da Rossano Giuppa | Mar 2, 2017
(Teatro Eliseo – Roma, 15 Febbraio/5 marzo 2017)
Carlo Cecchi torna al Piccolo Eliseo con “Il lavoro di vivere” di Hanoch Levin, diretto da Andrée Ruth Shammah in scena fino al 5 marzo, insieme a Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto.
Il testo del drammaturgo israeliano si sviluppa attorno a un letto. Un racconto, tragico e comico, fatto di ricordi e accuse reciproche. Uno spazio circoscritto che diventa un tatami dove, dopo 30 anni di matrimonio, la coppia si scontra e si riaccoglie, tra recriminazioni, rimproveri, insulti, slanci di affetto e rimpianti. È un flashback di vita reale, di passato e presente, di noiosa quotidianità e di paura del domani, di attesa ineluttabile. L’anziano Yona (Carlo Cecchi) a notte inoltrata si sveglia, si alza e ribalta il materasso su cui la moglie Leviva (Flavia Carotenuto) dorme profondamente. Vuole stravolgere la propria esistenza, troppo tranquilla e troppo piatta. Yona è in pigiama. Allaccia la cravatta, indossa calzoni e giacca, prepara la valigia. Vuole andar via per riappropriarsi di una vitalità troppo a lungo messa in disparte. Dal nulla spunta un visitatore, un amico: vuole un’aspirina, forse vuole solo parlare, ma è investito dal rancore dei due. Se ne va, non prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad averli legati per trent’anni l’uno all’altra, abbandonandoli alla loro amarezza. Ma il percorso è avviato ed il destino è segnato; quelle accese ed inutili discussioni sono beffardamente le ultime di una notte che va via portando con se l’uomo e lasciando la donna dinanzi ad una dolorosa e vuota vecchiaia.
Il teatro dell’israeliano Levin, poco rappresentato in Italia ma invece conosciutissimo in Europa è certamente di impatto, caratterizzato com’è da una strana commistione di spiritualità e nero realismo. Il lavoro di vivere è forse il suo testo migliore: un rapido piano sequenza di ricordi alla soglia della vecchiaia di un uomo e una donna confusi e impreparati ad affrontare il domani. Una narrazione solo apparentemente secco e lineare, ricca com’è di riferimenti a Pinter, Bernhard, Brecht: una commedia sarcastica e di cupa ironia, popolata di personaggi poco eroi ma molto veri. Un testo a volte più leggero ma spietato e crudo. Carlo Cecchi e Fulvia Carotenuto sono i due battaglieri e bravi protagonisti, capaci di rappresentare l’incapacità di amare ancora ma soprattutto la paura della solitudine e di quello che la nuova alba porterà loro. Una inquietudine che permane anche con l’arrivo delle luci del giorno e con il silenzio della scena vuota.
data di pubblicazione: 02/03/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Gen 23, 2017
(Teatro India – Roma, 12/29 gennaio 2017)
Dal 12 al 29 gennaio nel foyer del Teatro India è di scena Aminta, S’ei piace ei lice, rilettura in chiave sensoriale e performativa dell’opera pastorale di Torquato Tasso, un dramma satiresco ambientato tra boschi e laghi abitati da ninfe, pastori, satiri, cacciatori e semidei che racconta l’eterna lotta tra Amore e Natura. La rilettura multimediale, firmata da Luca Brinchi e Daniele Spanò, privilegia la dimensione umana della storia ed il contrasto tra istinto e sentimento, spiritualità e natura, tra le leggi della civiltà e le leggi di Natura, il mondo moderno e il favoloso mondo dell’Arcadia in cui a comandare era Amore. Al centro dell’intreccio c’è il rimpianto dell’Età dell’Oro, un luogo e un tempo mitico, nel quale l’uomo viveva libero da vincoli, godeva a pieno dei frutti della Natura e di Amore, animato unicamente dalla libertà e dall’istinto, senza leggi civili a impedire comportamenti ‘eccessivi’.
L’azione e la narrazione non avvengono direttamente in scena ma si sviluppano in un altro luogo in una dimensione virtuale e visiva di enorme impatto grazie alle registrazioni video che scorrono sugli schermi/parete in continuo movimento e animati dalle presenze in video dei protagonisti che cambieranno di volta in volta la prospettiva spaziale della scena. I monologhi sono riprodotti da megafoni distorti, il coro invece è evocato visivamente e sonoramente dai teli animati e dal suono amplificato dei ventilatori.
Una regia ed una messinscena installativa certamente interessanti realizzate da Brinchi e Spanò, a metà tra teatro e arte contemporanea, set design (bellissimi gli abiti della maison Gucci) e sonorità forti, mentre la drammaturgia è a cura di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri. Ci si immerge, dunque, in un universo in perenne divenire, quasi metafisico.
Se piace è lecito, non solo esprime un sentimento di libertà e pulsioni, ma descrive una chiave di lettura profonda della vita umana. Un sentimento, questo, incarnato dalla figura del Satiro, unica figura effettivamente presente in scena, testimone dell’Arcadia, un piacere sensuale, erotico e istintivo, un passato perduto dove le regole erano tacite e assenti e la Natura non tramutava in colpa gli istinti delle proprie creature.
data di pubblicazione:22/01/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Gen 15, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 10/22 gennaio 2017)
Ancora a Roma il Macbeth di Shakespeare, questa volta al Teatro Argentina, in scena dal 10 al 22 gennaio con Franco Branciaroli nella doppia veste di regista ed attore. Macbeth è un’opera complessa, aspra, gotica, sovrapposta, nella quale il linguaggio, già di per sé metaforico, acquista più che mai valore di simbolo, visionario e trascendente.
Scritto tra il 1605 e il 1608, Macbeth racconta la vicenda del vassallo del re Duncan di Scozia che, divorato dall’ambizione e dalla brama di potere, rivelatagli dalla profezia di tre streghe, insieme alla moglie progetta ed esegue l’omicidio del re per salire al trono. Le conseguenze saranno funeste perché la loro coscienza sarà incapace di sopportare l’atroce gesto compiuto. E’ il trionfo dei demoni dell’io, che sovvertono l’ordine morale interno ed esterno dei personaggi fino alle estreme conseguenze, attraendoli e condannandoli al tempo stesso, per il misterioso richiamo che l’uomo da sempre avverte nei confronti del male.
Prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e dal Teatro degli Incamminati, il Macbeth rappresentato si snoda attraverso sentieri di sangue e tenebre che affondano le radici in un malessere psichico interiore. Infatti la regia di Franco Branciaroli colloca la vicenda in uno spazio scenico essenziale che è la proiezione dei sentieri più tetri e nascosti della mente umana.
Macbeth è un debole manipolato dalle donne, un crudele per caso. A sovrastare la sua volontà c’è la Magia Nera, impersonata dal fascino cupo delle Streghe e di Lady Macbeth (una efficace Valentina Violo), che condurranno l’uomo verso ciò che di terribile è già dentro di sé, ma fatica ad esternarsi per inadeguatezza. Un personaggio ambiguo, razionale e irrazionale, complesso. Un debole che si racconta nelle sue molteplici sfumature attraverso un continuo e doloroso alternarsi di parole non supportate da altro in scena, una forza verbale utilizzata come strumento musicale accompagnato dalla capacità interpretativa degli altri otto (bravi) attori.
I sottotitoli e le didascalie proiettati sul fondale identificano come un deus-ex-machina i luoghi in cui si svolgerà la vicenda, mentre le creature demoniache confondono la scena con strane ed efficaci incursioni nel testo originale in lingua inglese.
Le luci oniriche e spettrali di Gigi Saccomandi rappresentano forse l’elemento tecnico di maggiore impatto, in grado di dare un contributo determinante nella creazione dell’atmosfera scenica. Interessanti i costumi di Gianluca Sbicca, barocchi ed evocativi, così come la scenografia di Margherita Palli, una scatola nera e quasi trascendente con un gioco di dislivelli e di varchi che si aprono e si chiudono.
Penalizza certamente la forza dello spettacolo la scelta di eliminare qualsiasi accompagnamento musicale ed anche l’indirizzo di una recitazione un po’ troppo intima e chiusa, asciutta, che finisce per rallentare il ritmo e depotenziare la drammaticità e la coralità della vicenda. Implode la forza del male e del dolore in un dramma della solitudine e della sconfitta assoluta.
data di pubblicazione:14/01/2017
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Dic 19, 2016
(Teatro Eliseo – Roma, 13 Dicembre 2016/ 8 Gennaio 2017)
Uno spettacolo che ha fatto la storia recente del teatro leggero, una commedia, scritta nei primi anni Settanta, opera dello scozzese Williams Douglas-Home, poi adattata dal celebre autore teatrale francese Marc Gilbert Sauvajon, interpretata con grandissimo successo dalla coppia Alberto Lionello e Valeria Valeri e poi portata sugli schermi da Ugo Tognazzi e Monica Vitti, con la regia di Luciano Salce.
L’anatra all’arancia è una pièce con un passato importante, proposta al Teatro Eliseo da Luca Barbareschi – che ne firma anche la regia e Chiara Noschese, la coppia protagonista in crisi matrimoniale, unitamente a Ernesto Mahieux, Gianluca Gobbi e Margherita Laterza, gli altri personaggi tutti veramente bravi nel sostenere la struttura dello spettacolo ed animarla di ritmo e caratterizzazioni, angolando la vicenda secondo i propri punti di vista. Una coppia in crisi e due intrusi nel rapporto, unitamente ad un cameriere, testimone di un ipotetico adulterio ed apertamente schierato con la signora. Nell’arco temporale di un weekend, con al centro una cena in cui è servita la famigerata anatra all’arancia, si consumano gli psicodrammi dei due coniugi. Gilbert e Lisa sono sposati da 25 anni, ma con un ménage matrimoniale oramai in profonda crisi a causa della personalità del marito, inaffidabile, bugiardo, superficiale, orientato al tradimento seriale. Lisa, esasperata, finisce per innamorarsi di un altro, il nobile Volodia, personalità romantica, opposta a quella del marito.
Gilbert architetta allora, nella speranza di riconquistare la moglie, un piano di contrattacco psicologico, invitando il suo amante a casa loro con la scusa di organizzare il divorzio. In quest’operazione, che conduce avvolto nei fumi dell’alcol, Gilbert chiede aiuto alla segretaria giovanissima e sexy, sotto gli occhi interdetti del cameriere il quale, percorrendo il salotto con un’anatra starnazzante, si ritrova a essere il deus ex machina della vicenda.
Una storia che ruota più attorno all’incomprensione ed all’egoismo che alla gelosia. Un lieto fine che alla fine giunge con la buona pace di tutti e che permette alla coppia, una volta riconosciuti i propri errori e quelli del partner, di ritrovarsi e di ritrovare quell’affetto che, nonostante tutto, li ha uniti per tanti anni. Gilbert e Lisa affermano infatti ‘noi due non sarà mai perfetto lo sai, ma sarà noi due’.
Uno spettacolo piacevole e raffinato dai giusti tempi comici, mai eccessivo.
Data di pubblicazione: 19/12/2016
Il nostro voto:
da Rossano Giuppa | Dic 17, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 25 Novembre/18 Dicembre 2016)
Ancora in scena fino al 18 dicembre al Teatro Argentina di Roma Lehman Trilogy, ultimo capolavoro registico di Luca Ronconi, lo spaccato di oltre cento sessanta anni di storia raccontati attraverso le vicende dei Lehman, una delle famiglie più influenti d’America: dalla Guerra di Secessione alla crisi del ’29, tra continue ascese e improvvise cadute, fino al definitivo fallimento del 15 settembre 2008.
Un testo di Stefano Massini suddiviso in due parti, Tre fratelli e Padri e figli. La seconda parte si apre nella New York degli anni Dieci del Novecento. Ai tre fratelli sono succeduti i figli: Philip (figlio di Emanuel) vuole speculare in Borsa, mentre Herbert (figlio di Mayer) si dedica alla politica e diventa governatore di New York, mentre suo cugino Robert riesce a traghettare la società superando la crisi del ’29 fino agli anni ’60, riempiendo l’America “di televisori, di telefoni, di consumo”. I Lehman cambiano pelle, con loro si evolve tutto il sistema finanziario mondiale, si passa dall’economia reale alla finanza. Sono loro gli ultimi eredi della dinastia, alla morte di Robert, la Lehman Brothers finisce in mano a trader aggressivi e senza scrupoli e il declino si fa inarrestabile, fino al crollo definitivo del 2008.
È un’autentica epopea, una saga familiare di tre generazioni: tre fratelli, poi i figli e i nipoti, sempre più voraci in quell’illusione di fare soldi per i soldi, vittime della loro stessa spregiudicatezza. Il collasso della banca è anche, in chiave di metafora, il collasso di una famiglia ormai inesistente, moralmente svanita e preda di nuovi “mostri” ben più agguerriti nell’impadronirsi del potere.
Ed è l’ennesima ed ultima affascinante sfida di Ronconi nel voler tradurre in scena testi impossibili e indefinibili. Un percorso potente, drammatico ed ironico al tempo stesso fatto di ascesa e declino, di capitalismo, di giochi di potere, di banche e denaro, di mutamenti sociali ed economici, specchio delle contraddizioni del mondo in cui viviamo.
La storia della famiglia Lehman è la parabola del sogno americano e della voracità dell’economia. I Lehman riescono a superare tutte le crisi, tutte le guerre e crescono e si accrescono fino allo scontro finale, che li vedrà sconfitti.
Tempi rallentati associati a ritmi vorticosi, la “Trilogia Lehman” di Ronconi si basa totalmente sulla parola, con gli attori che si raccontano, descrivono le azioni, parlano in prima e in terza persona, muovendosi su una scena che è una grande scatola bianca illuminata a giorno, con un orologio appeso, sedie che salgono e scompaiono da botole, tavoli che scorrono, e insegne che disegnano linee. Ogni personaggio che racconta se stesso ed il suo pensiero.
A portare in scena l’ascesa economica e il drammatico tracollo della famiglia americana Lehman un cast di grandi interpreti, con Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Martin Ilunga Chishimba, Paolo Pierobon, Fabrizio Falco, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti e Laila Maria Fernandez.
data di pubblicazione:17/12/2016
Il nostro voto:
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