenere un impasto granuloso, come delle palline irregolari. Cospargere con le mani questo impasto sulla frutta già adagiata nella teglia di alluminio. Infornare per 15/20 minuti a 180° forno temo-ventilato, già riscaldato in precedenza. Servire tiepido a pezzetti irregolari assieme ad un sorbetto di frutta (limone, ananas e zenzero, mela cannella e mandorle etc.) oppure, se fuori c’è proprio Un grande freddo,  servitelo con della panna montata.

IL SALE DELLA TERRA di Wim Wenders e Juliano Ricardo Salgado, 2014

IL SALE DELLA TERRA di Wim Wenders e Juliano Ricardo Salgado, 2014

Fotografare dal greco significa “disegnare con la luce”, dunque il fotografo è colui che con la luce, che si riflette su di una scena, crea un’immagine. Unico maschio di otto figli, Sebastião Salgado viene avviato agli studi di economia dal padre, proprietario di una fazenda in Brasile ed allevatore di bestiame, e negli anni settanta per lavoro si trasferisce in Francia e poi a Londra; sarà sua moglie, architetto, a regalargli una macchina fotografica che segnerà l’inizio di una vita avventurosa ed unica attraverso il mondo, la natura, le civiltà, i popoli e le loro sofferenze. Il grande regista Wim Wenders, assieme a Juliano Ricardo Salgado, figlio di Sebastião, ispirati dalla potenza delle sue immagini rigorosamente in bianco e nero, alternando fotografie, storia personale e riflessioni dell’artista, ci regalano Il sale della terra, film imperdibile perché necessario ad ogni essere umano come esperienza per sentirsi più forti, più vivi, in quanto spettatori di un documento toccato da una grazia edificante per l’anima ed illuminante per lo spirito, oltre che pervaso da una straziante bellezza (AdM).Fotografo di persone più che di paesaggi, l’uomo è sempre al centro di ogni suo scatto proprio perché gli esseri umani sono il sale della terra, in tutte le loro manifestazioni, anche le più terribili. I suoi progetti fotografici lo hanno portato dall’Indonesia all’Africa, dai paesi dell’America latina quali Bolivia, Ecuador, alla catena montuosa delle Ande, e poi  in Messico del nord dove i suoi scatti riescono a raccogliere suoni attraverso gli occhi, per poi tornare dopo dieci anni di “esilio volontario e necessario” in Brasile. Ed è dal nord del Brasile, dove non era mai stato, che riparte il suo occhio sul mondo, su quella parte di terra in cui la morte e la vita sono molto vicine, animato da gente di grande forza morale oltre che fisica. Poi, nel 1998, accanto a Medici Senza Frontiere è in Etiopia per testimoniare l’enorme indigenza dei rifugiati, dove la gente, che ha la pelle arsa dal vento come la corteccia degli alberi, si abitua a morire… In quei posti Salgado tornerà molte volte, spinto dall’empatia per la condizione umana, dopo una sola digressione nel 1991 per testimoniare l’archeologia dell’era industriale in Kuwait, in occasione dell’esplosione dei pozzi di petrolio, ma dal 1993 al 1999 saranno sempre l’uomo e le sue sofferenze al centro della sua opera, attraverso foto sulla migrazione dei popoli in Tanzania e Rwanda, sui reietti delle guerre e sul genocidio nella ex Jugoslavia: le tende dei rifugiati…il mondo intero ne sembrava ricoperto. Siamo animali molto feroci, noi umani; tutti dovevano vedere quelle immagini, l’orrore della nostra specie.

Infine, dopo essere sceso per decenni nel cuore delle tenebre per testimoniare al mondo intero la dimensione della catastrofe dei nostri tempi, Salgado assieme alla moglie, che gli è sempre stata accanto in questo grande e appassionato viaggio che è stata la loro vita, decidono di fermarsi e di dedicarsi alla ricostruzione delle condizioni climatiche della Mata Atlantica in Brasile, con il progetto Istituto terra in favore dell’ecosistema, piantando due milioni di alberi nella zona in cui era cresciuto da bambino, ricreando parte di una foresta che oramai non c’era più, perché gli alberi sono cosa di tutti e ci danno il concetto di eternità. E se gli uomini sono il sale della terra, è la terra che è riuscita a guarire le ferite interiori di Sebastião Salgado accumulate negli anni: io sono parte della natura, come un albero, una tartaruga, un sassolino…

 data di pubblicazione 17/11/2014


Scopri con un click il nostro voto: