GREEN BOOK di Peter Farrelly, 2019

GREEN BOOK di Peter Farrelly, 2019

Un uomo bianco e un uomo nero, due classi sociali differenti, due pianeti apparentemente distanti e incomunicabili, un viaggio insieme alla (ri)scoperta di se stessi. Green Book è un film che fa bene all’anima e al cinema, con un impareggiabile Viggo Mortensen a fare da protagonista.

 

Tony Vallelonga, detto Tony Lip (Viggo Mortensen), è un italoamericano che vive nel Bronx dei primi anni Sessanta. Lavora nei locali notturni come “uomo della sicurezza” e, giorno per giorno, cerca il modo di portare a casa quanto necessario ad assicurare a sua moglie Dolores (Linda Cardellini) e ai suoi figli una vita dignitosa: non importa se si tratta di ingurgitare hot dog, di guidare il camion della spazzatura o di “giocare” a dadi o a carte.

Una nuova opportunità di lavoro, però, lo mette di fronte a una scelta per niente scontata: fare da autista a Don Shirley (Mahershala Ali), uno dei pianisti più virtuosi della sua generazione, un uomo colto ed erudito, ma soprattutto un uomo di colore. Lo aspetta una tournée negli Stati del Sud, quelli dove gli avamposti del razzismo sono più difficili da violare: otto settimane lontano da casa, con un “capo nero” da cui prendere ordini, ma con una buona paga pronta a ricompensarlo se l’artista porterà a termine il suo viaggio senza problemi. Dopo qualche esitazione, i due partono a bordo di un’automobile color carta da zucchero, muniti dell’indispensabile “libro verde”: il green book è una sorta di guida turistica, molto diffusa all’epoca, in cui gli afroamericani potevano trovare l’elenco dei ristoranti e degli alberghi a loro “riservati”.

La diffidenza iniziale tra Tony e Shirley si trasforma progressivamente in empatia. Tony protegge Doc, mentre Doc insegna a Tony a scrivere delle lettere d’amore che non si riducano alla rassegna di quel che mangia a colazione o a pranzo.

Osservando Doc dallo specchietto retrovisore, Tony si accorge fin da subito che la mente del suo compagno di viaggio è affollata da molti pensieri: è quello che succede alle persone intelligenti, e chissà se poi è davvero così divertente essere intelligenti. Il genio e il talento, del resto, sono nulla senza il coraggio: il coraggio di dire no, di scendere dal palco quando le luci dei riflettori diventano dei fari che abbagliano le coscienze, di non rinnegare le proprie origini, ma anche di non lasciarsi ingabbiare dagli stereotipi che in quelle origini affondano le loro solide radici. Il coraggio di non perdere la dignità, di insistere, di resistere, di rinascere.

Ispirato alla storia vera di Tony Lip, padre di uno degli sceneggiatori del film (Nick Vallelunga), Green Book non lascia certo indifferenti. La ricetta del road movie è quella tradizionale: l’uomo bianco e l’uomo nero, il povero e il ricco, un viaggio insieme alla (ri)scoperta di se stessi, con l’immancabile osmosi di personalità tra due personaggi apparentemente agli antipodi. Gli ingredienti, però, sono di prima qualità e riescono a fare la differenza anche in una pellicola che, sulla carta, si candidava a divenire uno degli ennesimi esercizi di un genere cinematografico ormai (fin troppo?) collaudato. La sceneggiatura è coinvolgente e mai banale, i personaggi mostrano sfumature caratteriali indubbiamente interessanti, ma è Viggo Mortensen a rendere Green Book un autentico gioiello: grandioso nella sua interpretazione dell’ “uomo straordinariamente comune”, mai sopra le righe eppure capace di “bucare lo schermo”. Senza contare le battute recitate in italiano: meriterebbe un Oscar solo per quelle.

Con Green Book, insomma, si ride, si piange e si riflette, come nelle buone “commedie d’autore” che si rispettino.

data di pubblicazione: 31/1/2019


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BEN IS BACK di Peter Hedges, 2018

BEN IS BACK di Peter Hedges, 2018

Una madre, un figlio, l’amore indissolubile che li tiene legati, l’inferno della tossicodipendenza che trasforma le persone ma non i sentimenti.

 

È la vigilia di Natale. Holly Burns (Julia Roberts) e la sua famiglia allargata si preparano per la rappresentazione annuale in chiesa, per i regali, per la cena in cui ogni ingrediente deve essere quello giusto. Manca solo un tassello allo splendido mosaico che si va componendo: manca Ben (Lucas Hedges), il figlio maggiore di Holly, che sta cercando di disintossicare il suo corpo e la sua anima dal terribile demone della droga. Così, quando Ben si materializza di fronte alla porta di casa, Holly non riesce a trattenere le sue lacrime di gioia. La sua seconda figlia Ivy (Kathryn Newton) e il suo secondo marito (Courtney B. Vance), invece, sono terrorizzati: hanno paura che Ben non sia pronto, che non sia ancora capace di mantenere le sue promesse, che la droga tenga ancora in ostaggio la parte migliore di un ragazzo cui è stata rubata la spensieratezza dell’infanzia e della gioventù.

Holly e Ben raggiungono un accordo: Ben potrà restare a casa solo ventiquattro ore, poi tornerà nella comunità presso la quale sta faticosamente portando avanti il suo programma di disintossicazione. Holly si divide tra la gioia e il sospetto, tra l’amore della madre di Ben e il terrore della madre di un tossicodipendente.

Il ritorno di Ben, in effetti, non si rivela privo di conseguenze. A seguito di un incidente in casa, Holly e suo figlio inizieranno uno spasmodico viaggio proprio durante la notte di Natale: un viaggio che per Holly somiglia molto a una discesa agli inferi, che la porterà a guardare negli occhi le persone e i luoghi, colmi di disperazione e di degrado, in cui Ben ha trascorso buona parte della sua giovane vita. Holly imparerà a conoscere meglio suo figlio e, soprattutto, il temibile potere oscuro dell’eroina. Nonostante tutto, però, resterà la madre di Ben, pronta a rischiare anche la sua vita pur di essere presente quado suo figlio avrà bisogno di lei.

Ben is back, seguendo le cadenze di una parabola del figliol prodigo in versione contemporanea, è certamente un film che si caratterizza per una buona scrittura, a cui però manca un tratto che lo caratterizzi in maniera decisiva: l’impressione è quella di un racconto, pur nel complesso godibile e, nell’ultima parte, commovente, che non riesce a raggiungere le vette del film “da incorniciare”. Inappuntabile e da applausi la prova di Julia Roberts, il cui volto è capace di raffigurare l’intera gamma delle emozioni da cui è travolto il suo personaggio: la felicità, la paura, l’orgoglio, il coraggio, la disillusione. Non sempre all’altezza il coprotagonista Lucas Hedges, diretto dal papà Peter, che, per contro, non riesce a reggere il peso delle innumerevoli ed eterogenee sfaccettature che affrescano un personaggio indubbiamente complesso.

Un film da vedere, dunque, se non altro per il “coraggio” di riportare sul grande schermo il tema della tossicodipendenza, molto di moda negli anni Novanta e rispetto al quale è bene che (almeno) il cinema non spenga i riflettori.

data di pubblicazione: 30/12/2018


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PIXAR – 30 anni di animazione

PIXAR – 30 anni di animazione

(Palazzo delle Esposizioni – Roma, 9 ottobre 2018/20 gennaio 2019)

La mostra Pixar 30 anni di animazione, ospitata dal Palazzo delle Esposizioni a Roma, propone un viaggio nel “dietro le quinte” di alcuni dei cartoni animati che hanno segnato l’immaginario delle ultime generazioni di bambini e di adulti: Monster&Co, Toy Story, Alla ricerca di Nemo, Ratatouille, Up!, Cars, Gli Incredibili, Inside Out, solo per restare ai titoli più evocativi.

La mostra mette in primo piano quelli che solitamente, specie nei film di animazione, sfuggono all’attenzione del pubblico: coloro che pensano la storia e coloro che a quella storia danno forma e colore, attraverso uno studio scientificamente minuzioso del movimento, delle espressioni, delle caratterizzazioni grafiche di ogni singolo personaggio e del mondo creato per ospitarli. L’occasione è indubbiamente preziosa: i bozzetti e i disegni digitali, nonché le statue di alcuni degli eroi più celebrati del grande schermo animato, offrono un viaggio che gli adulti saranno in grado di apprezzare più dei bambini.

Ci si sarebbe aspettati, forse, una maggiore ricchezza di materiali e qualche sforzo in più sul piano interattivo: è vero che tutto nasce dal tratto di una matita, ma è altrettanto vero che quegli effetti di animazione che hanno fatto la fortuna della Pixar avrebbero forse meritato una maggiore valorizzazione.

Non è un caso che le due “sale interattive” allestite nella mostra rappresentino le “attrazioni” che riscuotono il più evidente apprezzamento da parte del pubblico. Nella prima sala si resta letteralmente rapiti e ipnotizzati dallo zootropio, un dispositivo ottico che, attraverso una combinazione di piccole statue e di luci stroboscopiche, crea l’illusione del movimento sotto gli occhi meravigliati dei più piccoli (e non solo). La seconda sala è quella dell’Artscape, un’installazione digitale creata appositamente per la mostra e che consente allo spettatore di perdersi tra il magico fluttuare di mondi ricchi di colore e di fantasia.

Il prezzo relativamente elevato del biglietto (12,50 euro) è compensato dalla mostra dedicata a Pietro Tosi (fino al 20 gennaio 2019), ospitata dal secondo piano del Palazzo. Obbligata anche la tappa per l’esposizione gratuita Roma Fumettara (fino al 6 gennaio 2019), attraverso la quale la Scuola romana di fumetti offre visioni originali e suggestive di una città eterna che, evidentemente, ha ancora molto da raccontare.

data di pubblicazione: 9/12/2018

IL VERDETTO – THE CHILDREN ACT di Richard Eyre, 2018

IL VERDETTO – THE CHILDREN ACT di Richard Eyre, 2018

Un giudice, una donna, la vita privata che non riesce a tenere il passo con quella professionale, soprattutto quando né il diritto né la religione né l’etica offrono quelle risposte che solo la coscienza è in grado di suggerire.

Fiona Maye (Emma Thompson) è un giudice dell’Alta Corte britannica e spesso si trova a confrontarsi con le questioni che, pur gravitando intorno alla sfera del diritto di famiglia, finiscono per impattare la bioetica e il biodiritto: come quando il giudice Maye deve decidere se autorizzare o meno la separazione di due gemelli siamesi nella consapevolezza che uno di loro morirà.

Fiona è una donna tanto decisa e risoluta sul lavoro quanto, neanche a dirlo, debole e vulnerabile nella sua vita privata: il matrimonio con Jack (Stanley Tucci) vive un momento di crisi e di fronte al bivio tra lavoro e famiglia Fiona sembra vacillare.

Proprio in questo momento arriva sulla sua scrivania il caso del giovane Adam (Fionn Whitehead), un diciasettenne Testimone di Geova che, pur gravemente malato, rifiuta per ragioni religiose la trasfusione di sangue che potrebbe salvargli la vita. Da una parte la libertà di autodeterminazione del singolo, espressa attraverso i suoi genitori (Ben Chaplin e Eileen Walsh) perché ancora minorenne; dall’altra parte la fede, con la sua irrinunciabile carica di irrazionalità. Il giudice Maye, seguendo una procedura per molti aspetti irrituale, decide di incontrare Adam in ospedale, forse per cercare nei suoi occhi quello che non riesce a trovare nella legge.

L’incontro rappresenterà uno spartiacque tanto nella vita di Fiona quanto in quella di Adam, ponendo il giudice al crocevia tra diritto e giustizia e dimostrandole quanto sia complicato tenere fuori i sentimenti da un’aula di tribunale.

Tratto dal best seller La ballata di Adam Henry di Ian McEvan, che firma anche la sceneggiatura del film di Richard Eyre, Il verdetto mostra il suo più evidente punto di debolezza proprio nella scrittura, scarsamente incisiva, poco empatica e pericolosamente incline ad annullarsi in quello stereotipo della “donna in carriera” che finisce per fagocitare l’intera storia. La concatenazione di eventi innescata dall’incontro tra Fiona e Adam conduce in maniera fin troppo prevedibile all’esito della storia, senza che la componente “giudiziaria”, che pure dovrebbe rappresentare il perno centrale del film, riesca a emergere in maniera convincente.

Inutile soffermarsi sull’interpretazione di Emma Thompson, tanto intensa quanto misurata, che certamente rappresenta la punta di diamante del film. Resta sotto tono Stanley Tucci, confinato nel ruolo di “spalla” rispetto a un personaggio, quello del giudice Maye, indubbiamente pervasivo.  Strepitoso Jason Watkins, nel ruolo del cancelliere del giudice Maye che, probabilmente, è uno dei personaggi più riusciti del film.

data di pubblicazione: 13/11/2018


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LA DISEDUCAZIONE DI CAMERON POST di Desiree Akhavan, 2018

LA DISEDUCAZIONE DI CAMERON POST di Desiree Akhavan, 2018

In una Festa del Cinema particolarmente attenta alle tematiche “di genere”, come quella appena conclusasi a Roma, The Miseducation of Cameron Post si colloca dalla prospettiva, ironica ma disillusa, dell’età adolescenziale.

 

Cameron (una impeccabile Chloë Grace Moretz) è una liceale che cerca di sembrare come tutte le altre ragazze della sua età, con tanto di brufoloso accompagnatore al ballo della scuola. Intrattiene però una relazione con la coetanea Coley (Quinn Shephard), che fa parte del suo stesso gruppo di studio della Bibbia: è un rapporto coinvolgente e idilliaco, ma quando le due ragazze vengono scoperte, Cameron è costretta a “ricoverarsi” nella comunità religiosa God’s Promise.

All’interno del centro i ragazzi deviati, affetti dalla sindrome ASS (attrazione per persone dello stesso sesso) o, sono chiamati a un processo di rieducazione che dovrebbe portarli a prenderli consapevolezza dei loro peccati e a guarire, con l’aiuto di Dio e dei responsabili della comunità, dalle proprie perversioni.

Il percorso alla quale Cameron è chiamata risulta a tratti paradossale. Da una parte, la causa di tutti i mali sembra essere proprio quella famiglia tradizionale, basata su sane relazioni eterosessuali, di cui tutti cantano il mito e dovrebbe rappresentare la salvezza dal peccato. Dall’altra parte, gli educatori, pur ostentando serenità e sicurezza, sono forse più instabili emotivamente degli ospiti che pretenderebbero di rieducare. L’incontro con Jane Fonda (Sasha Lane) e Adam (Forrest Goodluck) servirà a Cameron per portare a termini il suo processo di “diseducazione”

Il film di Desiree Akhavan, vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultima edizione del Sundance Festival, è tratto dall’omonimo romanzo di Emily M. Danforth, che ha acceso i riflettori sull’equivoca realtà dei centri di rieducazione americani per ragazzi che di problematico hanno solo i pregiudizi con cui sono chiamati a fare i conti.

I toni del racconto, mai morbosi o eccessivamente cupi, rendono plasticamente la “normalità” di quello che si pretende di additare come anormale, restituendo l’impressione che la realtà distorta e “diseducativa” sia proprio quella attorno a cui è costruito God’s Promise: il karaoke con canti religiosi e le band rock che intonano canti al Signore.

data di pubblicazione:31/10/2018


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