FAI BEI SOGNI di Marco Bellocchio, 2016

FAI BEI SOGNI di Marco Bellocchio, 2016

Torino, 30 dicembre 1969. É sera e sta nevicando. Una mamma si avvicina al letto del proprio bambino mentre lui dorme e chinandosi per dargli il bacio della buona notte gli sussurra all’orecchio “fai bei sogni”. Massimo non sa che quel gesto, vissuto da lui passivamente come qualcosa di già appartenente alla sfera onirica, segnerà l’inizio della sua nuova vita senza di lei, che svanirà nel nulla al suo risveglio. Lei, sua mamma, e quella frase sussurrata tanto amorevolmente, saranno per molti anni oggetto di racconti paterni, una sorta di “ricordo filtrato” che condizionerà la sua vita sin nell’età adulta.

 

É arrivato sugli schermi italiani l’atteso film di Marco Bellocchio liberamente ispirato al romanzo autobiografico Fai bei sogni di Massimo Gramellini, giornalista e scrittore, noto anche al grande pubblico televisivo per avere affiancato Fabio Fazio in una famosa trasmissione, divenendo personaggio dei nostri giorni molto amato. Solo un grande regista come Bellocchio poteva raccontare la storia narrata nel libro distaccandosi da esso, perché il Massimo del film non è il Massimo del romanzo, senza tuttavia allontanarsene e stravolgerla, ma dando ad essa la sua personale lettura nel raccontare “un’assenza” ingombrante con cui fare i conti e riconciliarsi. Questa assenza e questo vuoto, riemergono apparentemente per caso, in seguito ad un profetico attacco di panico del protagonista (interpretato da un misurato e taciturno Valerio Mastandrea), come manifestazione di desiderio e nel contempo di paura nello scoprire una verità da sempre negata e distorta. La storia, già nota in quanto il romanzo è del 2012, è raccontata da Bellocchio attraverso un’ambientazione in cui il ricordo ed il sogno si insinuano costantemente nel reale, attraverso la descrizione di una serie di personaggi chiave. Essi rappresentano l’ossatura del ricordo di Massimo oltre ad essere i capisaldi della propria crescita, e servono al regista come filtro per dare la sua personale versione di Fai bei sogni, in cui emerge spesso una mancanza prevalentemente affettiva da parte di chi resta accanto al bambino dopo la morte della madre. Un bravissimo Guido Caprino interpreta il padre di Massimo, distaccato e severo, che non trova mai il momento giusto per rivelargli la verità sulle cause della scomparsa, supportato da una governante che non prova neanche minimamente a colmare questa figura mancante; poi ci sono una coppia di zii, anch’essi allineati all’ideologia dell’omertà nei confronti del bambino, e un professore (prete) che lo esorta al coraggio di vivere senza “se”, ma imparando a farlo “nonostante” (figura questa magistralmente interpretata da Roberto Herlitzka). E poi c’è la vita reale, in cui Massimo incontra alcuni personaggi che ne tratteggiano la professione di giornalista: dall’intervista esclusiva ad un industriale che ricorda la figura di Raul Gardini nel momento del suo tragico epilogo (interpretato da un magico Fabrizio Gifuni), la figura di una madre (Piera degli Esposti) tratteggiata da una lettera del figlio che non la ama indirizzata al giornale al quale Massimo dovrà replicare, sino alla sua esperienza a Sarajevo in cui non potrà fare a meno di fotografare un bambino che non smette di staccare gli occhi dal suo giochino elettronico, pur di non guardare ciò che la vista non può sopportare.
Il film ci porta per mano in una favola adulta, dove i bambini soffrono e i grandi sono colpevoli perché sottraggono affetto invece di darlo, in cui la rigidità di un’educazione cattolica e la negazione della verità prevalgono sul coraggio di raccontarla ma anche sull’umiltà di farlo, segnando inevitabilmente la vita di quei figli, che da adulti dovranno fare i conti con la rabbia di una vita sempre in salita.

data di pubblicazione:13/11/2016


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UN MOSTRO DALLE MILLE TESTE di Rodrigo Plà, 2016

UN MOSTRO DALLE MILLE TESTE di Rodrigo Plà, 2016

Una donna, con un figlio adolescente e un marito in fin di vita, si trova a dover lottare contro il “mostro dalle mille teste” rappresentato dalla burocrazia e dalla corruzione del suo paese, sintomi di una società malata che si basa su regole violente che producono solo violenza.

 

 

Sonia Bonet, dopo l’ennesima crisi del marito malato di cancro, tenta di mettersi in contatto con il professore che lo tiene in cura, ma questi non vuole riceverlo prima dell’appuntamento già fissato di lì a un mese. La donna, temendo sia troppo tardi, insiste per tentare di avere subito un incontro, ma scopre che il professore si fa negare. Il medico in realtà non vuole più prescrivere al marito della donna dei farmaci che, seppur in grado di alleviarne le sofferenze, a causa del costo elevato non sono coperti dalla loro polizza sanitaria; inoltre, il grande gruppo assicurativo a cui è legato, ha tra i propri regolamenti interni assolutamente top secret, il riconoscimento di un bonus a quei professionisti che riescono a raggiungere una certa percentuale di “pratiche di rifiuto” nei confronti di assicurati che non possono permettersi di pagare premi molto elevati.

Un mostruo de mil cabezas ha inaugurato nel 2015 la Sezione Orizzonti della 72^ Mostra di Venezia. Girato in modo che ogni scena venga mostrata dal diverso punto di vista dei vari protagonisti, la pellicola ha la forma del thriller con un accompagnamento musicale che fa presagire in ogni istante l’arrivo imminente di una tragedia. Seppur ambientato in Messico, il film affronta un problema diffuso in molti paesi: quello dell’assistenza sanitaria legata a forme assicurative che creano un discrimine sulla salute delle persone. Rodrigo Plà aveva già sperimentato il thriller a sfondo socio politico sin dai suoi esordi, quando nel 2007 vinse il Leone d’Oro del futuro come miglior opera prima a Venezia ed il Premio Internazionale della Critica a Toronto con La zona, film-denuncia molto coraggioso che identificava nel titolo un quartiere benestante sito al centro di Città del Messico delimitato da alte mura, claustrofobica realtà a cui si contrapponeva l’informe agglomerato urbano delle favelas, due mondi antitetici dove l’elemento “muro” rappresentava al tempo stesso ostacolo da scavalcare e barricata per difendersi.

Con Un mostro dalle mille teste il regista torna sul tema della contrapposizione sociale, offrendoci un’immagine durissima della nostra società contemporanea con regole spietate, che trasformano gli esseri umani in vere e proprie belve feroci disposte a sbranarsi e a ricorrere alla violenza anche per urlare al mondo i propri diritti.

Solo l’abbraccio di un’infermiera e la comprensione di un poliziotto ci richiamano, forse, ad uno scenario di “normalità”… 

data di pubblicazione:04/11/2016


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7 MINUTI di Michele Placido, 2016

7 MINUTI di Michele Placido, 2016

11 operaie sono chiamate a decidere se continuare a lottare o accettare un nuovo, ulteriore compromesso pur di mantenere il proprio posto di lavoro. Un dilemma che coinvolge tutte le operaie dell’azienda tessile di cui loro sono le rappresentanti al cospetto del padrone. Ma ciò che sembra in apparenza una scelta semplice ed immediata, in realtà nasconde mille insidie che andranno attentamente valutate, prima di prendere una decisione definitiva.

 

E se quello che guardiamo non è il cielo ma un mare che sta per cascarci addosso? É ciò che si chiede una delle undici operaie di un’azienda tessile italiana, da poco ceduta ad una multinazionale francese, chiamate a decidere in rappresentanza di tutta la fabbrica se accettare o meno le condizioni della nuova proprietà. Il lavoro è salvo, ma si chiede ad ognuna di loro di rinunciare ogni giorno a 7 minuti della pausa pranzo: cosa sono solo 7 minuti, se in ballo c’è il mantenimento del posto di lavoro? Sono donne, ma anche madri, figlie e future nonne; i loro dialetti si mescolano all’italiano incerto di altre operaie immigrate dall’Albania, dalla Nigeria, dalla Romania. Ma Bianca, che è colei che le ha rappresentate tutte nel Consiglio di fabbrica, dice loro che quei pochi minuti, moltiplicati per il numero di tutte le operaie presenti in fabbrica, sono 900 ore di lavoro in più al mese: vuol dire produrre di più a costo zero e senza nuove assunzioni. E allora, accettare questo compromesso è uno sbaglio? Vuol dire che forse sta vincendo la paura perché, quando tutto crolla, cresce il bisogno di salvarsi? E se si accetta senza problemi, cosa succederà in futuro?

Michele Placido ci racconta una storia ispirata ad un fatto vero, portandoci per mano, senza eccessi, nel cuore pulsante di interrogativi importanti e lo fa affidandosi ad un cast femminile di prim’ordine. Queste donne dovranno in poco tempo emettere un vero e proprio “verdetto” e decidere se accettare o meno una proposta apparentemente innocua pur di vedere salvo il lavoro di tutti. Il film, nato da un testo teatrale di Stefano Massini, si svolge prevalentemente in una stanza in cui le operaie, intorno ad un tavolo, si trovano a dover prendere per tutti una decisione che ha un peso specifico importante, ed evoca in maniera inequivocabile, nell’impianto scenico, La parola ai giurati di Sidney Lumet il cui soggetto è stato ripreso negli anni in diversi adattamenti teatrali. La contrapposizione delle loro storie, i discorsi razzisti che in condizione di nervosismo emergono con prepotenza tra di loro, il voto che ognuna dovrà ripensare perché nel confronto le certezze cominciano a vacillare, sono anch’essi elementi nodali che ci riportano al film di Lumet e ai suoi 12 giurati chiamati a decidere unanimemente su un caso di parricidio che sconvolgerà le loro coscienze.

Tuttavia, nonostante le affinità, 7 minuti è un buon film, che si avvale non solo di una solida e collaudata sceneggiatura, ma anche di una ottima interpretazione corale di: Ottavia Piccolo, Ambra Angiolini, Fiorella Mannoia, Violante Placido (finalmente in un ruolo maturo), Clèmence Poèsy e Sabine Timoteo (bravissime), Maria Nazionale ed Cristina Capotondi; ma soprattutto di una ritrovata verve di Michele Placido alla regia.

data di pubblicazione:03/11/2016


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LA RAGAZZA SENZA NOME di Jean-Perre e Luc Dardenne, 2016

LA RAGAZZA SENZA NOME di Jean-Perre e Luc Dardenne, 2016

Liegi. Jenny Davin è un medico che lavora a ritmi serrati. Pur essendo molto giovane, è stata chiamata a sostituire momentaneamente l’anziano medico titolare di un ambulatorio, riuscendo in poco tempo a conquistarsi la stima dei pazienti del quartiere. In attesa di trovare una struttura a lei più consona e trasferirsi altrove, Jenny si avvale dell’aiuto di uno stagista: un laureando taciturno e problematico, con il quale sovente deve discutere in merito alle procedure da seguire con i pazienti. Una sera, nel bel mezzo di una delle loro discussioni Jenny decide, al fine di controllare che il giovane completi tutte le attività della giornata prima di tornare a casa, di non aprire la porta dell’ambulatorio chiuso già da un’ora pur avendo sentito suonare il campanello…

 

Ma l’indomani si scoprirà che a suonare il campanello, anche se una sola volta e fuori orario, era stata una giovane donna africana, visibilmente in fuga da qualcosa ed anche molto spaventata, come si evince dal video della telecamera di sorveglianza dell’ambulatorio che Jenny dovrà mostrare alla polizia. Il suo cadavere è stato ritrovato proprio quella mattina non lontano dall’ambulatorio, senza un documento o un qualsiasi indizio che ne possa rivelare l’identità. Da quel momento la vita di Jenny non sarà più la stessa.
La ragazza senza nome ha l’andamento di un noir con tanto di colpo di scena finale e tiene a tratti con il fiato sospeso, ma soprattutto è il manifesto di quell’inconfondibile modo dei fratelli Dardenne di scavare nei gesti e nelle scelte quotidiane delle persone comuni, in cui lo spettatore si riconosce. Accolto tiepidamente a Cannes, dove è stato presentato in concorso quest’anno, il film ricorda nella struttura il precedente Due giorni, una notte: in entrambi c’è una sorta di “corsa con il tempo” da parte della protagonista e, come fu per la brava Marion Cotillard che rincorreva i voti dei colleghi per evitare il licenziamento, anche Adèle Haenel, non meno brava nel ruolo di Jenny, è mossa da un forte senso di colpa oltre che dall’etica professionale nel fare la sua personale quanto affannosa indagine al fine di dare un nome a quel volto disperato di donna. Encomiabile la sua figura professionale che non sa darsi pace per aver commesso una leggerezza seppur giustificata, ma pur sempre deprecabile dal suo punto di vista, continuando comunque imperterrita a seguire i suoi pazienti, con dedizione, pazienza, competenza.
Il film tuttavia, come anche fu per Due giorni, una notte, non raggiunge la profondità di Rosetta, la sensibilità de Il matrimonio di Lorna e la magia de Il ragazzo con la bicicletta che rimangono, per chi scrive, film di un’intensità tale da far pensare che i famosi registi belgi abbiano negli anni perso un po’ del loro smalto, pur continuando a mantenere un posto alto nell’olimpo dei grandi per il loro crudo realismo, per la semplicità delle storie e per la poesia della loro narrazione.

data di pubblicazione:02/11/2016


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I, DANIEL BLAKE di Ken Loach, 2016

I, DANIEL BLAKE di Ken Loach, 2016

Io, Daniel Blake non sono un utente, io non sono un consumatore, io non sono un numero di previdenza sociale, io non sono un punto sullo schermo del computer, io non sono una linea nelle statistiche…

Daniel Blake è arrivato alla soglia dei sessant’anni lavorando da sempre nei cantieri edìli come carpentiere; in seguito ad un attacco cardiaco, il medico lo dichiara inabile a svolgere un lavoro così usurante. L’uomo, messo in malattia senza avere la certezza se potrà mai tornare a lavorare, fa richiesta di un sostegno economico statale; ma l’ufficio preposto respinge la domanda dichiarando che non sussistono i requisiti di inabilità al lavoro dichiarati dal medico. Al fine di ottenere almeno la tessera per la banca del cibo e l’eventuale sussidio di disoccupazione, l’impiegata degli uffici di assistenza consiglia a Daniel di iscriversi al collocamento per dimostrare, paradossalmente, che sta cercando lavoro pur sapendo che non potrà mai accettarlo. Al collocamento Daniel conosce Katie, madre single di due bambini, anche lei rimasta senza sussidio ed appena arrivata da Londra a Newcastle perché le è stata assegnata lì una casa popolare. Tra i due nasce un’empatia immediata che aiuterà entrambi a superare momenti molto difficili.
I film di Ken Loach non si possono raccontare, vanno vissuti. Le sue storie hanno la semplicità delle grandi storie e I, Daniel Blake è un film immenso, di quelli che non si dimenticano per il carico di vita ed emozioni che porta con sé e per come, questo magnifico regista, ce le porge.
É un film sull’identità degli individui, sulla loro unicità, sul loro vissuto, sulla loro dignità, sull’esigenza di venire riconosciuti come esseri umani in una società che di umano ha conservato ben poco.
É un film sull’umiliazione gratuita che subiscono tutti coloro che stanno via via incrementando la lista dei nuovi poveri.
É un film sugli anziani, sui disoccupati, su tutti coloro che il lavoro lo hanno perso e sui loro figli, impauriti da un futuro sempre più incerto.
É un film sull’annullamento della dignità, economica e sociale, che viene alimentata dalla non presenza dello stato, spesso inerme ed ottuso.
É un film sull’invasione esasperante delle nuove tecnologie che, diventando sempre più indispensabili, hanno creato nuove forme di analfabetismo, annullando l’utilità per cui sono nate.
É un film sul senso d’impotenza ma anche sull’inaridimento dei sentimenti.
Però, è anche un film su quella incredibile umanità che esiste ancora nonostante tutto ed esce prepotente quando meno te lo aspetti, che arriva da parte di chi vuole comunque aiutare il suo simile sollevandolo dalla sofferenza, creando unione, regalando solidarietà bella, calda, tonda, disinteressata.
I, Daniel Blake è un capolavoro dei nostri tempi bui, che fa pensare, commuovere, riflettere, amare.

data di pubblicazione:27/10/2016


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