da Antonio Jacolina | Dic 19, 2021
La fittizia Clerville degli Anni ’60… Diabolik, il Re del Terrore in calzamaglia nera (Luca Marinelli), incontra per la prima volta Eva Kant (Myriam Leone), ricca ereditiera e proprietaria di un prezioso diamante. Gli eventi avranno però sviluppi inattesi. Si susseguono storie di furti, inseguimenti, evasioni e vendette che l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) cercherà di bloccare…
Diciamolo subito, il Diabolik dei Manetti Bros. è un film che sicuramente dividerà la Critica “paludata e non” ed anche il pubblico tra coloro (pochi?) che lo apprezzeranno e coloro (tanti?) che ne saranno invece delusi. Un film che sarà giudicato, senza vie di mezzo, un’operazione ben riuscita oppure un assoluto fallimento!
Si tratta in effetti di una trasposizione cinematografica destinata prevalentemente a tutti quelli che hanno amato, amano o almeno conoscono l’universo nato dalla fantasia delle sorelle Giussani nel 1962 e le avventure di Diabolik che ebbero un enorme successo popolare nell’Italia di quel decennio e oltre, segnando la storia del fumetto. Non aspettatevi perciò un film con ritmi, tempi, tensione, recitazione dei film di genere o degli action-movie americani, resterete sconcertati e delusi. Al contrario, vi troverete in una perfetta trasposizione vintage, filologicamente aderente ai personaggi ed al mondo degli albi originali, molto lontani quindi dai gusti del grande pubblico cinematografico attuale.
Un’operazione intelligente ma molto intellettuale, molto da cinefili e da appassionati dei fumetti d’epoca. Proprio per questo il film realizza alla perfezione quella sospensione dell’incredulità che è poi la stessa che si prova leggendo le storie di Diabolik.
I Fratelli Manetti sono evidentemente dei grandi fans delle Giussani e si sono assunti l’arduo e stimolante compito di realizzare (dopo l’unico, mitico tentativo di Mario Bava nel 1968, un insuccesso cult) una trasposizione cinematografica del tutto nuova – ma anche calligraficamente fedele – delle storie, dei personaggi, dell’agire e dialogare del fumetto. Un’operazione realizzata con una precisione minuziosa, quasi chirurgica, in tutti i dettagli, con oggetti, atmosfere, ricostruzioni e ambientazioni di interni e di esterni che assemblano differenti scorci di diverse città italiane.
Il ritmo del film non è sempre sostenuto ed a tratti è anche discontinuo ma tutto ciò è voluto, è una scelta ben precisa degli Autori! I tempi dilatati, la lentezza, i movimenti controllati, i dialoghi quasi didascalici o artificiosi, la recitazione degli attori quasi da fotoromanzo sono tali proprio per restituire intenzionalmente sul grande schermo tutto l’effetto delle tavole disegnate, quasi una bidimensionalità ricercata. Le atmosfere, i colori non-colori, gli ambienti urbani notturni, gli angoli bui ove si nasconde Diabolik sono proprio quelli degli albi, quelli di un immaginario nato sotto l’ispirazione dei polizieschi americani degli anni ’40 e ’50 e dei noir francesi, un mondo in bianco e nero. Un esercizio di stile per ricreare l’originale senza mai cadere in banali cliché.
Gli attori sono tutti nel ruolo e recitano secondo la logica e con movenze, espressioni e rigidità che rimandano ai fumetti. Bravo Marinelli, ottimo Mastandrea, ma su tutti primeggia la splendida ed enigmatica Myriam Leone, con palesi richiami alle bionde glaciali ed ambigue che tanto piacevano ad Hitchcock, di cui sono evidenti le citazioni.
Dunque Diabolik farà sicuramente discutere. Operazione riuscita, se la si vuole leggere come un omaggio a un certo tipo di noir, di storie a fumetti o a quei polizieschi italiani degli anni ‘60/’70. Fallita, invece, se si cerca nel film solo intrattenimento ed azione hollywoodiana.
Per chi ama il Cinema, credo che sia comunque un film che meriti di essere visto. Una volta accettati i suoi presupposti potreste anche apprezzarlo!
data di pubblicazione:19/12/2021
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da Antonio Jacolina | Dic 12, 2021
Eve (Catherine Frot), rinomata coltivatrice e creatrice di rose, per salvare la propria piccola azienda familiare ormai prossima alla bancarotta, schiacciata com’è da competitori più organizzati di lei, tenta di creare una nuova varietà di rosa. Ingaggia tre improbabili coadiutori in contratto di reinserimento sociale, del tutto sprovveduti in campo florovivaistico. Una strana coabitazione di caratteri, ma il Caso creerà delle opportunità del tutto imprevedibili…
Come talora accade, la magia di alcuni piccoli film francesi è tutta nella loro capacità di arrivare a trasmettere – al di là delle trame più o meno esili – emozioni e sentimenti. Così come la musica riesce a dare sensazioni con la sola armonia dei suoni, certi film riescono a scaldare i cuori degli spettatori con la sola forza delle immagini e della recitazione.
È il caso del film di Pinaud, la sua opera seconda. Un film che sembra venire da lontano, da un’epoca in cui al cinema si potevano vedere non solo film che raccontavano le vicende della Vita, della vita nella sua cruda realtà, ma soprattutto film che consentivano di sognare e donavano la possibilità di pensare che le cose potessero anche andare a finire bene.
Una piccola commedia, però più profonda di quel che può sembrare, sincera, toccante, ironica ed a tratti affascinante pur nella sua semplicità. Per l’appunto, un buon piccolo film del Cinema di una volta. Un film che al di là dei buoni sentimenti riesce a toccare con sensibilità, humour e tenerezza anche temi profondi: il senso dell’accudimento e dell’impegno, il ruolo del Caso nella vita, l’abbandono affettivo e il valore delle relazioni umane. Piccole sottostorie che il regista saggiamente si limita ad accennare per poi lasciarle andar via, quasi come volesse solo conservarne nell’aria la fragranza. La regia e la messa in scena – assistite da buona sceneggiatura e dialoghi ben cesellati – sono sobrie e classiche, però con qualche piccola, geniale e divertente intuizione. Al centro del film è Catherine Frot che primeggia su tutti con un’interpretazione impeccabile, con lei ed intorno a lei un quartetto di attori che caratterizzano perfettamente i loro personaggi.
La Signora delle Rose è un film gradevole e charmant, sicuramente un feel good movie, senza però essere lacrimoso, stucchevole o manicheo. Un piccolo film sensibile, come i petali delle rose, ma al contempo forte come il loro profumo che può anche restarci dentro per un bel po’.
data di pubblicazione:12/12/2021
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da Antonio Jacolina | Dic 6, 2021
Appena poche settimane fa commentando qui un libro di Geopolitica, accennavamo a quanto la Geografia, nel passato come per l’avvenire, sia uno dei fattori chiave che condizionano le scelte politiche dei vari Stati, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui si sta ritornando ad un mondo “multipolare”. Un mondo dominato dalla rivalità fra poche grandi Potenze. Se il XX secolo è stato il Secolo Americano, per molti analisti, probabilmente, il XXI secolo sarà invece il Secolo Cinese. Quindi, nello scenario politico attuale Cina e Stati Uniti non sono solo concorrenti strategici ed economici ma sembrano anche essere proiettati verso una competizione che potrà portare ad uno scontro o ad un conflitto inevitabile. Inevitabile? Parrebbe proprio di sì! Perché da sempre, quando una potenza emergente minaccia di spodestare quella dominante, il risultato più probabile è un conflitto.
Preceduto dal tam-tam del grande successo di critica, di lettori e di dibattiti fra analisti negli Stati Uniti, ecco uscire fresco di stampa anche in Italia 2034, il Thriller/Saggio che ci dice anche quando, dove e come avverrà questo conflitto fra Cina ed America. Avverrà per l’appunto nel 2034, nel Pacifico Occidentale o Mar Cinese Meridionale, cioè intorno a Taiwan a seguito di una sequenza di errori di valutazione che porteranno alle peggiori conseguenze e, soprattutto, grazie al possesso di tecnologie in grado di introdursi nelle strutture informatiche dei sistemi di difesa ed attacco dell’avversario. Si sa, quasi sempre, le ragioni scatenanti i conflitti sfuggono ad ogni logica e ad ogni deterrente se non a quello della “mutua distruzione”. Ma le tecnologie emergenti possono rendere obsoleto e bloccabile un certo tipo di Potere. Se infatti una delle potenze in competizione dovesse riuscire a trovarsi in vantaggio nella corsa alle innovazioni tecnologiche ed alle armi informatiche, la Politica potrebbe non aver più la forza di controllare le dinamiche e si potrebbe dover cedere il passo alla guerra, alla futura Cyber Guerra.
I due autori hanno tutti i titoli per poter scrivere di tali argomenti: Stavridis, ex ammiraglio, è stato comandante delle forze NATO in Europa; Ackerman (prima di divenire uno scrittore di discreto successo) ha operato sul campo con i marines e con le forze speciali USA, entrambi hanno poi lavorato alla Casa Bianca occupandosi di Sicurezza Nazionale. Sanno di che cosa scrivono, e… scrivono quasi volessero lanciare un monito per quel che potrà accadere!
Si farebbe un torto enorme a voler far passare 2034 per un’opera destinata solo e soltanto a militari, a storici o analisti di geopolitica! Tutt’altro, in realtà si tratta di un libro accessibile a tutti e che può essere letto come un romanzo, un thriller o una fiction su un’eventualità che non è affatto remota. Una fiction ben orchestrata in un universo prossimo venturo immaginario, ma molto probabile e verosimile, perché è verosimilissimo che ci siano certi sviluppi di nuove armi tecnologiche e che le tensioni fra Pechino e Washington siano destinate a crescere sempre di più. Un approccio originale, un’analisi brillante, scritta a 4 mani con prosa scorrevole, competenza e capacità di coinvolgimento. Una lettura attualissima, piacevole ed anche un’opportunità per riflettere. Agli appassionati potrà senz’altro ricordare certi lavori di cui è stato insuperabile creatore lo scomparso Tom Clancy, ma, mentre in quest’ultimo, per quanto accurato e dettagliato fosse, prevaleva scientemente l’elemento romanzesco, in 2034 il brivido è dato invece dal dubbio che possa trattarsi di una realtà futura.
data di pubblicazione:06/12/2021
da Antonio Jacolina | Dic 3, 2021
Montana 1925, i fratelli Phil (Benedict Cumberbatch) e George Burbank (Jesse Plemons) dirigono uno dei più vasti allevamenti del Territorio. I loro caratteri ed aspetti fisici sono diametralmente opposti. Il primo, pur colto, ostenta atteggiamenti rudi, collerici esteriormente virili e rozzi, il secondo è timido e gentile. Quando quest’ultimo sposa la dolce ma fragile Rose (Kirsten Dunst) giovane vedova e madre di un adolescente sensibile ed effeminato e li porta a vivere nel ranch, Phil reagirà contro gli intrusi con una strategia sottile, sadica, spietata ed ambigua, fino a ….
Finalmente dopo 12 anni di assenza ecco tornare Jane Campion. Presentato a Venezia ove ha vinto il Leone d’argento per la regia, quest’ultimo lavoro della cineasta neozelandese ci conferma che il suo talento, la sua mano, la sua delicatezza espressiva non si sono affatto affievoliti. Tutt’altro!!
Diciamolo subito, a scanso equivoci, il film non è affatto un western, semmai è un finto western in cui la Campion destruttura i codici del genere e ne usa gli sfondi naturali per disegnare un vasto dramma psicologico dalle molteplici sfaccettature. Un dramma fra mascolinità torbida ed esteriore e dissidi interiori e repressi. La regista risuscita certo alcuni stilemi tipici del vecchio western classico ma non ci sono però pistoleri, scazzottate o duelli, il mito del cowboy è riportato alla sua realtà originaria di vaccaro, di allevatore e di proprietario terriero. La Campion però è indubbiamente innamorata del genere e, senza forzature nostalgiche, sa disseminare il film di riferimenti e citazioni dei grandi registi (John Ford in primis) che fanno la gioia degli appassionati e che servono alla regista per far notare i segni e le tematiche della modernità che avanza inesorabile. Un confronto fra la fine di un’epoca che è già leggenda e l’affermazione definitiva della nuova era.
Come sempre nei suoi film, la messa in scena della Campion è splendida ed è capace di catturare tanto la maestosità e la vastità degli ambienti che sovrastano uomini, cose ed animali (un Montana tutto neozelandese) quanto la bellezza dei dettagli. Il grande ed il piccolo in una simbiosi che si ritrova in tutto il film e che, a tratti, ricorda il migliore Terrence Malick. Tutto assume importanza ai fini della narrazione, soprattutto i dettagli!! La fotografia poi è splendida, un lavoro su luce e colori che va ben al di là del mero estetismo. Un film da vedere sul grande schermo! peccato che sia passato in sala solo per due settimane prima di essere messo in onda su Netflix.
Il Potere del Cane è un bel film ma è complesso e denso di simboli e significati, un film intimista in cui il non detto, l’accennato è più che rilevante, la suggestione è più importante del manifesto. Un’eccezionale analisi dell’animo umano e delle sue ambiguità. La regista nel farlo si prende i suoi tempi e governa magistralmente tutta l’evoluzione della storia usando ritmi lenti, una sinfonia in crescendo, quasi una tensione trattenuta, senza mai però perdere vigore, restando sempre coinvolgente. Il racconto è diviso in capitoli che seguono il corso dei fatti, delle stagioni e l’evoluzione dei personaggi ed i rapporti fra loro. Ben lungi dal tener lontano lo spettatore tutto ciò, al contrario, lo avvolge e lo coinvolge piano piano, nel sottile ingranaggio e nel gioco perverso dei protagonisti fino a quando, alla fine, le apparenze si dissolvono.
Ulteriore punto di forza del film è poi anche l’ottima performance del quartetto di attori. Al centro e su tutti brilla Cumberbatch. Assolutamente una delle sue migliori interpretazioni tutta giocata sul non esplicito, sul gesto, sulla sfumatura e sull’intensità. L’attore domina il film con la sua presenza.
Pur senza eguagliare i precedenti capolavori della Campion, Il Potere del Cane è senza dubbio un film di autentica elevata qualità, non certo facile, direi impegnativo ma affascinante. Un film in cui la Campion si conferma eccelsa maestra nel fondere gusto estetico, grande spettacolo e studio dell’essere umano.
data di pubblicazione:03/12/2021
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da Antonio Jacolina | Nov 29, 2021
Proseguono le avventure di Assane Diop (Omar Sy) “ladro gentiluomo” emulo di Arsenio Lupin, anzi, riprendono proprio là ove erano state interrotte al termine della Prima Stagione con il rapimento del figlio di Assane … Riuscirà il nostro Assane/Lupin ad avere finalmente giustizia e rivendicare l’onore di uomo onesto del padre e sciogliere così la sua ossessione per la vendetta?
Con qualche mese di ritardo dalla sua uscita ad inizio Estate, abbiamo avuto modo di vedere la Seconda Stagione di LUPIN, la miniserie francese che ha risvegliato, con il suo discreto successo, la Lupin/Mania (basta passare in libreria e vedere quanti libri sul ladro gentiluomo sono stati ristampati anche qui in Italia).
Questa nuova serie si iscrive nella completa ed assoluta continuità della precedente. I cinque nuovi brevi episodi (ca. 45 minuti) conservano la stessa efficacia di mero divertimento e di passatempo gradevole che era e resta negli obiettivi concreti dei realizzatori. Un prodotto, come già dicevamo, che non vuole affatto essere un capolavoro ma che punta, nel suo genere, ad essere efficace, innovativo, piacevole e costruito proprio per essere tutto ciò che serve ad una Serie TV per arrivare a toccare un pubblico vasto, familiare ed intergenerazionale. Accennare cioè a tanti temi badando bene però a restare solo in superficie, avvalendosi di storie e personaggi legati agli archetipi ed ai clichè in un susseguirsi continuo di colpi di scena. L’equivalente 2.0 dei buoni vecchi feuilleton, i romanzi popolari d’appendice di fine Ottocento.
L’arco narrativo riprende proprio là dove si era interrotto, sulla spiaggia di Etretat con il rapimento del figlio di Assane/Lupin e prosegue poi a Parigi ed è altrettanto ricco di azione, ritmo, avventure e sorprese. Ovviamente l’effetto novità della prima Stagione si perde ed il plot è ormai conosciuto e “l’intrigo” è spesso prevedibile anche perché gli sceneggiatori giocano ormai a carte scoperte. Nell’insieme però la nuova miniserie resta ancora gradevole, con gli stessi pregi e gli stessi difetti, ed in più, maliziosamente, una Parigi notturna e diurna usata con una “ruffianeria” tanto piacevole a vedersi quanto smaccata nella realizzazione. Ci sono ovviamente delle incoerenze, delle situazioni poco credibili ed i personaggi di contorno continuano ad essere ancora disegnati in modo superficiale e manicheo, soprattutto fra i “cattivi”, e ad essere interpretati in modo altrettanto superficiale. Ma, quale è la Serie per famiglie che è totalmente priva degli stessi difetti? Quindi, visti gli obiettivi, tutti gli elementi possono essere tanto difetti quanto anche pregi al tempo stesso!
Rispetto alla Prima Stagione questa volta è però cresciuto il “taglio” internazionale, con l’uso (come dicevamo) di una Parigi da cartolina, il ricorso a scene d’azione o spettacolari molto ben confezionate per un prodotto televisivo, girate spesso anche in esterno e con un notevole ed evidente dispendio di mezzi e risorse investite.
Ovviamente al centro di tutto resta sempre lui, Omar Sy, affabile e sorridente, con il suo carisma, la sua simpatia, la sua fisicità e la sua caratterizzazione che riesce a rendere vivo, interessante ed accettabile il personaggio.
In conclusione una Seconda Stagione ancora una volta divertente, ironica ed intrigante che, comunque sia, cattura piacevolmente lo spettatore e … prelude già ad una Terza. Non sarà di certo la Serie del decennio né dell’anno, ma è piacevole da seguirsi e da scordarsi poi subito dopo, proprio come un feuilleton!
data di pubblicazione:29/11/2021
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