VELENO di Hugo Berkeley – Prime Video, 2021

VELENO di Hugo Berkeley – Prime Video, 2021

La serie “Veleno”, targata Amazon Prime, racconta in cinque episodi una vicenda giudiziaria discussa e controversa, passata agli annali come la storia dei “diavoli della bassa modenese”.

Tra il 1997 e 1998 il fazzoletto di terra delimitato dai comuni di Mirandola, Finale Emilia e Massa Finalese si macchia di orrore. Alcuni genitori sono accusati di abusi sessuali nei confronti dei figli minori: le indagini, proseguendo sul filo di un incontrollabile effetto domino, conducono a episodi di pedofilia e satanismo, che dal buio delle case e dei casolari giunge fino al teatro lugubre dei cimiteri.

I bambini parlano, raccontano, si liberano di un peso opprimente.

Gli assistenti sociali ascoltano, domandano, seguono le fila di un racconto che diviene sempre più sconvolgente.

I genitori negano, si disperano, cercano di sfuggire alla morsa di processi in cui la condanna sembra scritta fin dalle battute iniziali.

Una madre accusata si lascia cadere dal balcone. Don Giorgio Govoni, il parroco “alternativo” di San Biagio, indicato da alcuni bambini come il sacerdote delle messe nere durante le quali gli stessi venivano abusati sessualmente e uccisi, muore di infarto. Tutti i genitori coinvolti sono allontanati dai propri figli. Le piccole vittime cercano, a fatica, di tornare a galla dopo l’abisso di tenebre e sofferenza nel quale sono sprofondate.

Proprio quando queste storie sembravano sommerse dalla polvere e dal buio di un passato dimenticato, il giornalista Pablo Trincia si imbatte in una trama che gli sembra contradditoria e lacunosa. Studia il caso, incontra alcuni dei suoi protagonisti e nel 2017 pubblica il poadcast “Veleno”, da cui sarà tratto nel 2019 l’omonimo libro e che rappresenta anche la base su cui è costruita la serie Amazon. Sempre nel 2019, poi, i giornali iniziano a parlare del “caso Bibbiano” e degli affidi irregolari che, di nuovo, tornano a scuotere la tranquillità della provincia di Reggio Emilia.

Il merito di “Veleno” è quello di restituire la complessità di una storia che non si presta né ad essere banalizzata né a trovarsi costretta nelle pastoie binarie del “vero-falso” o del “giusto-sbagliato”. Lo spettatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’atmosfera pirandelliana, degna de “La signora Frola e il signor Ponza, suo genero”: ognuno con la sua verità e le sue ragioni, tante versioni tutte a loro modo convincenti. Cambiando prospettiva, cambia anche la “verità”.

La psicologa Valeria Donati si trova messa impietosamente sotto accusa, ma “Veleno” le dà la possibilità di replicare. Alcuni dei bambini, a partire da Davide, il “paziente zero” che con le sue dichiarazioni ha avviato il contagio dei diavoli della bassa modenese, avanza dei dubbi sulla genuinità delle proprie dichiarazioni, ma altre bambine, ormai donne, confermano gli abusi e rivendicano con forza il proprio ruolo di vittime (non di carnefici).

Allo spettatore, allora, non resta che dubitare. Dubitare di una macchina giudiziaria che è in grado di stritolare chi si trovi nel mezzo dei suoi implacabili ingranaggi, ma dubitare anche di letture che, è il caso di dirlo, potrebbero correre il rischio di “gettare via il bambino con tutta l’acqua sporca”.

data di pubblicazione: 14/06/2021

HOMECOMING – AMAZON PRIME VIDEO, 2018 (PRIMA STAGIONE)

HOMECOMING – AMAZON PRIME VIDEO, 2018 (PRIMA STAGIONE)

Tampa, Florida, 2018. Un centro di accoglienza e riabilitazione di giovani soldati di ritorno dalla guerra. Una terapista entusiasta del suo lavoro e un capo ossessivo e ossessionato. Una calma e una perfezione pronti a rompersi e ad esplodere al primo segnale di cedimento.

L’Homecoming Transitional Support Centre è una struttura che a Tampa, in Florida, accoglie veterani di guerra, allo scopo di riabilitarli fisicamente e psicologicamente, preparandoli così a un rientro indolore nella normalità della vita civile.

Il percorso terapeutico è diretto e monitorato da Heidi Bergman (Julia Roberts), i cui slanci entusiastici nella “missione” della quale si sente investita sono spesso frenati da Colin Belfast (Bobby Cannavale), un capo oppressivo, che comunica solo telefonicamente e che pare orientato da scopi non propriamente altruistici.

L’edificio che ospita il centro è all’apparenza impeccabile: le geometrie simmetriche degli ambienti (e delle inquadrature) e gli arredi “moderni, ma virili” restituiscono l’impressione di una perfezione esteriore che, come tutti gli ordini troppo esibiti, nasconde meccanismi non del tutto trasparenti. Proprio come avviene nell’acquario di pesci rossi che compare nella prima inquadratura del primo episodio: niente è come sembra o, forse, tutto è come vogliono farci sembrare.

Un reduce in particolare, Walter Cruz (Stephan James), emerge dal resto del gruppo: sembra reagire bene al trattamento e, soprattutto, instaura un rapporto di complice fiducia con Heidi Bergman. Proprio il percorso intrapreso insieme da Walter e Heidi porterà alla rottura di uno degli ingranaggi su cui si regge il meccanismo di Homecoming, innescando una catena di progressivi disvelamenti che, anche grazie all’apporto decisivo di Thomas Carrasco (Shea Whigham), “antieroe” impiegato del Dipartimento della Difesa, accompagnano lo spettatore lungo il crescendo adrenalinico che scandisce le tappe della storia.

Le cadenze di Homecoming sono quelle del thriller psicologico fondato su una trama forse non proprio originale, ma sorretto da una messa in scena certamente di prim’ordine. La regia è di Sam Esmail (Mr. Robot), la sceneggiatura è firmata da Eli Horowitz e Micah Bloomberg (autori dell’omonimo podcast da cui è tratta la serie), mentre al centro del palcoscenico campeggia Julia Roberts, che assume anche il ruolo di produttrice esecutiva. Si trattava del debutto di Julia Roberts sul piccolo schermo e la scommessa può certamente considerarsi vinta: in molte scene torna a brillare quella luce che, ormai da qualche tempo, risulta leggermente appannata nei suoi lavori cinematografici.

La durata degli episodi è contenuta, attestandosi su una media di 30 minuti. Ogni episodio dei dieci che compongono la prima serie è armonicamente e solidamente legato agli altri, con un tempo della narrazione che, alternando il passato e il presente, contribuisce a consolidare il pathos del racconto.

A partire dal 22 maggio 2020 sarà distribuita su Amazon prime Video la seconda serie che, speriamo, sia all’altezza della prima.

data di pubblicazione: 20/05/2020

 

DAVID DI DONATELLO 2020

DAVID DI DONATELLO 2020

In questi primi del 2020, segnati da una pandemia che ha costretto all’inerte immobilismo persino l’industria cinematografica, anche David di Donatello si sono visti costretti a cambiare veste.
Originariamente programmata per il 3 aprile, la cerimonia di premiazione della 65ª edizione dei David si è svolta ieri sera.

The show must go on, ma senza pubblico e con pochissimi applausi.
Carlo Conti da solo sul palco, raggiunto a fine serata da Piera Detassis, annuncia i premi con solenne sobrietà, cercando (e trovando) nella sua conduzione un equilibrio certamente adeguato alla particolarità di uno spettacolo forzosamente dimidiato.
Collegati dalle loro case, ci sono alcuni dei candidati: solo quelli, ovviamente, i cui nomi e i cui volti sono più riconoscibili al grande pubblico, anche se ciascuno di loro si preoccupa di ricordare il lavoro di chi “c’è, ma non si vede” e che, in questo momento, sente stretta attorno al collo la morsa di una crisi economica che sta iniziando a mostrare i suoi denti più affilati.

Colpisce e stupisce, anzitutto, la difficoltà ad apparire in video, dalla normalità delle proprie case, da parte di quelli che pure sono professionisti dell’immagine: non tutti hanno una connessione e/o una telecamera adeguata, qualcuno fatica (incredibile a dirsi!) a trovare un’inquadratura e uno sfondo decenti, proprio come, almeno una volta, sarà capitato a molti di noi in questi mesi di “lavoro da casa”.
L’irruzione di fronte alla web cam delle famiglie dei premiati (Anna Ferzetti per festeggiare Pierfrancesco Favino, i parenti di Marco Bellocchio, i figli di Luigi Lo Cascio e di Jasmine Trinca) restituisce almeno un briciolo di quell’emozione, sia pur in versione casalinga, che si addice alle grandi occasioni.

Il trionfatore di questa edizione dei David di Donatello è certamente Il Traditore di Marco Bellocchio, con quella storia di Tommaso Buscetta che, evidentemente, non ha ancora finito di raccontare gli snodi di una vicenda che ha segnato per sempre la storia dell’antimafia.
Il Traditore è il miglior film, Marco Bellocchio è incoronato miglior regista e Pierfrancesco Favino, alla sua prima nomination per questa categoria, si aggiudica la palma di miglior attore protagonista e Luigi Lo Cascio porta a casa la statuetta per come miglior attore non protagonista. Il Traditore vince anche il premio per la miglior sceneggiatura originale e quello di Francesca Calvelli è il miglior montaggio. Insomma, un successo trasversale ed evidente per il film di Bellocchio, che esulta “rivendicando” i suoi 80 anni e l’imperituro desiderio di continuare a girare film in cui crede.
La miglior attrice protagonista è un’emozionatissima Jasmine Trinca per La Dea Fortuna, mentre il premio per la miglior attrice non protagonista se lo aggiudica una onnipresente Valeria Golino per 5 è il numero perfetto.
Il primo re, nominato in molte categoria, conquista i premi per la miglior produzione e per la miglior fotografia (quella di Daniele Ciprì).
Pinocchio si porta a casa i principali premi legati all’ “immagine del film” (scenografia, costumi, truccatore, acconciatore).
Il miglior film straniero è Parasite, mentre il miglior regista esordiente è Phaim Bhuiyan per Bangla.
Tra i momenti più significativi della serata, c’è sicuramente il riconoscimento alla carriera per Franca Valeri, che compie anche i suoi primi 100 anni.

Qui di seguito si riporta l’elenco completo dei vincitori, con la speranza che la stagione cinematografica, in un modo o nell’altro, riesca a ripartire e a riaccendere gli schermi (non solo quelli dei computer o delle televisioni).

Miglior Film: Il Traditore

Miglior Regista: Marco Bellocchio

Miglior Regista Esordiente – Premio Gian Luigi Rondi: Phaim Bhuiyan

Migliore Sceneggiatura Originale: Il Traditore

Miglior Sceneggiatura Non Originale: Martin Eden

Migliore Produttore: Il primo Re

Miglior Attore Protagonista: Pierfrancesco Favino

Migliore Attrice Protagonista: Jasmine Trinca

Migliore Attrice Non Protagonista: Valeria Golino

Miglior Attore Non Protagonista: Luigi Lo Cascio

Miglior Fotografia: Daniele Ciprì

Migliore Musicista: Il Flauto Magico di Piazza Vittorio

Miglior Canzone Originale: La dea fortuna

Migliore Scenografo: Dimitri Capuani

Migliori Costumi: Massimo Cantini Parrini

Miglior Truccatore: Dalia Colli e Mark Coulier

Miglior Acconciatore: Francesco Pegoretti

Migliore Montatore: Francesca Calvelli

Miglior Suono: Il primo re

Migliori Effetti Visivi: Theo Demeris e Rodolfo Migliari

Miglior Documentario: Selfie

Miglior Film Straniero: Parasite

Miglior Cortometraggio: Inverno

David Giovani: Mio fratello insegue i dinosauri

data di pubblicazione: 9/5/2020

APRITE QUELLE PORTE! A QUANDO LA RIAPERTURA DEI CINEMA IN ITALIA?

APRITE QUELLE PORTE! A QUANDO LA RIAPERTURA DEI CINEMA IN ITALIA?

L’emergenza Coronavirus, si è detto e scritto in questi mesi, ha plasmato la realtà secondo un copione che credevamo possibile mettere in scena solo nell’universo immaginifico del grande schermo.

Proprio del cinema, caledoiscopico produttore di storie, si inizia a sentire l’insopportabile mancanza, in un mondo regolato dal distanziamento sociale e in cui il respiro di ciascuno di noi, lungi dall’incarnare il proverbiale alito di vita, diviene potenziale veicolo di morte.

Si tratta, pare opportuno precisarlo, di una questione che riguarda chi il cinema lo guarda, ma anche e soprattutto chi il cinema lo fa. Ogni emozione di cui lo spettatore viene privato equivale a un danno economico per artisti, maestranze, produttori e distributori che risulta ancora difficile quantificare, soprattutto nel medio e lungo periodo.

Ieri sera, durante la cerimonia per l’attribuzione dei David di Donatello consegnati virtualmente e silenziosamente (quasi sommessamente), il ministro Dario Franceschini non è andato molto al di là di quel “stiamo facendo tutto il possibile” che ormai suona come un impotente palliativo di chi fatica a intravedere e a (ri)costruire il futuro.

Cerchiamo, allora, di fare un po’ di chiarezza.

Dal 18 maggio riprenderanno le proiezioni telematiche. Riapriranno, insomma, solo le porte virtuali, riservate, vale la pena precisarlo, a chi disponga di una connessione internet quanto meno decente.

Il progetto, capitanato da LuckyRed, si avvale del supporto digitale di MyMovies e consiste, essenzialmente, nell’apertura di un canale streaming dove saranno disponibili in anteprima alcuni dei film la cui uscita in sala era prevista in questo periodo.

Si paga un biglietto e, all’orario stabilito, inizia la “proiezione”. Tra i primi film disponibili ci sono I Miserabili, Il matrimonio, Il meglio deve ancora venire e Matthias &Maxime.

Solo le produzioni più “strutturate” potranno ambire a una proiezione anche in sala, mentre per gli altri il passaggio in streaming sarà la sola realistica prospettiva.

Il progetto è indubbiamente interessante, specie per evitare che l’emergenza di questo periodo si traduca in un definitivo consolidamento dello strapotere di Netflix&Co, dal quale certamente derivano effetti virtuosi, ma che corre il rischio di staccare la spina alla magia della proiezione in sala, già da tempo in evidente sofferenza.

La speranza, allora, diviene quella di veder scendere in campo anche il Governo, con progetti concreti e non solo evanescenti rassicurazioni, capaci di tornare a somministrare agli spettatori quella medicina del sogno che ai professionisti del cinema garantisce la prospettiva di una vita dignitosa.

data di pubblicazione: 9/05/2020

L’UFFICIALE E LA SPIA di Roman Polanski, 2019

L’UFFICIALE E LA SPIA di Roman Polanski, 2019

L’affaire Dreyfus, una delle pagine più celebri della storia (non solo) francese, diviene la perfetta trasposizione cinematografica di una vicenda senza tempo, in cui le cadenze del film storico si fondono a quelle del legal thriller e in cui ogni ingrediente del racconto contribuisce in maniera determinante alla composizione di un mosaico potente ed elegante.

 

Parigi, 1894. Nella Francia ancora logorata dalla guerra con la Prussia, la “Sezione di statistica” (ovvero i servizi segreti francesi) si muove alla spasmodica ricerca di spie al soldo dell’Impero Tedesco. Tra i sospettati c’è anche Alfred Dreyfus (Louis Garrel), ufficiale di artiglieria che corrisponde esattamente al profilo del traditore ricercato e che, soprattutto, è un ebreo. A seguito di un processo sommario, Dreyfus viene condannato alla degradazione e alla deportazione nella famigerata Isola del Diavolo. Tra coloro che infliggono la condanna esemplare c’è anche il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardine), che di lì a poco si trova inaspettatamente a capo proprio della Sezione di statistica per sostituire l’ormai malato predecessore. Attraverso il nuovo incarico Picquard prenderà consapevolezza di quanto sbrigative siano state le indagini condotte a carico di Dreyfus e a quel punto si troverà di fronte a un conflitto interiore che vede opposti la fedeltà all’Esercito e il senso di Giustizia.

L’affaire Dreyfus rappresenta certamente una delle pagine più note della storia mondiale, che nella versione cinematografica di Roman Polanski è raccontata dall’ottica del colonnello Picquard, offrendo una prospettiva indubbiamente peculiare e, per certi aspetti, originale. Il celeberrimo articolo di Émile Zola, pubblicato nel 1897 da Le Figaro e divenuto con il tempo l’emblema evocativo della libertà di stampa, funziona sul piano narrativo come momento di svolta: il processo a Zola si traduce, di fatto, nella revisione del (non) processo celebrato nei confronti di Dreyfus, innescando una tanto progressiva quanto faticosa presa di coscienza in un caso in cui il “codice d’onore” militare e i pregiudizi razziali hanno finito per prevaricare le più elementari garanzie cui il processo penale post-illuminista è ispirato.

Il legal thriller di Polanski centra perfettamente l’obiettivo: la meticolosa ossessione per ogni dettaglio, unita a una scrittura che scandisce millimetricamente l’andamento della storia e impreziosita dalle musiche di Alexandre Desplat, offre un affresco potente di un caso destinato a divenire un simbolo. Si rivela convincente anche la scelta di girare il film in lingua francese, malgrado il progetto iniziale prevedesse una più internazionale versione inglese.

Inutile chiedersi quanto di Roman Polanski ci sia in Alfred Dreyfus, così come inutile sarebbe “contestualizzare” (ancora una volta) la scelta di inserire J’accuse (titolo originale del film) nella selezione ufficiale di una Mostra cinematografica come quella di Venezia che, almeno “a parole”, ha fatto della questione femminile una delle bandiere di questa edizione. Ciò che importa è che lo sforzo produttivo, visibile fin dalla prima scena del film e che molto deve all’impegno alla lungimiranza made in Italy di Luca Barbareschi e di Rai Cinema, abbia condotto a un prodotto dalla cifra artistica brillante e prepotente. Un racconto storico che scuote le coscienze, mai didascalico eppure capace di impartire più di una lezione allo spettatore disposto ad ascoltarla.

data di pubblicazione:21/11/2019


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